Non è affatto una bella sensazione.
Voglio dire: svegliarsi dolorante con spilli che trafiggono ogni centimetro del corpo; sentire tre diversi Bip in un buco di stanza che puzza di disinfettante da quattro soldi. Due tubicini nelle narici che provocano la stessa sensazione di due pali conficcati nel culo, un ago cannula nel braccio collegato a una flebo, nausea e ricordarsi a malapena perché ti trovi li e in quella situazione. Quello di cui puoi essere sicuro è che sei talmente tanto coglione che al cento per cento l'incidente è avvenuto per colpa tua.
Ci sono altri tre letti nella stanza d'albergo. Vuoti e disfatti. Qualcuno era lì fino a poco fa, pare. Magari è uscito e ha lasciato davanti alla porta il cartello "non disturbare". Sui comodini accanto ai loro letti ci sono bicchieri di plastica, bottigliette d'acqua, bucce di frutta e pacchetti di cracker aperti e mezzi mangiucchiati, medicine e riviste di pettegolezzo di tizi famosi. Sul mio: un cazzo di niente. Premo il pulsante emergenze; voglio chiamare un'infermiera per il servizio in camera. Aspetto un po', ma non si presenta nessuno.
Riprovo col pulsante un paio di volte. Niente. Pessimo servizio. Hotel da cancellare dalla lista. In qualche modo devo alzarmi da qui. Inizia a far freddo nella stanza. Tiro su la schiena e metto giù i piedi dal letto. Per ora evito di togliere il tubicino della flebo. Spero di trovare un'infermiera in un corridoio di questo cazzo di ospedale. Esco dalla stanza con la mia bella asta a rotelle porta flebo e il classico camice legato sul retro da cui si vedono le classiche chiappone da ospedale. Capisco che solitamente in questi posti non ci sia voglia di far baldoria, ma un minimo di via vai dovrebbe pur esserci. Tutto deserto. Non vedo infermiere in giro, le stanze sono vuote ma come se fossero abitate. Resti di una recente presenza ma che abbia appena abbandonato la nave. Vestiti appesi ad attaccapanni o appoggiati alle sedie. Libri. Carrelli coi farmaci in mezzo ai corridoi. Fogli per terra e disordine generale. Mi viene l'impulso di urlare: "C'è nessuno?"
Però:A) Se non c'è nessuno cosa urlo a fare?
B) Se c'è qualcuno faccio la figura del coglione.
C) Se sono nel mezzo di un attacco zombie (e tutti gli elementi per ora portano a pensarlo), meglio non attirare l'attenzione.Proseguo la mia camminata per i corridoi deserti. Il silenzio accentua la desolazione del momento. È quel silenzio diverso. Un silenzio assoluto.
Innaturale.
Lo si ascolta nel profondo delle notti quando non esiste l'inquinamento acustico che pervade quotidianamente la nostra vita. Senza il quale ogni minimo sussurro diventa un grido, ogni singolo e lontano passo che durante il giorno non sentiresti diventa presente e imminente.
In questo caso, nel mio caso, un neon difettoso che si accende e si spegne in una stanza lontana e preannuncia qualcosa di sinistro. Sento il suono da lontano e vedo solo la luce a intermittenza provenire dalla porta semichiusa di una stanza. Mi avvicino lentamente. Anche il cigolio delle rotelle dell'asta porta flebo, cui normalmente non farei troppo caso, mi accompagna sinistramente.
Arrivo di fronte alla porta e al neon difettoso. Nulla d'inquietante. Solo un banale ascensore. Di quelli grandi, per il trasporto delle barelle. Forse non così banale guardando bene. Ci sono trentatré pulsanti all'interno. Il tasto illuminato è quello dell'undicesimo piano. A logica dovrebbe essere quello corrispondente al piano in cui mi trovo ora.
