Parte 1

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Quel giorno l'aria era umida e calda, molto più di quanto non mi sarei aspettata da una normale giornata autunnale a New York, specialmente considerando che fossero le nove di sera. Ero in ritardo e ogni persona, perfettamente integrata nella sua quotidianità, sembrava ricordarmelo. Dalle vetrine dei ristoranti vidi un bambino addentare il dessert. Sentii i crampi allo stomaco. Se non avessi aumentato il passo, avrei perso la consegna della pizza. Merda. Odiavo essere in ritardo. Odiavo dover correre, odiavo dover cercare di non andare addosso ai poveri passanti e odiavo avere i capelli sulla mia faccia sudata. Fortuna che erano corti. Arrivai al mio appartamento, finalmente, dopo un periodo di tempo che mi parve simile a un'eternità. Eppure mettervi piede non mi confortò. Era completamente in disordine. Come diavolo avevo fatto a ridurre un bilocale in quelle condizioni? Sbuffai e gridai dalla frustrazione. Pensai a mia madre e mi uscì un ''te l'avevo detto'' dalla bocca. E' vero, me l'avrebbe detto. Sorrisi tra me e me. Dio, quanto amavo quella donna. E la sua cucina. Amavo la sua cucina più di ogni altra cosa al mondo. Dopo aver pulito l'avrei chiamata e le avrei raccontato che, come al solito, avevo mangiato una pizza.

Vivere da soli non è facile, specialmente quando si è una ragazza di ventisette anni che lavora quindici ore al giorno per uno dei più importanti giornali di New York. Ancora, dopo anni, non mi sembrava vero che il mio sogno si fosse realizzato. Avevo studiato duramente al college e avevo sacrificato tanto, ma ogni pezzo aveva, chissà come, trovato il proprio posto nel grande puzzle della mia vita. Mancava solo un piccolo passo verso la mia definitiva realizzazione lavorativa...ottenere una promozione, e quindi il trasferimento a Parigi, la città dei miei sogni.
Era vero, non facevo sesso da un'eternità, ma non era quello il prezzo del successo? E chissà quante altre notti avrei passato senza un fiancè, prima della tanto agognata promozione.

Mi fermai davanti allo specchio, guardando la pancetta e e le guance paffute prima, poi la gonna che mi arrivava appena sopra il ginocchio e che nascondeva delle gambe che non erano state toccate dal paleolitico. Senza pensarci troppo, presi una tazza di vino. Un bicchiere dopo l'altro, iniziai a pensare all'impensabile. Avrei sistemato dopo casa.

Lavorare per il giornale Avant-garde era stato il mio sogno da quando avessi avuto memoria. Da più di mezzo secolo la famiglia Cooper aveva dettato legge nel guardaroba degli americani. Ero fiera di essere parte di quel mondo patinato e ,soprattutto, ero fiera di essere diventata, dopo cinque anni, caporedattrice. Non so perché ma Lisa e Jason, i signori Cooper, avevano visto qualcosa di speciale in me dal primo giorno. Non ero la ragazza più alla moda d'America, ma dovevano aver capito quanto bruciasse in me il desiderio di farcela, di sfondare. E col loro aiuto, quel fuoco che avevo dentro aveva bruciato fino a diventare una grande fiamma.

Malgrado ciò, a quindici anni, non avrei mai immaginato che a quell'età il personaggio cinematografico più simile a me sarebbe stato Bridget Jones, soprattutto considerando che, a quanto ricordavo, da bambina non nuotassi nuda nel giardino dei vicini, né avessi un capo bastardo ma molto sexy. Immaginare Jason Cooper che mandava messaggi alle sue dipendenti sulle loro gonna corte mi diede il voltastomaco. Quel che più si avvicinava a quella fantasia era il figlio dei signori Cooper, Jonathan. Ma era il più grande idiota che avessi mai conosciuto e, per quanto ne sapevo, era in giro in Europa a cercare di non farsi sbattere fuori da tutti i club alla moda.
Pensandoci bene, però, c'era anche di peggio: potevo assomigliare a Rose Dawson e far morire Leo di ipotermia perchè il mo culone non aveva voluto lasciargli spazio sull'iceberg. Buttai giù un altro sorso; mi era quasi andata bene.

Il giorno dopo mi svegliai con un gran mal di testa, sfinita sul divano, segno che il vino aveva fatto effetto. Il tavolo di fronte alla tv era ancora apparecchiato con la scatola di pizza. Dopo aver sistemato, mi lavai e vestii. La routine era sempre la stessa: colazione, doccia, trucco e vestiti. Amavo truccarmi ma i capelli li lasciavo spesso nelle mani di entità superiori, sperando che malgrado i problemi del mondo trovassero un secondo per benedire la mia testa. Seriamente, era un disastro. Se non volevano pensarci loro, avrei probabilmente scelto di coprirli con una busta della spazzatura. Dopo essermi sistemata, andai in camera ancora in accappatoio per cercare un vestito pulito e decente. Rovistai un po', senza trovare nulla. Ero in ritardo. Ero in ritardo e non avevo vestiti puliti, perchè invece di fare la lavatrice mi ero messa a bere come un'alcolizzata. Rovistai nei cassetti, fin quando con le mani non trovai un blazer. Era grande, ricordai che me l'aveva lasciato mio fratello e probabilmente ci sarei entrata minimo due volte, ma lo afferrai e lo attirai a me come se fosse stato appena toccato da Brad Pitt. Poi indossai sotto una maglietta a maniche corte. Recitava " I LOVE BEER". Si era reso evidente che non avrei tolto la giacca. Dopo aver messo la gonna della sera prima e i tacchi, scappai a lavoro.

Sweet, Bossy LiesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora