From the bottom of Memories

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Silenzio. Buio. Uno schianto. Freddo. L’eco lontano di una disperata richiesta d’aiuto. Silenzio.

Gli occhi di Manuel si spalancarono improvvisamente nella stanza che la luce del sole stava lentamente iniziando ad invadere.
Era l’alba e Roma tornava pigramente a trasformarsi nella metropoli brulicante di vita che era. Lo capiva dal brusio che proveniva da fuori la sua finestra, da quel mondo esterno che, quel giorno, sembrava pendere sul suo capo come l’ascia di un boia pronta a recidere la testa appoggiata sul ceppo. Non aveva neppure bisogno di controllare la sveglia per sapere di non essere nel torto: era ormai una settimana che quel copione si ripeteva ogni mattina, sempre uguale, sempre lo stesso, al limite di una svilente monotonia.
Quel giorno tuttavia qualcosa di diverso c’era.
Le sue gambe parevano rifiutarsi di obbedire alla coscienza che dava loro ordine di muoversi per permettergli di mettersi in piedi e le sue viscere ribollivano come un animale rabbioso. E questo per glissare sul cuore. Non occorreva essere un genio della psicologia per capire che quella sensazione devastante era paura ma non la paura che aveva provato quando Sbarra e il suo scagnozzo si erano presentati a casa sua quella giornata disgraziata, minacciandolo di spezzargli le ginocchia e devastandogli casa. No, quella era una paura giustificata: aveva il suo bersaglio ed era passata nel momento in cui la minaccia esterna si era dissolta col tintinnare delle manette. Stavolta invece non era così facile liberarsene perché la minaccia, se così si poteva dire, veniva dall’interno ed era impossibile per lui ignorarla.
Era, infatti, una paura dettata dal senso di colpa e dall’ansia che lo torturavano da giorni ormai e che, a quanto sembrava, avevano deciso di collaborare per rendergli ancora più difficile fare quello si accingeva a fare quella mattina: affrontare Simone e scoprire una volta per tutte se c’era speranza di salvare qualcosa di ciò che erano stati o se aveva rovinato tutto come sempre accadeva quando si affezionava a qualcuno.
Aveva tentato di rimandare quel momento, giustificandosi col fatto che fosse troppo presto e che i medici non avrebbero concesso visite a coloro che non facevano parte della cerchia ristretta dei familiari del loro paziente per ragioni imperscrutabili che solo loro capivano. Ma anche quell’appiglio gli era stato tolto il giorno prima, quando il professore, rispondendo ad una domanda di Laura, aveva annunciato che i medici avevano dichiarato definitivamente Simone fuori pericolo e aperto le visite a chiunque volesse farlo.
A quel punto sottrarsi non sarebbe stata un’opzione: Simone aveva deciso di schiantarsi proprio sotto casa sua e, pur se strafatto dall’alcol e dagli acidi che aveva in corpo, si era messo in animo di guidare da Dio solo sapeva dove fino a lui, evidentemente ritenendolo un posto sicuro. Non andare sarebbe risultato meschino e lui non era pronto a sostenere gli sguardi di riprovazione che gli sarebbero piovuti addosso da ogni parte, a cominciare da sua madre per finire alla scuola, se si fosse sottratto a quel dovere.
Non aveva più la forza di fregarsene di tutto e di tutti. Non che l’avesse mai avuta in realtà, ma la maschera di strafottenza che per anni aveva indossato era andata in pezzi il giorno stesso in cui Simone era entrato nella sua vita e aveva dimostrato di volerci ostinatamente rimanere.
Sguardi accusatori del prossimo a parte, Manuel sentiva di voler effettivamente rivedere l’amico che aveva rischiato di perdere per la sua idiozia.

Amico.

L’eco di quella parola continuava a rimbombare nella sua mente, così vuoto e privo di significato. Gli sarebbe piaciuto poter definire Simone come un “amico” ma sapeva nel profondo del suo essere che non era così che stavano le cose e che, anche se ancora non riusciva a spiegarselo, ciò che sentiva per lui era ben più di semplice amicizia. Certo, era nata come tale, ma il tempo l’aveva resa qualcos’altro, qualcosa di unico che aveva resistito ostinatamente ad ogni suo tentativo di soffocarlo, reprimerlo o sradicarlo dal cuore. Del resto lui aveva avuto parecchi amici prima di Simone ma non era mai finito stretto in un vicolo illuminato di rosso con nessuno di loro, appeso per le labbra e con i corpi aggrovigliati come vipere, stretti quasi fino a farsi male mentre le mani scivolavano sui corpi prive di paura e con mete ben precise a cui giungere per poi… Sentì il volto avvampare e le labbra incresparsi in un sorriso di piacere e questo fu sufficiente a riportarlo alla realtà. Scosse la testa per tentare di scrollarsi di dosso il ricordo di quella sera, consapevole che sarebbe tornato alla coscienza non appena avesse abbassato la guardia. Mentalmente maledisse quella sensazione e il panico che gli provocava, pensando che era stato proprio per quello che aveva maltrattato Simone e lo aveva spinto sul percorso che lo aveva quasi portato ad ammazzarsi. Non ce l’aveva con lui quando gli aveva detto che era stato praticamente il balocco di una sera e che per lui era come se non esistesse, che ciò che avevano condiviso qualche ora prima si riduceva ad una cosa divertente che però aveva lo stesso valore di una lattina schiacciata che non era valso nemmeno il tempo di essere gettata nell’apposito contenitore. Gli aveva fatto del male semplicemente perché non poteva far lo stesso alla reale causa del suo malessere, sfogando l’odio per sé stesso sulla persona più vicina a capirlo. Proiezione. Così aveva sentito dire che si chiamasse quella cosa che aveva fatto da uno di quegli assurdi programmi TV davanti a cui sua madre crollava ogni giorno. Pensò che, effettivamente, era un bel modo per definire il comportarsi da stronzi.
No, decisamente Simone Balestra non era un suo amico e quel che era peggio era che non sapeva nemmeno se avrebbe potuto continuare a definirlo tale visto quanto successo nell’arco di quelle folli 48 ore. L’unica cosa che lo consolava era che, essendo vincolato al letto, almeno stavolta non lo avrebbe potuto attaccare di peso ad un albero come una pallina di Natale.

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