Mi volto verso la parete del corridoio e un cartello dice: "Medicina Generale 4°Piano". In ogni caso decido di scendere al pian terreno. Premo il relativo pulsante. Le porte automatiche si chiudono. L'ascensore sale. S'illumina il pulsante numero venti. Capita se ti chiamano prima di riuscire a premere il proprio.
Si aprono le porte. Non c'è nessuno però in attesa per l'ascensore. Leggo solo "Chirurgia-Ortopedia 6°piano." Premo ancora per il piano terra. Premo quattro o cinque volte. Come fanno tutti. Come se servisse a qualcosa. S'illumina il tasto nove. Porte aperte. Piano interrotto a metà. Nella parte bassa cemento, nella parte alta uscita verso il piano. Dal basso intravedo il cartello. "Pediatria-Ginecologia 3°piano". Porte chiuse. Sale. Per parecchio questa volta. S'illuminano e si spengono tutti i tasti, uno dopo l'altro. Fino al trentatreesimo. Poi anche quello si spegne. Si aprono le porte. Questa volta tutta l'uscita dell'ascensore è bloccata da una parete in cemento. Al centro, leggermente più in alto rispetto all'altezza dei miei occhi, c'è una fessura quadrata. Appena poco più grande del monitor di un pc. La fessura si estende in un tunnel di cui non si vede uscita. Premo di nuovo il piano terra. Rimane tutto bloccato. Premo altri tasti. Nulla. Altri ancora, la campanella d'emergenza. Tutto immobile. Solo silenzio e un abisso oscuro 40x40 circondato da grigio cemento di fronte a me. L'ascensore, come ho detto, è di piccole dimensioni. Inizia a sembrarmi più spazioso il tunnel e mi sembra che tutto sommato potrei anche passarci. In fondo, quanto potrà essere lungo quel tragitto. Se è lì, sarà stato creato per essere percorso. Sono comunque all'interno di una costruzione. No. Non è vero. L'albergo è grande. E anche se il tunnel sbucasse in qualche stanza senza percorrerlo tutto, quanto potrei durare in uno spazio tanto ristretto. Duecento metri? Trecento? Qualcosa però devo fare. Non posso certo stare qui a non fare nulla e a fissare solo quel buio insostenibile. Serve solo a far crescere l'angoscia. Sarò qui da due o tre minuti e mi sembra di essere invece da giorni. Perché cazzo mi è venuto in mente di prendere sto cazzo di ascensore! Faccio un respiro per calmarmi un momento e mi torna in mente. Ho già vissuto tutto questo. Da ragazzo ho avuto due o tre volte questo incubo. E quando il buio mi faceva quasi impazzire, mi svegliavo di colpo e tutto sudato. Devo solo aspettare.
Le porte si chiudono. Finalmente. Scendo e stavolta arrivo al piano terra. Porte aperte e tutto normale. Esco dal dannato ascensore. O l'incubo continua o si è solo guastato. In effetti, in una situazione anomala come questa non avrei dovuto prenderlo. Non ho ancora capito come mai l'ospedale sia stato evacuato. Esco all'esterno della struttura. Stessa storia. Tutto fermo. Nessuno in giro. Non un rumore di traffico. Non un rumore di alcun tipo. Non ho così tanta voglia di camminare. Ormai credo che non troverò nulla di nuovo, anche spostandomi da quella zona. Poi il mio sguardo incrocia una figura. Una figura umana. È immobile e mi fissa. Magari anche per lui sono la prima cosa viva che vede. Prima di avvicinarmi alzo una mano. In segno di saluto. Lui risponde alzando la mano aperta unendo l'indice col medio e l'anulare col mignolo. Il saluto vulcaniano di Star Trek. Incoraggiante. Mi avvicino. Lui mi aspetta.
«Buongiorno» dico io.
«Se lo dice lei... » risponde lui. Meno incoraggiante.
Lui è un tipo giovane, tra i trentacinque e i quaranta, belloccio ma con lo sguardo perso e poco espressivo. Spettrale, direi. Impermeabile lungo camicia bianca e cravatta nera. Potrebbe sembrare un agente dell'F.B.I..
