Conclusi il mio romanzo così, un taglio netto e fine della storia. Avrei spiazzato il lettore lasciandolo nel dubbio più concreto. Freddezza, instabilità e abbandono. Una doccia gelida in un frangente inaspettato. La perdita di una persona proprio nel momento in cui aveva deciso di affidarle tutto. Lanciai un messaggio e lo feci nel modo più diretto ed esplicito possibile: la disaffezione è femmina. Alla base non c’era nessuna forma di maschilismo, si trattava semplicemente di un punto di vista in relazione a statistiche ed esperienze. Né positivo né negativo. Pragmatico.
Una storia basata su una relazione apparentemente perfetta costruita su un terreno molle, prima o poi sarebbe franato. Esternamente sana, internamente infetta da gravi patologie, un caso complicato. Francesca aveva solamente preso l’iniziativa, attuato una terapia d’urto, la soluzione estrema. Non sarebbe più tornata indietro facendo emergere la vulnerabilità maschile di Antonio di fronte a tale situazione.
Dopo mesi e mesi di lavoro avevo tra le mani la prima stesura, solamente una bozza. Una scultura grezza che doveva essere ancora levigata. La storia aveva preso forma, mancavano i dettagli. Avrei dovuto leggerla, correggerla, cambiarla. Tagliare e aggiungere pensieri e dialoghi. Ricamarla e abbellirla con metafore e citazioni. Poi rileggerla ancora e ripetere la procedura più volte, come un accurato lavoro “taglia e cuci” di sartoria. Ci sarebbe voluto tempo prima di tirare fuori l’abito confezionato. C’erano operazioni da compiere e imperfezioni da sistemare. La prima fase era conclusa, avevo perlomeno qualcosa di concreto tra le mani su cui lavorare.
La struttura era pronta dovevo applicare le migliorie. Lo immaginavo come un appartamento nuovo, vuoto, non rifinito; spettava solamente a me l’onere di arredarlo, abbellirlo nel miglior modo possibile. Renderlo piacevole, emozionante, coinvolgente. Lo scopo era quello di tirare fuori qualcosa di valido che sarebbe rimasto nel tempo.
Era capitato tutto per puro caso, la magia di una semplice intuizione. Una spinta che mi aveva permesso di proseguire portando a termine il manoscritto. Mi erano piovute addosso idee astratte, forse un po’ irrazionali, incoerenti, una sequenza di parole raccolte qua e là nel corso degli avvenimenti quotidiani. Cose viste, vissute o solo immaginate. Tasselli essenziali che avrebbero potuto mettere la parola “fine” a una storia semplice, priva di un particolare intreccio, senza il bisogno di aggiungere ulteriori e complesse spiegazioni che non sarebbero servite a nulla, perlomeno non in questo romanzo.
Erano mesi, per la precisione sei, che non riuscivo ad andare avanti. Mi ero fermato allo stop, si era spento il motore. Immobile e smarrito al centro di un incrocio in mezzo al nulla, statico, privo di idee, con un estro ormai completamente eclissato. Alcuni lo chiamano “il blocco dello scrittore”, per me era semplicemente non avere più nulla da raccontare, un vuoto assoluto legato a una crisi esistenziale. Non avrei potuto procedere senza l’impulso di un’ispirazione, mi servivano stimoli: situazioni intriganti, emozioni forti, magari una donna, quella che nell’arte viene chiamata una musa ispiratrice. Li cercai e non trovai nulla. In mancanza di meglio dovetti accontentarmi di un escamotage nato in un piccolo istante di estro creativo. Tagliai corto inserendo un finale inaspettato e illogico. Era stato come rimettere in moto l’auto e proseguire fino a destinazione. Percezioni, ispirazioni e immagini si tramutarono in un’idea concreta, la chiave per terminare il romanzo. Situazioni captate per strada, ricordi riaffiorati, sentimenti accantonati e riemersi. Mescolai tutto quanto e lo filtrai come una tisana cercando di far uscire qualcosa di buono, un concentrato di vita.
