memories

557 32 13
                                    

All'amore,
che supera le memorie.

Il giorno che ti ho incontrato, è stato il più triste della mia vita.
Era Settembre, mi trovavo seduto in quel bar, mi sembrava così familiare eppure non credevo di esserci veramente mai stato: strano, vivevo in quel posto da quando sono nato.
Ci sono entrato e mi seduto sullo sgabello rosso di fronte al bancone, anche se qualcosa - un presentimento, forse - mi diceva che non era ciò che avrei dovuto fare.
Ho ordinato un caffè macchiato, guardavo la barista spostarsi dandomi le spalle.
In testa, il costante pensiero di essermi scordato qualcosa.
Ma che cosa?
Aspettavo, mentre nel cuore sentivo un vuoto, e per un istante voltai lo sguardo alla mia destra.
Speravo forse di trovare qualcuno?

"Grazie."

Ringraziai la ragazza nell'istante in cui sentii il rumore di un piattino in ceramica poggiarsi sul banco, sopra ad esso una tazzina del medesimo materiale con accanto un cucchiaino in acciaio.
Non toccai nulla, tornai a guardare alla mia destra.
Sentivo la mancanza di qualcuno, e fu come se la mia mente mi stesse costringendo a ricordare l'impossibile.
Io venivo qua con qualcuno.
Ma chi?

"Mi dà anche un cornetto alla crema, per favore?"

Quella richiesta fuoriuscì dalle mie labbra come un automatismo, come se la parte più insita del mio cervello sapesse cose che io non sapevo, facendomi agire senza che io sapessi il perché.
Non guardai la barista, mi sentivo vuoto.
Vuoto, e con uno sgabello libero al mio fianco.
Non dovrebbe essere libero, qua con me dovrebbe esserci qualcuno.
Qualcuno di importante, sicuramente, perché nonostante non mi venisse in mente il suo viso o anche solo un piccolo dettaglio, sentivo un enorme voragine all'interno del mio corpo.
Un buco che si espandeva dal cuore fino a prendere tutti gli organi, al contempo un senso di pesantezza a livello dello sterno.
Un macigno, che mi impediva di respirare correttamente.
Io non ricordavo, ma sentivo questa mancanza.
E probabilmente, così triste non lo ero stato mai.
Mi veniva da piangere, lo ammetto, mi sarei messo a piangere davanti a tutti tanto il cuore mi faceva male.
Ma non capivo, non capivo.
Sentivo le persone parlare attorno a me, parlavano poco, a bassa voce, e sembravano allarmate.
E io neanche questa inquietudine generale la capivo, non capivo il perché in un qualsiasi sabato mattina le persone non fossero allegre.
Quantomeno serene, sedute in un bar di Roma Centro, a perdere tempo.
Sentivo angoscia, la percepivo dentro e attorno a me, e di certo questo non aiutava a farmi stare meglio.
Distolsi lo sguardo da quello sgabello, lo posai sulla barista: riuscii a guardarla in viso, aveva le mani a reggersi sul bordo del lavandino.
Lo sguardo perso, l'ansia che trasudava da ogni poro della sua pelle all'apparenza così curata, e con quella stessa espressione incominciò poi a sciacquare le varie tazzine sotto il getto del lavello per metterle man mano all'interno di una lavastoviglie, a due passi di distanza da lei.
Guardai una serie di persone sedute ai tavoli di quel bar, e tutti - per quanti alcuni cercassero di nasconderlo - riportavano lo stesso velo di preoccupazione della giovane di fronte a me.
Sentivo parole qua e là, sconnesse fra loro.

"La malattia, ha preso mia figlia."

La prima delle uniche due frasi di senso compiuto che le mie orecchie riuscirono a captare in mezzo al mormorio, e che mi permisero di focalizzarmi su quella voce, le braccia incrociate sul bancone e lo sguardo rivolto su queste.
Il modo in cui quell'uomo sulla quarantina pronunciò tale affermazione, mi fece intendere che non si trattava di una malattia qualunque.
Sia chiaro, nessuna malattia è da prendere alla leggera, e su di essa devono essere riposte le giuste attenzioni.
Ma quella, quella era diversa.
Sembrava il filo conduttore di tutta quell'angoscia, che univa inevitabilmente i presenti in quel bar, anche perché - grazie alla veloce occhiata che mi concessi di dare - notai che in molti, rivolsero all'uomo sguardi colmi di compassione.
Pena, un briciolo arresi, persino.
Come se di quella malattia non potessero averne più il controllo, una pandemia di fronte alla quale puoi solo alzar le mani.

"Il virus NIA è in progressivo aumento, e noi non abbiamo i mezzi per difenderci."

Appunto.
Il problema era che io, di questo virus non ne avevo mai sentito parlare.
Mi sentivo un estraneo dentro la mia stessa casa, su quella Terra che ormai mi ospitava da ventiquattro anni, e che tutta d'un tratto sembravo non conoscere più.
Lei sembrava non riconoscere più me, come se fossi stato presente ad una festa alla quale non ero stato invitato.
Dove nessuno sapeva chi fossi, e viceversa.
Non riuscivo a seguire i discorsi dei presenti, e la cosa, se possibile, mi agitava ancora di più.
Accompagnato da quel vuoto inspiegabile, un groppo in gola formato dalle lacrime che trattenevo con tutto me stesso, e che riuscii a mandare giù solo grazie a quel caffè - ormai freddo, che bevvi in un solo sorso.
Senza nemmeno metterci lo zucchero, e infatti mi diede il voltastomaco, ma non era di certo la cosa più importante in quel momento.
Poi, accadde.
In mezzo a quel agglomerato di anime addolorate, arrivasti tu.
Ricordo perfettamente il modo in cui presi posto sullo sgabello al mio fianco, occupandolo, senza lasciarmi più con un vuoto a tormentarmi l'animo.
Mi rivolgesti una sola occhiata, prima di ordinare un cappuccio senza cacao sopra.
E sorridevi, sorridevi solo tu, e io non riuscii a smetterla di guardarti.
Accarezzavo con lo sguardo ogni tuo dettaglio, con una delicatezza che non sapevo nemmeno potesse appartenermi.
Lo notasti, e fu quasi come se un po' sperassi, di trovarti i miei occhi addosso nel momento in cui ti girasti verso di me.
Facesti un sospiro di sollievo - ancora oggi, non ne capisco il perché - e lasciasti che le nostre iridi si miscelassero nel più bello dei colori, pur essendo così simili.
Io continuavo a guardarti e pian piano, persino quel vuoto dentro me cominciò a sparire.
Si richiuse, cicatrizzandosi lentamente mentre cercavo, a quel punto, di capire chi fossi.
Perché mi facessi quest'effetto, nonostante non ti avessi mai visto

"Mi chiamo Manuel, piacere."

Perché mi sembrava proprio di conoscerti da una vita intera, Manuel.
Il modo in cui la tua voce risuonò, in quel bar  colmo di tormento, sporca di speranza di qualcuno che negli ultimi tempi aveva vissuto nel terrore.
Qualcuno che con la paura aveva imparato ad andarci d'accordo, aveva capito come gestirla.
E io continuavo a guardarti, senza capire nulla, fino ad arrendermi al fatto che probabilmente, mai sarebbe accaduto.
E forse andava anche bene così.
Forse, ci siamo conosciuti in un'altra vita, dove ci amavamo così tanto da non poter permettere alle nostre anime di non incontrarsi nuovamente.

"Simone, piacere mio."

Forse ti avevo già visto arrivare in sogno, dove insieme ordinavamo una brioche alla crema in due.
La stessa che in quel momento presi, staccandone una metà, consapevole in cuor tuo di poterlo fare.
Forse, Manuel, io già ti amavo, ancor prima di quel sabato mattina di Settembre.
E tu amavi ancora me, perché non mi avevi dimenticato.




|| SPAZIETTO ||
Prima OS (pubblicata), è corta e l'ansia mi divora, però l'amore per la scrittura mi ha condotta qui.
Volevo, nel mio piccolo, omaggiare questi due personaggi che mi hanno dato tantissimo.
Ringrazio Franci, Bea, Alessandra e Fra per i feedback.❤️‍🩹
A presto.🤍

p.s: non è detto che io non possa postare anche un pov di Manuel.✨

Il giorno più triste del mondo | SimuelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora