La bellezza salverà il mondo

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Macchine volanti, navicelle spaziali, intelligenza artificiale e la scoperta di universi paralleli.
Tutta fantascienza.
Probabilmente gli scrittori che hanno dato il via a questo genere rimarrebbero delusi dal presente. I progressi tecnologici sono stati a loro modo innovativi, anche se completamente diversi da quello che ci si aspettava; hanno portato nella vita di tutti i giorni dei livelli di comodità sorprendenti, ma non si è trattato dei cambiamenti epocali preannunciati dai romanzi, e fortunatamente il presente non è distopico come molti temevano.
Non del tutto almeno.
«Ami, mi stai ascoltando?» La voce piccata di Miku mi riportò al presente, allontanando le mie riflessioni.
«Scusa mi sono distratta...» mi girai per guardarla, «Allora, che mi stavi dicendo?»
«Che dopo il gala andiamo da me e festeggiamo in piscina, tu vieni?» I suoi grandi occhi scuri mi scrutavano in attesa di una risposta.
«Ma certo!»
Il treno era praticamente arrivato alla sua fermata così si alzò. Prendendo con grazia, oserei dire eccessiva per un gesto così banale, la sua borsa e mettendola a tracolla, mi guardò un'ultima volta, prima di scendere e mi dire: «Perfetto, allora, ci vediamo più tardi.»
Ci salutammo con un cenno della mano mentre lo sportello si alzava per lasciar scendere quelle sole cinque persone che di fatto popolavano il treno oltre a me e alla signora addormentata seduta lì vicino.
Dopo che il treno riprese la sua corsa sospirai, appoggiando sfinita la testa sulla parete trasparente alle mie spalle. Proprio di fronte a me, sul vetro opposto, erano proiettate pubblicità di prodotti di bellezza.
Perché deve essere così grande e non un quadratino minuscolo sul fondo, vicino ai sedili? Se non ci fosse potrei guardare fuori il paesaggio indisturbata.
Mi stiracchiai guardando l'ora. Mancavano due ore all'importante, ma soprattutto noioso, gala di quella sera. Ne tenevano uno ogni anno per mettere in mostra l'arte contemporanea e delle epoche passate; un evento di lusso a cui potevano partecipare solo le trenta famiglie che abitano il centro città. Questo perché era l'unica zona in cui correvano treni, in cui ci si trovavano negozi in cui non si vendevano solo beni di prima necessità; la parte ricca della città dove chiunque avrebbe sognato viverci se solo avesse saputo che tipo di vita agiata conducevano lì le persone. Sorprendentemente, però, era rimasto un segreto alla gente di periferia.

«Questo kimono è stupendo, Ami.»
«Grazie, Misaki, anche il tuo è davvero bello.»
Non mi interessava davvero.
Certo, era bello, però nulla di spettacolare: proprio come il mio, era un banale kimono; costoso quanto una casa, ma povero di fantasia: le decorazioni, molto tradizionali (un paesaggio tipico e degli uccelli in volo) richiamavano la stagione corrente proprio come ci si aspettava da una ragazza dell'alta società.
«Siete davvero belle ragazze.» ci disse Takumi avvicinandosi vestito con un completo occidentale, accompagnato da Miku a cui circondava i fianchi con il braccio.
Chiacchierammo del più e del meno, commentandoci a vicenda i punti di forza e debolezza dei nostri look, finché non riecheggiò per l'ampia sala il suono leggiadro del koto che dava inizio alle danze.
Avremo anche treni ad alta velocità e grattacieli, ma nonostante ciò lo stile di vita sembra tornato indietro di più di mille anni.
Quel suono particolare dava infatti l'impressione di essere tornati alla corte del periodo Heian, quando durante le feste gli aristocratici si cimentavano in gare poetiche, le grandi utaawase, accompagnati dal suono del koto; proprio come allora, era tutto una competizione per dimostrare la propria spiccata sensibilità.
È bello essere riusciti a conciliare passato e presente.
Finita quella prima parte della serata arrivò il momento di contemplare le opere d'arte. Ci accomodammo nella galleria d'arte, osservando attentamente le teche in cui erano custodite per la serata i rotoli dipinti.

«Quale opera vi è piaciuta di più?» chiese Takumi, sdraiato a bordo piscina mentre noi ragazze nuotavamo.
«Non saprei decidere» disse Misaki, «era tutto veramente bello.»