Si trattava di una faccenda che andava svolta al momento, senza poter essere programmata. La scelta era caduta su quel sabato di fine marzo. Non avendo impegni di lavoro o cose importanti da fare sfruttai la situazione. Durante la giornata avevo trascritto su dei foglietti di carta pensieri estemporanei e idee alla rinfusa. Li avevo davanti agli occhi sparsi senza un ordine logico. Tentai di sistemarli, ordinarli, elaborarli, rivederli, scartarne alcuni, prenderne altri, inserirli in un giusto contesto e romanzarli adattandoli alla storia. Non era un affare da poco.
Decisi di provarci, non avrei potuto rimandare ancora. Cambiai il programma della serata, rinunciando a una serie di cose: amici, alcol e divertimento. Il solito sabato sera da ormai più di vent’anni. Un cliché di un soggetto avvezzo al susseguirsi delle identiche e ripetitive mondanità. La solita gente, gli stessi locali, le medesime situazioni, l’abituale sbronza che, nella maggior parte dei casi, non mi avrebbe lasciato altro che uno strascico di delusione e un’insopportabile spossatezza nel giorno seguente. Non sarebbe di certo morto nessuno se avessi deciso per una volta di non farmi il solito giro di giostra. Avevo girato la ruota e l’ago aveva puntato sulla serata alternativa. Escogitai un’opera di autoconvincimento e rimasi a casa completamente solo. Mi ero fatto una sega giusto per togliere dalla mente stimoli e ripensamenti. Spensi il telefonino per evitare ogni comunicazione con l’esterno, sopprimere qualsiasi forma di tentazione e distrazione. Sarebbe stato fondamentale affrontare il compito in un ambiente sterile, non contaminato, vergine.
Volevo e dovevo portare a termine il progetto. L’aspro senso di incompletezza si era esteso, aveva sconfinato i propri limiti, intaccato la mia sfera privata, infettato l’umore. Non ero più lo stesso negli ultimi tempi, così mi avevano detto le persone a me vicine. Dovevo separarmi da un legame divenuto dannoso e opprimente.
Aprii la finestra per cambiare aria, faceva più fresco del solito, stava iniziando a piovere. Fu una manna dal cielo, facilitò la mia scelta rendendola motivata, indolore e priva di rimpianti. Sembrò tutto perfetto. Mi ero accomodato nel soggiorno in compagnia di un computer portatile, una tazza di tè bollente e un pacchetto di Lucky Strike, quelle forti. Poche cose, indispensabili e sufficienti, non avrei necessitato d’altro.
Aprii il file e rilessi alcuni passaggi. Immaginai la scena, mi calai nella storia e iniziai a scrivere. Lettera dopo lettera, parola dopo parola, nel giro di qualche ora il cerchio si chiuse e il manoscritto prese forma diventando una cosa concreta e tangibile. Non avendo alternative migliori, scelsi una fuga come via d’uscita, un finale breve e insensato. Avevo tirato giù di colpo la saracinesca, era stato rapido e indolore, più semplice del previsto. Per mesi mi ero arrovellato il cervello cercando una cosa di cui non avrei avuto bisogno. Colsi la soluzione, l’avevo sempre avuta a portata di mano senza essermene accorto. Non avevo creato nulla di particolare, era bastato inserire un cambiamento repentino e soprattutto inaspettato di Francesca. Avevo lasciato emergere il suo essere donna, non c’era nulla di strano. Si era sviluppato un finale alternativo da lasciare il lettore con l’amaro in bocca, concedendogli però il libero arbitrio su come interpretare l’epilogo della vicenda. Evitai volutamente di essere troppo esplicito, lavorai sull’astratto descrivendo emozioni e stati d’animo, scartando l’idea di inserire una trama logica e complicata. Situazioni coinvolgenti, dialoghi interessanti e personaggi singolari; era questa la formula che avevo scelto utilizzando qualsiasi cosa purché emozioni. Un sogno può essere bello anche se privo di logica, lo avevo letto da qualche parte.
Ero ancora molto indeciso sul titolo, ci avrei pensato nei giorni a seguire.
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GIUSTO PER NON LASCIARCI COME DEI CANI
General FictionLucio, quarantenne e scrittore per passione, colpito da un vuoto di estro creativo, conclude la stesura del suo primo romanzo inserendo un finale forzato che non lo convince. Coglie l'occasione di un'aspettativa proposta dal suo datore di lavoro per...