«Ammetto di essere un po' spaventato per quello che sta succedendo» riprovo un approccio più diretto sulla trama, questa volta. «Lei è la prima persona con cui parlo oggi» dico sorridendo un po' forzatamente.
«Ah, se è sempre così noioso, non ne dubito!»
«Mi scusi?»
«Nulla d'importante».
«Intendo dire che è proprio la prima persona che incontro... non le sembra strano che non ci sia anima viva in giro?»
«Oh! E adesso mi chiederà se so qualcosa riguardo a tutta questa situazione o se sia successo qualcosa mentre non era cosciente».
«Si...come lo sa?»
«Amico, sei uscito dall'ospedale con ancora la flebo attaccata. Visibilmente spaesato. Non è necessario essere un detective per arrivarci».
«Già. Ma lo è?»
«Cosa?»
«Un detective».
«Ho l'aria da detective?»
«Sì».
«In effetti lo sono».
«E sa qualcosa riguardo a tutto questo?»
«Sì. Ma è meglio se ne parliamo nel mio ufficio. Voltati, è dietro di te».
Mi volto e alle mie spalle si erge una struttura immensa. Un grattacielo altissimo di cui non si vede la vetta. Un'insegna verso il terzo piano con la scritta Raven&Hope.
«Figo!» esclamo. «Il tuo ufficio dov'è ? È tanto in alto?»
«Che t'importa? Ci sono gli ascensori».
«Appunto».
Ci incamminiamo, ma prima di entrare mi dice una cosa. «Prima di entrare, devo dirti una cosa». Appunto. «Sei morto».
«Che Cosa?» Chiedo come un ebete.
La sua faccia si allunga e si deforma. Diventa rossa per lo sforzo dell'urlo abominevole che esce pronunciando le stesse parole di prima «SEI MORTO!»
Mentre l'aria vibra per quell'urlo spaventoso, tutto un mondo viene come proiettato e scagliato sovrapponendosi a quella che fino a un momento prima per me era la realtà. Per un momento davanti ai miei occhi si materializzano centinaia di persone che camminano, macchine che viaggiano in strada, persone alle finestre o sedute davanti ai bar, nuvole, suoni, clacson, chiacchiericcio e l'abbaiare di un cane. Tutto per un istante. Come fosse l'immagine distorta di una televisione sintonizzata male. Poi sparisce e torna tutto come prima dell'urlo. Vuoto e silenzio.
«Che diavolo hai fatto?» chiedo in preda al panico e alla sudorazione fredda.
«Mi pareva che non avessi capito».
Prima che possa chiedere altro, in strada succede qualcosa. Un uomo viene scaraventato sull'asfalto. È come sbalzato fuori dall'abitacolo di un'auto. Ma non c'è nessuna macchina in strada. Faccio per avvicinarmi ma il mio strano nuovo amico mi blocca. Poi fa una cosa disgustosa. Si sdoppia. Accanto a lui prende forma una figura umana non ancora definita. Una sorta di mitosi, con bava trasparente e effetti da B-movie a tutto spiano. In pochi secondi la seconda figura si definisce. Una pallida donnina con capelli rossi e labbra disegnate dall'aspetto imperturbabile. «Cavolo!» esclama. «Morte sul colpo, forte. Con lui però tenterò un approccio più scientifico».
Detto questo si dirige verso il tizio ancora sdraiato sulla strada. Lo sveglia e inizia a parlargli accovacciandosi al suo fianco. Per un momento l'uomo sembra disperarsi. Poi si alza e inizia a correre all'impazzata. In un attimo si ritrova circondato da dei piccoli esseri materializzati dal nulla. Saranno alti un metro ciascuno. Si scagliano su di lui, bloccandogli braccia e gambe. Un paio gli saltano sulla schiena. Lui è terrorizzato e non riesce a reagire. Quando tutti e sette gli sono addosso, si apre una voragine oscura sotto i suoi piedi. E in un battito di ciglia sprofondano tutti nell'oscurità.
Mi volto verso il mio amico che alza le sopracciglia un paio di volte e dice: «Bello spettacolino, eh!? Ah, io mi chiamo Raven! Forza e coraggio! Seguimi!»
Entriamo all'interno del palazzo. Appena entrati, ci troviamo in uno stanzino piccolo. Senza porte e senza finestre. Una scrivania con qualche documento sopra, un paio di sedie, uno scaffale-archivio appoggiato alla parete e un quadro di Magritte appeso al muro. Mi guardo attorno, perplesso.
«Non ti piace il mio ufficio?» chiede Raven.
«Sì sì, certo. Solo... non ci sono uscite? Voglio dire, da fuori si vede un palazzo immenso e all'interno c'è solo uno stanzino. Insomma, il resto dov'è?»
«Questo è il mio ufficio».
«Sì, chiaro. Ma... sai cosa? Lascia stare».
«Allora. Benvenuto alla Raven&Hope!»
«Grazie». Rispondo io. «Hope è La donna che ho visto prima?»
«No! Quello ero sempre io! Mi sono semplicemente sdoppiato. Hope non esiste».
«Allora perché...?»
«Scusami se t'interrompo subito. So che sei ancora molto confuso. Non cercare di porti comunque troppe domande. Soprattutto di natura razionale. Qui non esiste nessuna logica. Non c'è una ragione per tutto. Non per come la intendi umanamente tu. Poco alla volta capirai come comportarti e come agire».
«A che scopo? L'unica cosa che credo di aver capito è di essere morto».
«Corretto. A questo serve la Raven&Hope. In base a quello che hai compiuto, giusto o sbagliato, buono o cattivo, verrai giudicato e portato dove meriti».
«Inferno e paradiso?»
«Banale, ma sì. In realtà sei già stato giudicato. Ma se nessuno è ancora venuto a reclamare la tua anima è perché in vita hai ancora una faccenda in sospeso. Qualcosa assolutamente da compiere ma che la tua morte, probabilmente improvvisa, ha interrotto. Una specie di bug che si crea a causa del conflitto tra giudizio divino e libero arbitrio».
«Ma io non ricordo nulla».
Raven si avvicina a me. M'infila letteralmente una mano nel petto, la estrae strappandomi il cuore dalla gabbia toracica.
«Oh cazzo!» esclamo.
Scaraventa il mio cuore sul pavimento. Da atri e ventricoli escono otto zampe. Simili a quelle di un ragno. Di quelle sottili e nodose, non pelose.
«Oh cazzo!» riesclamo.
A quel punto il cuore inizia a correre per il pavimento, poi sulla parete e su fino al soffitto.
«Sediamoci un momento» dice lui.
Si accomoda sulla sedia della scrivania ma la sua faccia inizia a modificarsi e cambiare connotati.
«Buongiorno» mi dice un signore seduto a una scrivania. È un uomo sulla quarantina, di colore, con degli occhiali da sole a specchio senza asticelle e un impermeabile lungo e nero di pelle.
«Buongiorno» rispondo io.
«Molto piacere, io mi chiamo Raven e lei?»
Ci penso un po', ma non mi viene proprio in mente una risposta a quella domanda.
«Ecco... veramente, credo di non saperlo» ammetto un po' imbarazzato.
«Già. Non pensiamo mai a chi siamo finché, non ce lo viene chiesto. Non si ricorda che stavamo parlando insieme fino a un momento fa?»
«Temo di no».
«Allora cosa ci fa il suo cuore appeso al mio lampadario?»
«Oh cazzo!»
Raven mi rispiega le cose che dice di avermi spiegato in precedenza e prosegue, dicendo che la memoria -così come la capacita di raziocinio e la percezione che ho di me stesso o dell'esterno- sono solo illusorie, perché legate al mio corpo che ormai non esiste più. In questa forma di esistenza sono solo residui impressi nella mia anima per il distacco appena avvenuto con la materia e che presto saranno destinati a sparire.