E mentre descriveva le sue riflessioni sulle varie opere spiegando perché le piacessero io mi persi nei miei pensieri.
Qual è stata la mia opera preferita?
Fissai il sole, galleggiando sul dorso; speravo di evitare di rispondere alla domanda. Non mi era piaciuta affatto quella mostra, esattamente come tutte le altre. E non perché le opere fossero brutte, anzi le trovavo pazzesche, ma non riuscivo ad apprezzarle e finivo con l'odiarle. Era tutto esibizionismo di una ricchezza elitaria, e in cuor mio non riuscivo ad accettarlo: il bello dell'arte è che la si può godere e apprezzare anche se non si ha niente. Nel mondo in cui viviamo è appannaggio dei ricchi, e solo una fascia ancora più ridotta di loro ha il diritto di produrla.
«E tu, Miku, che ne pensi?» le chiese Misaki, appena prima che lei uscisse dalla piscina.
Lei accennò un sorriso e salendo la scaletta disse: «A me non è piaciuta per niente la mostra.» uscì e prese l'asciugamano che si passò sui capelli gocciolanti.
Mi voltai a guardarla, proprio come gli altri; avevamo tutti gli occhi spalancati per la sorpresa. Certo era strano che proprio lei, che faceva parte di una di quelle poche famiglie di pittori, non apprezzasse l'arte; dopotutto però, era quella tra noi che meglio poteva giudicare le opere esposte.
Doveva aver notato le nostre facce sorprese, perché subito aggiunse: «Non fraintendetemi, le opere erano tutte bellissime, alcune di più e altre di meno, ovviamente.»
Possibile che la pensi esattamente come me?
«Però odio questi eventi.» sospirò avvicinandosi al balcone e continuò: «Non li trovo giusti: tutte le opere che abbiamo visto oggi sono un retaggio del passato, sono la nostra storia eppure solo trenta famiglie in totale la conoscono. Per loro non esiste quella storia, quel passato; né tanto meno quell'arte che noi ci vantiamo tanto di saper apprezzare e valorizzare.» indicò in basso. Stava indicando proprio la periferia. Non potei trattenere un sorriso, dopotutto la pensava esattamente come me; lei però aveva il coraggio di ammetterlo.
Io avevo paura: ero sicura che se avessi ammesso che mi dispiaceva per loro, che a malapena sapevano della nostra esistenza, sarei stata subito odiata ed esclusa da tutti. Invece non ero la sola.
Uscii anche io dall'acqua e mi avvicinai a lei.
«Sono del tuo stesso parere.» dissi, mettendo a tacere i sussurri alle sue spalle.
Il sorriso che mi rivolse era così vitale ed emozionato che non potei non ricambiarlo.
«Allora mi aiuteresti a cambiare le cose?»
Ti avevo giudicata male, Miku. Pensavo fossi come tutti gli altri, invece non riesci ad accettare il divario sociale che c'è.
Annuii.
«E voi ragazzi?» si girò verso di loro e li raggiunse.
«E come vorresti fare? Non è che puoi portare qui tutti loro e fargli vedere la mostra. Ti fermerebbero prima.» disse Takumi; parlava come se si rivolgesse ad un bambino per convincerlo che fare i capricci è del tutto inutile. Probabilmente lo riteneva davvero un capriccio fine a sé stesso.
«No, infatti ho intenzione di portare la mostra da loro.» La sicurezza con cui lo diceva ci fece davvero preoccupare, poiché sembrava seria e irremovibile a riguardo.
Non è possibile, dopotutto sarebbe un furto; non ha sicuramente intenzione di farlo davvero.
La guardai con attenzione. Tremava leggermente; anche la sicurezza che le si leggeva nello sguardo ora era instabile, pronta a distruggersi al minimo rifiuto da parte nostra. I suoi occhi si posavano prima su uno poi sull'altra e infine calarono su di me, come in cerca di un ultimo salvagente, dell'unica persona che pensava che sicuramente non l'avrebbe fatta annegare in quel silenzio.
È seria! Ha davvero intenzione di farlo!
Per questo si era soffermata su di me più a lungo: credeva che, visto il mio immediato appoggio,  l'avrei sostenuta immediatamente nella sua idea palesemente folle. Insomma, un furto è un po' troppo persino per me che non sopporto queste classi sociali.
È folle.
Lo era. E anche Miku lo sapeva e aveva paura quanto noi all'idea di farlo, ma dal suo sguardo si vedeva che aveva superato la sua paura più grande: confidarsi con noi. Per questo riusciva a sorridere nonostante la proposta che aveva fatto.
Il silenzio però diventava sempre più pesante, tanto da togliere il respiro a tutti. Takumi era pallido; il suo sguardo si spostava veloce su qualsiasi cosa avesse intorno, in cerca di una risposta, che nessuno gli avrebbe dato, né l'albero, né l'acqua, né il cielo terso; Misaki invece guardava in basso, avvolta da un'aria cupa; probabilmente stava valutando i pro e contro del diventare una potenziale criminale: non voleva abbandonare un'amica, ma nemmeno rischiare di rovinarsi tutta la vita.
«Certo sarebbe bello... non c'è però un modo meno illegale per farlo?» chiesi, dando voce ai pensieri degli altri.
«Possiamo chiedere a chi ha allestito la mostra magari ci lascia un pezzo che hanno deciso di non esporre.»
«Sì è vero, ma poi dove lo esponiamo?»
«Nella piazza principale ovviamente.»
Ci pensava ormai da un po' se aveva già deciso dove creare questa mostra improvvisata.
Mi veniva da ridere: sembrava una cosa così innocente, senza ripercussioni; la verità è che i nostri genitori e tutti gli altri si sarebbero arrabbiati e non ce l'avrebbero fatta passare liscia.
«Ami...» Misaki mi guardava preoccupata, pensando che la mia fosse una risata isterica, che avessi perso la testa. In realtà ero sinceramente divertita. Sarebbe stata la cosa migliore e più emozionante che fosse mai successa in tutta la mia vita.
«Io ci sto, sarà divertente.»
«No, sarà un inferno e i nostri genitori ci uccideranno.»
«Non siete stanchi che i nostri genitori decidano tutto per noi?» li guardai seccata. «Pensateci: persino le vostre caratteristiche fisiche, il carattere, i vostri talenti, hanno scelto tutto loro: ci hanno creati, non fatti nascere.»
Esatto, non siamo altro che delle bambole create ad arte. Questo perché un secolo prima gli scienziati erano riusciti a leggere tutto il genoma umano e identificare ogni singolo gene cosa determinasse. Come poteva allora l'arroganza umana non approfittarne?
I più ricchi iniziarono allora a pagare per modificare geneticamente i propri figli, ottenendo così "i bambini perfetti" più intelligenti e migliori in tutto. Ma se questa pratica si fosse diffusa eccessivamente si sarebbe creato solo il caos. Ecco perché la popolazione è stata divisa tra chi poteva permetterselo economicamente e chi no; e a capo di entrambi è stata messa questa nuova generazione: dopotutto chi potrebbe governare meglio di queste persone il cui quoziente intellettivo e raziocinio sono assolutamente senza difetti?
«Loro, invece» indicai di nuovo in basso, «per quanto la loro vita sia molto limitata hanno molta più libertà di noi: la genetica sceglie casualmente i loro tratti somatici e le loro qualità. Non sono perfetti e non devono comportarsi come tali: possono vivere la vita di tutti i giorni come vogliono, possono avere relazioni tra loro, stringere amicizie, litigare, fare l'amore, avere figli, tutto in piena libertà. Noi invece siamo sempre controllati: dobbiamo farci piacere le cose perché ci è stato detto che sono adatte al nostro rango, non possiamo innamorarci di chi vogliamo o stringere amicizia con chiunque per via delle rivalità familiari. Non possiamo andare in periferia e mescolarci con la gente comune. Nella nostra vita le uniche cose che possiamo davvero scegliere sono i vestiti che indossiamo e anche per quello dobbiamo seguire delle regole estetiche. Abbiamo tutto tranne il libero arbitrio; a loro manca solo il conoscere l'arte, la letteratura e qualsiasi altra cosa che non sia omologata.»
I negozi in periferia vendevano tutti le stesse cose, non c'era diversità: se uno voleva comprare una penna ce ne erano di un solo tipo; i vestiti erano tutti sobri: t-shirt e pantaloni, stessi modelli in colori diversi e niente di più; non si trovavano articoli che non fossero essenziali: niente candele, niente sigarette, niente trucchi; nulla che non fosse legato al lavoro o a beni di prima necessità come cibo o carta igienica.
«È sorprendente come siano riusciti a realizzare concretamente il comunismo maoista.» disse Miku. «Ed è ancora più sorprendente che sia durato così tanto. Sapete perché secondo me? Perché non sanno cosa sia l'arte, che è la manifestazione più ovvia della diversità. Non hanno mai visto quadri o disegni in tutta la loro vita; i libri che leggono riguardano l'economia e altre materie pratiche e scientifiche, non hanno mai sentito recitare le poesie del Man'yōshū o del Kokinwakashū quindi non sanno interpretare le emozioni più semplici che la semplice vista della luna può far provare. Il lato umano è asservito a quello pratico. Dopotutto se non sanno come comprendere e sfogare le emozioni non potranno mai rivoltarsi.» si allontanò dal parapetto sospirando. «Eppure quando li guardo non vedo differenze tra noi e loro. Siamo tutti dei cani tenuti al guinzaglio; l'unica differenza è la natura di questo: il nostro è fatto d'oro e gioielli, il loro di ignoranza. Il risultato è lo stesso, non facciamo che essere uno la copia di un altro.»
Alla fine li convincemmo, con un po' di belle parole e soprattutto assicurandoci che non ci fosse nessuna legge contraria a ciò che volevamo fare: ci avrebbero sgridati quello di sicuro, ma almeno non avremmo rischiato di essere condannati e subire un processo.
L'unica difficoltà davanti a noi era ottenere un'opera non esposta.
«Lasciate fare a me.»
Miku sembrava convinta di riuscire ad ottenere quel favore con estrema facilità e la sua voce calda trasmetteva una tale sicurezza che pensavo davvero che anche il più severo dei custodi sarebbe stato ammaliato da ciò che avrebbe detto, tanto che alla fine avrebbe creduto alla più grande bugia che poteva dire.
L'aspettammo in silenzio fuori dal municipio. Passò un'ora e di lei ancora nessuna traccia.
«Non è che la stanno denunciando?»
Misaki aveva davvero paura di sporcarsi la fedina penale.
«No, non può essere, dopotutto non sta rubando niente.» risposi io.
Non lo pensavo davvero; anzi ero sicura al settanta percento che in realtà era proprio ciò che stava facendo. Guardai l'alto edificio in vetro; la mostra era in cima alla torre di sinistra, il magazzino principale in quella centrale tra le tre. Visto che era furba probabilmente si sarebbe diretta nel magazzino più piccolo, al pianoterra, così da raggiungerci e scappare in fretta, altrimenti l'avrebbero presa prima che potesse anche solo avvicinarsi al secondo piano. Tutto sembrava stranamente tranquillo, il che lasciava pensare a poche alternative: o non aveva ancora messo a segno il suo colpo oppure si era smascherata e l'avevano fermata.
Arrivò di corsa con due xilografie ukiyoe.
« Muoviamoci!»
Iniziammo tutti a correre per prendere il treno che ci avrebbe portato al confine del centro città.
«Dimmi la verità, le hai rubate?» chiese Misaki.
«No, le ho comprate. C'è voluto un po' per contrattare il prezzo ma alla fine ce l'ho fatta.»
Restammo tutti sorpresi e Takumi rallentò di colpo. «Allora perché corriamo se non stiamo scappando?»
«Perché se perdiamo questo treno arriveremo troppo tardi al cancello. Adesso ad occuparsi dell'apertura e della chiusura c'è un mio amico e ci lascerà passare, ma il suo turno finisce tra mezz'ora esatta.»
Continuammo a correre e alla fine arrivammo in tempo.

La piazza era grande e più pulita di quanto pensassimo. Era la prima volta che vedevo degli edifici non interamente di vetro.
Un imponente edificio di granito stava davanti a noi; sulla bianca facciata, sopra la grande porta ad arco, c'era un enorme orologio scolpito sul muro; ai lati del portone c'erano due bacheche. Appendemmo lì le xilografie.
«Sicura che la gente le guarderà? O anzi che passerà qualcuno? Questa piazza è deserta.» chiese Takumi.
«Tranquilli adesso sono tutti a lavoro, appena finiranno verranno qui. Controllano ogni giorno se ci sono notizie.» sorrise e si incamminò verso l'edificio di fronte. «Saliamo lì sul tetto e aspettiamo di vedere la reazione.»
E così facemmo.
Aspettammo per ore e quando finalmente arrivarono, la gente si radunò intorno alle bacheche.
Nessuno osava emettere un singolo suono.

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