La cosa che più amo di Napoli? Il mare.
E la gente. Non tutta, ma la maggior parte. Sarei un ipocrita se dicessi che stimo tutti allo stesso modo. Nessuno è perfetto, tanto meno io.
La perfezione non mi si addice e ho scelto di non inseguirla come stile di vita.
Sono cresciuto in parrocchia, circondato da persone meravigliose che donavano la loro vita per gli ultimi. Ho visto uomini e donne preparare pasti durante le feste, sedersi accanto a senzatetto, accarezzare profughi. E ho visto nei loro occhi l'amore di chi non chiedeva nulla in cambio. E ho visto la felicità, pura, semplice, di chi si sentiva accolto e protetto, nonostante tutto.
Quando ero ragazzino ho chiuso due-tre felpe nel mio zainetto, un mazzo di carte - napoletane, ovvio - fogli e acquerelli e il mio panino preferito preparato dal salumiere sotto casa e sono partito.
Qualche giorno prima mi ero confidato col mio padre spirituale: stavo vivendo un periodo stressante, mi sentivo diverso dai miei compagni di scuola, non riuscivo a trovare la mia identità. Gli avevo espresso il mio desiderio di scappare. «Non si scappa mai» mi rispose lui. «Ma puoi partire per trovare te stesso.»
«Dove troverò me stesso?» gli chiesi.
«Ovunque sarai felice.»
Era la prima volta che prendevo un aereo, da solo per giunta, e per un viaggio che mi sembrava interminabile. L'Africa era la terra degli ultimi. Sentendomi il primo, forse lì sarei stato felice. Ma le cose non andarono come le avevo progettate. Lì conobbi la povertà vera. Conobbi la sofferenza e le malattie. E conobbi le risate dei bambini che giocavano nel fango. E conobbi i sorrisi delle mamme che allattavano anche figli che non erano i loro. E conobbi la forza degli uomini che costruivano case improvvisate per i loro vicini. E mi sentii l'ultimo tra gli ultimi.
Tornato in Italia, corsi dal mio padre spirituale. Ruppi il silenzio della chiesa urlando: «Mi sono trovato!». Mi sorrise dall'altare e tornai a casa finalmente felice.
Crescendo realizzai tanti progetti, tutti legati ai più bisognosi. I miei viaggi si intensificarono portandomi a conoscere nuovi luoghi in Africa e in India. Avevo quasi paura di dimenticare quella gioia, così imprimevo ogni attimo magico sulla carta con i miei acquerelli. Ormai casa mia era diventata un museo.
Mi sentivo completo, o quasi. Ricevevo amore, donavo amore, ma una parte di me sapeva che mancava qualcosa, un sigillo.
Lei è arrivata in estate. Guardavo il tramonto seduto sulla spiaggia, quando una telefonata interruppe i miei pensieri. «È nata una bambina, i genitori vorrebbero darla in adozione. Ha la sindrome di down.»
Andai a conoscere quella bambina in ospedale, una biondina tutta pepe che già da neonata aveva dimostrato di conoscere il fatto suo. I suoi occhi brillavano come il mare di Napoli e le sue manine paffute avevano subito stretto il mio dito.
Mi occupavo di questi casi da anni e dentro di me ringraziavo le coppie che sceglievano di donare la vita a quelle creature, ma conoscevo anche la difficoltà di trovare una nuova famiglia pronta ad accoglierle. E infatti, dopo mesi, non si era fatto avanti ancora nessuno.
Il suo viso mi era rimasto così impresso che lo dipingevo su ogni foglietto recuperato per casa. Sceglievo per lei i colori più tenui, li mischiavo con tanta acqua, e con movimenti lenti e accurati la vedevo prendere forma davanti a me. Non c'era un solo muro di casa da cui lei non mi osservasse.
Non ero più andata a trovarla da quel giorno in ospedale, ma pensavo a lei costantemente. Ogni giorno inviavo il solito messaggio: «L'hanno adottata?». Sapevano che mi riferivo a lei. Non riuscivo a credere che nessuna famiglia l'avesse ancora scelta. Era bellissima.
Mi sentivo triste.
Una sera, passando dalla chiesa per pregare, ripensai alle parole che il mio padre spirituale mi aveva detto anni prima. Ripensai a cosa fosse davvero per me la felicità. Poi pensai che ero un uomo, single, che probabilmente non avrei mai avuto una donna accanto a me... O forse sì. Forse sarebbe stata una biondina tutta pepe con gli occhi che brillavano come il mare di Napoli.
Non ne parlai con la mia famiglia, non ne parlai con nessuno. Avevo preso la mia decisione e avrei superato ogni ostacolo per portarla avanti.
E ci riuscii.
Lei era l'inizio di un nuovo giorno, la prima alba della mia nuova vita. Era finalmente mia figlia.