Sono nel bagnetto di servizio, quello piccolo e senza finestra. Con la luce artificiale questa stanza è sempre senza tempo, ma so per certo che è mattina, le 10 e qualcosa per essere precisi. Il bello del weekend è che puoi caricare la lavatrice anche di giorno senza dover aspettare che scatti la fascia oraria più conveniente, che poi la lavatrice finisce quando stai cenando e dopo aver sparecchiato vorresti solo buttarti sul divano a vedere un film e invece devi uscire sul balcone a stendere. L'inverno poi è una vera e propria tortura perché non hai voglia di metterti il giubbotto, quindi esci in pigiama, ti congeli, e in più ti si ghiacciano le mani appena tocchi la roba bagnata.
Quindi sia benedetto il weekend e siano benedette le lavatrici: con tre figli sotto i 5 anni e un marito operaio, questa è la stanza dove passo più tempo.
Sono intenta a separare gli scuri dai colorati quando mi sembra di sentirla in lontananza. Non capisco subito se è lei che entra dalla finestra aperta della cucina o solo il fischio gracchiante dell'aspiratore del bagno che ogni volta mi riprometto di pulire e invece non ho voglia di prendere la scala e continua ad accumulare polvere.
Esco, chiudo la porta e mi spingo nel corridoio. Si sta avvicinando. È lei.
La sirena dell'ambulanza non si sente spesso nel nostro paesino. Non abbiamo l'ospedale qui, né nei dintorni, il più vicino si trova a una cinquantina di chilometri di distanza. Quando senti le sirene, è perché sta male uno dei tuoi. Ci conosciamo tutti qui, pochissime anime, quasi tutti imparentati. Corro ad affacciarmi alla finestra della cucina, da qui riesco a vedere l'asilo: solo tre classi che condividono lo stesso edificio con le sezioni delle elementari. Per le scuole medie devi spostarti nel paese accanto. Vedo l'ambulanza arrivare sfrecciando in paese, balzando sulle buche della strada, e prego che non spenga la sua sirena proprio adesso. Non davanti alla scuola dei miei figli.
Tiro un sospiro di sollievo quando la sorpassa, ma l'ansia non si placa: dove starà andando? Ormai non la vedo più, ha svoltato verso il centro e le casette basse mi coprono la visuale. Mi impongo di non uscire di casa, di non inseguirla. "Ho lasciato lo smacchiatore ad agire" ripeto a me stessa. "Non posso lasciare i pantaloni così, se no si macchieranno indelebilmente." Non mi importa davvero di quei pantaloni, neanche se so che i miei due figli più piccoli li erediteranno dal maggiore. Tanto sono già macchiati.
No, non devo uscire. Torno nel bagno e lascio che il rumore dell'aspiratore copra quello della sirena. Strofino un po' la stoffa, poi mi ricordo che ho bisogno di un altro prodotto. No, non è vero, ho bisogno solo di una scusa per uscire da quel bagno. Torno nel corridoio, apro l'armadietto dei detersivi, non mi ricordo neanche perché sono lì. Tengo le orecchie dritte, in ascolto. Niente. La sirena non si sente più. L'ambulanza si è fermata.
Recupero il cellulare dalla tasca proprio mentre un attacco di panico mi sta assalendo. Non devo farmi scoprire, non devono sapere che vivo nell'ansia. Riderebbero di me e mi prenderebbero per pazza. E forse avrebbero ragione.
Invio un messaggio WhatsApp nel gruppo della mia famiglia, 8 persone in totale: io, mio marito, mio padre, mio fratello, mia sorella, i miei cognati e infine mia madre. Il suo numero c'è ancora, anche se un'ambulanza se l'è portata via qualche anno fa.
"Prima lavatrice della giornata!" scrivo. "Quanti come me?" Faccina, faccina, faccina. Un messaggio inutile, con la furbizia di inserire una domanda sperando in una risposta. Nel frattempo apro la finestrella per vedere se qualcuno ha visualizzato. Niente. Resto in attesa. Perché nessuno visualizza?
"Chi visualizza sta bene" mi ripeto. "Chi visualizza non è su quell'ambulanza."
Mi sudano le mani. Poi intercetto una vibrazione, esattamente un attimo prima di leggere il nome di mio padre sul display. Perché mi sta chiamando? Non lo fa mai a quest'ora. Mi sento morire, forse ho bisogno di un'ambulanza anche io. Non voglio rispondere, non sono pronta per essere devastata ancora.
Poi rispondo, e in quel momento sento il cuore esplodermi nel petto.
«Ciao tesoro, mi hanno regalato delle ciliegie, ve le porto?»