Saturn // Patrochilles

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Non avevo mai immaginato quanto potesse essere noioso osservare una battaglia senza poterla vivere, senza poter sentire il calore di centinaia e centinaia di corpi in movimento, l'umido del sangue sulla pelle, il tanfo del sudore e del fango che ricoprivano i soldati, mentre questi sferzavano colpi uno dopo l'altro, incuranti dei dettagli, dell'igiene, troppo preoccupati di portare a casa la pelle.
Attendevo il ritorno di Patroclo così come lui attendeva il mio, sebbene io preferissi passare il tempo ad osservare le figure che si muovevano sulla collina, che attaccavano o fuggivano a seconda dello schieramento, mentre Patroclo si era sempre tenuto più occupato, prestando servizio alla tenda medica, o passeggiando con Briseide, insegnando o apprendendo.
Avevo visto Patroclo a lavoro, specie durante la pestilenza. Lo avevo osservato mentre si prendeva cura di ogni uomo malato, mentre chiudeva gli occhi ai cadaveri e mentre ricacciava indietro le lacrime, troppo impegnato ad occuparsi di un nuovo ferito per poter provare dolore per quei volti amici che ormai aveva perso. Sul monte Pelio, con Chirone, aveva appreso più arti mediche di qualsiasi altro greco. Mi resi conto di non avergli mai detto quanto ammiravo la sua dedizione, il lavoro instancabile, l'affetto con cui rimetteva in sesto ogni soldato e persino il modo in cui il suo cuore si stringeva dopo che la Morte aveva reclamato a sè uno dei nostri. Mi annotai mentalmente di farlo, una volta che fosse tornato a casa.
Ricordai la profezia e mi chiesi se avrebbe pianto per me, quando fossi morto. La mia vita dondolava sulla mia testa, come una spada di Damocle, ma non avevo mai considerato l'impatto che la mia morte avrebbe potuto suscitare sugli altri.
Certo, avrei ricevuto un funerale d'onore, degno dell'aristos achaion, ma mi chiedevo che ruolo avrebbe giocato Patroclo in quella circostanza.
L'idea che Briseide lo desiderasse come padre dei suoi figli mi consolava, sebbene, per un unico folle secondo, avessi desiderato ucciderla a mani nude per averci anche solo pensato. Mi dissi, però, che sarebbe stato un bene, per lui, avere qualcuno accanto... dopo.

Il mio sguardo fu attirato da uno strano groviglio lì, sulla collina. I soldati si erano affaccendati intorno al corpo di un caduto - un re o un principe - e combattevano per poterlo portare indietro. Mi chiesi chi fosse. Menelao? Odisseo? Magari proprio Agamennone, sarebbe stata la migliore fine per quell'intera situazione e io e Patroclo avremmo brindato alla sua morte, alla salvezza di Briseide, alla riuscita del suo piano. Ero contrario all'idea che potesse andare sul campo di battaglia e, soprattutto, che ci andasse senza di me, ma dovevo ammettere che tutto si stava svolgendo esattamente secondo le sue parole. Sorrisi pensando a come quel ragazzino tutto gambe e braccia che mi aveva rincorso al monte Pelio si fosse trasformato in un uomo fatto e finito, addirittura uno stratega.
Il respiro mi si spezzò nei polmoni, come se qualcuno mi stesse strizzando il petto, impedendomi di prendere fiato. Mi accasciai in ginocchio, e la crisi passò dopo un istante. Non capivo cosa fosse quella sensazione di vuoto che mi attanagliava, come se la morsa mi avesse strappato via qualcosa, ma non mi piaceva.
Continuai ad osservare la battaglia, un velo di preoccupazione negli occhi.
Torna presto gli sussurrai.

Odisseo zoppicava, probabilmente ferito, o forse solo acciaccato dalla sua vecchia cicatrice. Eppure non fu quello il dettaglio della sua andatura che mi parve peculiare. Camminava lento, a testa bassa, come se si stesse facendo strada nel fango. Accanto a lui gli altri re, persino quel sorcio di Agamennone. Menelao chiudeva la coda con un fagotto tra le braccia.
Li contai in fretta, ma non mi sembrava mancasse qualcuno all'appello. Non ero mai stato bravo a riconoscere le persone, così ricontai. Tutti presenti. E allora chi era quel fagotto tra le braccia di Menelao? Perché Patroclo non era ancora venuto a salutarmi? Era ferito?
Odisseo mi si avvicinò per poggiarmi la mano sulla spalla.
«Achille...» sussurrò stancamente. Non ci fu bisogno che finisse la frase.
Avvicinandosi, aveva lasciato il posto che occupava in testa alla processione, permettendomi di vedere meglio il corpo che giaceva tra le braccia di Menelao, coperto alla buona da un sudario lurido.
Un piede a penzoloni, indurito dai chilometri passati a camminare nei boschi. Mani dalle dita sottili, pratiche e svelte, che mi parve di sentire sulla pelle, lasciando scie infuocate e sanguinanti.
Una zazzera di capelli scuri, che avevo arricciato tante volte che ormai prendevano facilmente la forma delle mie dita.
E poi il suo viso, coperto di sangue, gli occhi chiusi e le labbra bluastre, ma ancora bello come la prima volta che l'avevo visto.
D'istinto la mano mi corse alla spada, ma si strinse intorno all'aria, mentre delle dita forti si chiudevano intorno al mio polso. Non mi resi conto di chi fosse finchè non alzai lo sguardo per incrociare quello di Antiloco. Nei suoi occhi vidi che era consapevole di ciò che volevo fare - mettere fine alla mia vita in quel preciso punto - e anche una muta richiesta di perdono, ma non me ne curai. Con uno strattone mi divincolai, sapendo che non sarebbe riuscito a trattenermi neanche se avesse davvero voluto.
In una frazione di secondo i miei occhi erano su Menelao. Eravamo lì per sua moglie - almeno ufficialmente, ma non ero lucido abbastanza per ricordare i motivi geo-politici - e per colpa sua ora Patroclo era... morto. La parola mi bruciò come fiele in gola e la allontanai dalla mia mente.
Il re portava ancora in braccio il corpo di Patroclo. Un corpo che solo io avrei dovuto stringere, un corpo che doveva essere tra le mie braccia, mentre le sue mi avvolgevano in risposta ed il cielo si tingeva di rosso.
Non mi resi conto di aver caricato finché non sentii il botto delle gambe di Patroclo che colpivano il terreno, mentre io cercavo di afferrarlo, dopo aver spinto via Menelao.
La mia pelle sentiva il freddo della sua. Non era mai stato così freddo, neanche nella caverna di Chirone, quando fuori nevicava e noi ci stringevamo sotto le pelli per scaldarci. La sua testa combaciava perfettamente con la curva della mia spalla, proprio come allora, ma i suoi occhi chiusi non cercavano i miei, le sue labbra non si posavano sulle mie, le sue dita non cercavano i capelli che io mi stavo torturando tanto da strapparli dal cranio, un sottile rivolo di sangue a solleticarmi lo scalpo.
Stavo urlando, lo sapevo. Mi bruciava la gola, i polmoni chiedevano aria e, intorno a me, il brusio delle scuse, dei benvenuti ai soldati, il clangore delle armi, si era zittito, mentre tutti osservavano il dolore dell'aristos achaion.
Patroclo... Patroclo... l'unico suono che sentivo nella mia mente era il suo nome. Lo stavo pronunciando, ancora e ancora, senza rendermene conto, finchè non divenne altro che un gemito incoerente, finché non divenne l'unica cosa che sapevo pronunciare.

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