Capitolo 2

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Quando arrivai in ospedale, una volta parcheggiata la mia jeep blu, con la consapevolezza che non l'avrei rivista per molte ore a venire, mi sentii invasa da un senso di innata familiarità a quel posto.
Scesi senza fretta dall'auto e mi incamminai verso l'ingresso che recitava a caratteri cubitali il nome di mia madre: SEATTLE GREY'S HOSPITAL.
A vedere improvvisamente quello che lei, mia madre, Ellis Grey, uno dei più grandi chirurghi della nostra epoca, era riuscita a fare in pochi decenni di carriera o forse meno, mi fece sentire una nullità non desiderata nell'immenso e malefico mondo della chirurgia.
Entrai tirando un sospiro che sperai mi sarebbe servito a rilassarmi e lasciarmi dietro tutti quei pensieri malevoli.
Subito notai un gruppo di persone addossato ad un lato delle scale, ragazzi della mia stessa età, confusi quanto me, impauriti quanto me, eccitati e pieni di adrenalina ... beh, quasi quanto me!
Stavano tutti fissando un uomo alto, di colore, che a braccia conserte li scrutava dall'alto, qualche gradino più su: il suo nome era Richard Webber, il primario di chirurgia.
Per un attimo mi parve che i nostri sguardi si fossero incontrarti. Ma non appena lui se ne accorse, fece presto a voltarsi verso gli altri, indifferenti, e a dire: "Seguitemi."
Allora presi a marciare assieme al gruppo di ragazzi che nel frattempo aveva cominciato a spostarsi lungo un corridoio, poi attraverso una porta, e infine in una stanza che capii essere l'unico luogo dove avrei voluto vivere in eterno: una sala operatoria.
"Ognuno di voi arriva qui pieno di speranze, desideroso di scendere in campo" cominciò a parlare mentre noi giravano attorno osservando ciò che ci circondava, sfidandoci con lo sguardo gli uni gli altri, provando ad immaginare come sarebbe stata la nostra vita, da quel giorno, da quel momento in poi. "Un mese fa alla facoltà di medicina i medici erano i vostri professori. Oggi i medici siete voi. I sette anni da specializzandi in chirurgia saranno i più belli e i più brutti della vostra vita. Verrete messi sotto pressione. Guardatevi intorno ... Salutate la concorrenza: otto di voi passeranno a una specializzazione più facile, cinque di voi non reggeranno la pressione e a due di voi sarà chiesto di andarsene. Questo è il punto di partenza, la vostra arena. La vostra partita dipende da voi."
Appena smise di parlare, e ebbi un attimo di tempo per pensare e scendere di nuovo con i piedi per terra, mi resi conto che, come avevo già supposto poco prima, io ero fottuta!

Poco dopo eravamo già tutti negli camerini, con i camici indosso e con gli stetoscopi intorno al collo. Da dietro gli armadietti si alzava un mormorio assordante di gente, che sembrava spiazzata e meravigliata per tutto quello che stava accadendo in così poco tempo. Fino ad allora non avevamo neppure pensato di arrivare fin lì ... Il nostro massimo di esaltazione era stato dissezionare un cadavere per esercitarci ad eseguire le più semplici procedure chirurgiche ... Entrare in quel corso di specializzazione poi, credo sia stato il momento più felice di tutta la mia vita.
"Hai sentito? Solo sei donne su venti" quelle parole mi giunsero improvvisamente, spezzando i miei lunghi e complicati fili di pensiero "e una fa la modella!"
Voltai lo sguardo verso una ragazza sedutami accanto, di cui fino a quel momento avevo ignorato l'esistenza. La osservai qualche secondo ...
"Tu sei Cristina?" dissi, ricordandomi d'un tratto della ragazza coreana incontrata qualche sera prima alla festa di inaugurazione: occhi a mandorla, un viso ovale dai tratti morbidi, lunghi capelli neri ondulati che, nel tempo che impiegai per ricordarmi di lei, legò in una stretta coda.
Come se il silenzio fosse un segno approvazione non disse nulla. Si infilò il camice e solo allora mi chiese: "Chi ti sei beccata? Io la Bailey."
"La nazista?" risposi d'un tratto "Pure io."
"Anche voi con la nazista?" Da dietro uno sportello smaltato di un armadietto sbucò un ragazzetto tarchiato, con in testa un cespuglio di capelli arruffati e un setto nasale leggermente storto che in qualche modo gli donava "Sono George ... O'Malley. Ci siamo conosciuti alla festa. Avevi un tubino nero che ti stava ... Sai non passi di certo inosservata!"
Non potei far altro che sorridere, sperando che per una volta la mia finta felicità non sembrasse agli occhi della gente come un difetto dietro il quale nascondevo la mia vera persona.
"O'Malley, Yang, Grey, Stevens?!" sentimmo chiamare i nostri nomi dall'estremità opposta della stanza.
Allora ci alzammo in piedi, e dopo esserci dati uno sguardo di compassione gli uni gli altri, ci incamminammo fuori dagli spogliatoi per andare a conoscere la Nazista.

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