«Qui non hai più lo strumento materiale che ti permetta di ricordare, vedere o mangiare in maniera automatica e involontaria. Sei volontà pura. Per un po' di tempo simulerà quello che è il ricordo o il ragionamento che avevi in vita grazie a una sorta di automatismo che ormai legava la tua anima al tuo corpo. Man mano che passerà il tempo, farai sempre più fatica e dovrai imparare a farlo per tuo conto. Se vuoi ricordare qualcosa, fallo! Il tuo corpo non esiste qui fisicamente. Puoi plasmarlo a tuo piacimento. Imprimi attraverso la tua volontà il primo concetto importante della tua nuova (non) vita».
Faccio quello che mi dice e sul mio non avambraccio destro appare una scritta, come fosse un tatuaggio : SONO MORTO.
«La Raven&Hope è un agenzia ultraterrena che si occupa di aiutare le anime sospese e in attesa come te. Nello stato in cui ti trovi, non saresti in grado di fare nulla per riuscire a risolvere la tua situazione. Noi ti offriamo l'aiuto nel caso tu voglia vedere il mondo terrestre che adesso non riesci a vedere. Se ti chiedessi di possedere un umano vivo sapresti da che parte iniziare? Non serve rispondere. Abbiamo contatti con i più validi medium non ciarlatani che altrimenti non potresti mai rintracciare da solo e che possono essere fondamentali nella riuscita della tua impresa. Possiamo aiutarti a interagire fisicamente con i tuoi cari ancora vivi per ultimi abbracci, baci o composizioni di vasi in argilla».
«Offrite proprio un bel servizio. Vi pagheranno bene!»
«Nessuno ci paga! È solo il nostro compito. Né giusto né sbagliato. Solo quello che va fatto».
«Quindi, da dove iniziamo?»
«Abbiamo già iniziato! Per prima cosa dobbiamo capire chi sei. Nel frattempo ti chiamerò Ector Plasma. È il nome che assegno io a quelli come te che ancora non sanno chi sono. Un po' come Jhon Doe per i cadaveri non identificati».
Lo studio in cui ci troviamo inizia a roteare vorticosamente. Le pareti, i mobili, gli oggetti. Tutto si fonde in un vortice che ci avvolge. Quando si ferma, mi ritrovo seduto nell'abitacolo di un'automobile. Si avvicina poliziotto. Tiro giù il finestrino. Mi chiede patente e libretto. Prendo la patente dal portafogli e la mostro.
«Ora prendo il libretto, un attimo» dico.
«Non serve», risponde lui guardandomi con indifferenza «è una tessera vuota».
«Che significa?»
«Significa che non sei mai stato fermato mentre guidavi. O probabilmente non hai mai posseduto una patente! Facciamo altri tentativi!»
Negozio di liquori: un commesso chiede documento d'identità. Documento vuoto!
Albergo: tizio reception chiede di fare una firma. Illeggibile. Complimenti, scrivevi da cani!
Tavolo della roulette: croupier chiede documento. Stavolta c'è! Abbiamo un nome e cognome. Robert James Fischer.
«Il prossimo passo è capire chi eri. Per riuscirci ti servirà prima imparare ad interagire col mondo reale e con le persone viventi. In carne e ossa».
Usciamo dall'ufficio di Raven e iniziamo a passeggiare per le strade deserte. Entriamo in un ristorante e ci sediamo a un tavolo. Mi porge il menù. Ristorante "Al termine della vita". Tutte cose molto buone:
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Raven&Hope
HorrorUno scacchista smemorato necessita dell'aiuto e intervento della nota agenzia Raven&Hope. Ma sul suo percorso affronterà sfide complesse, un medium dalla dubbia integrità, il ristorante "Al termine della vita", appuntamenti col passato e un uomo in...