IPOCONDRIA

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Per risalire all'origine della mia malattia credo si debba risalire a quella di mia madre, di malattia

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Per risalire all'origine della mia malattia credo si debba risalire a quella di mia madre, di malattia. Cancro, nel suo caso. Ipocondria, nel mio.

Andavo alle scuole medie e mentre le mie amiche erano intente a comprarsi i primi reggiseni e piangere per le prime delusioni d'amore, io dovevo occuparmi di mio fratello minore e di gestire la rabbia che aleggiava in casa.

Credo che più che rabbia fosse stress, o rabbia derivata dallo stress, o rabbia derivata da quella malattia che pian piano ti mangia anche il cervello.

Ero arrabbiata io perché non potevo vivere la mia adolescenza, era arrabbiato mio fratello perché non voleva farsi dare ordini da sua sorella, era arrabbiato mio padre perché non riusciva a trovare una cura, era arrabbiata mia madre perché... Aveva il cancro, e tanto basta.

Era la prima volta che mi ritrovavo faccia a faccia con la malattia. Fino a quel momento avevo conosciuto solo la febbre che mi faceva felicemente saltare qualche giorno di scuola e credevo che tutto fosse risolvibile con uno sciroppo alla fragola e un po' di TV a letto.

Ma quella diagnosi cambiò tutto. Non subito, perché non capii la gravità della situazione finché mia madre non finì in sala operatoria. Finché non cominciò a perdere i capelli e la memoria. Finché mio padre non pronunciò per la prima volta la parola "morte".

Quando mi ammalai io, mamma c'era ancora. Sentivo un dolore al fianco che non mi lasciava tregua. Pensai al peggio. Dopo una giornata di sofferenza ne parlai con mia madre e lei mi disse di stare tranquilla, che non era niente, dovevo solo andare in bagno. La tranquillità nella sua voce e la velocità con cui mi liquidò mi lasciarono interdetta. Sua figlia era malata, e lei non provava la minima empatia? La sera stessa andai in bagno, e il dolore passò.

Mia madre era invece scomparsa da poco quando mi accorsi di una pallina dura comparsa in quel seno cresciuto troppo in fretta. Poteva significare solo una cosa, lo sapevo. Scelsi di non parlarne con nessuno, erano ancora tutti stravolti, non si meritavano di ricominciare tutto daccapo. E io non volevo curarmi, se curarmi significava passare i miei ultimi giorni in un corpo che non era più il mio. Se curarmi significava non guarire. Poi il giorno di Pasqua cambiai idea. La senologa che mi visitò trovò solo una ciste, benigna.

Ci sono malattie da cui si guarisce, altre che non ti lasciano scampo.

E poi c'è la mia malattia, che ti lascia malato per tutta la vita.

Quel mal di testa improvviso, quella vena che senti pulsare più del solito, quell'occhio leggermente appannato al risveglio, la diarrea dopo pranzo. Il cuore che comincia a battere più veloce non appena pensi al tuo cuore, il respiro affannoso non appena ti ricordi che stai respirando, le vertigini non appena ti accorgi che quella è proprio una situazione da vertigini...

E poi smetti di andare in vacanza se non c'è un ospedale nelle vicinanze. Smetti di viaggiare perché non si sa mai cosa può succedere per strada. Smetti di uscire a fare la spesa perché se stai male mentre sei in giro chi si accorge di te?

Ci sono periodi in cui la mia malattia si aggrava, altri in cui mi sembra di stare meglio. Ma non appena mi rendo conto di stare meglio, ripenso alla mia malattia ed ecco che sono punto e a capo.

Cerco di autoconvincermi che a essere malato non è il mio corpo, ma la mia mente. E la mia mente non mi può comandare, sono io che devo comandare lei. Ma io sono la mia mente...

A causa della mia malattia ho dovuto lasciare l'Università, arrivata a un certo punto non me la sentivo più di percorrere quei 30 km in treno. Stavo già scrivendo la tesi, mi mancavano un paio di esami. Il mio relatore si starà ancora chiedendo che fine abbia fatto.

Credevo che la situazione sarebbe migliorata con la nascita dei miei figli: avrei avuto la mente occupata dal loro accudimento e non ci sarebbe stato tempo di pensare ad altro. E invece è andata sempre peggio, perché ho cominciato a temere anche per loro. I vaccini, il vomito, il naso che cola. La testa sbattuta dopo una caduta, la stitichezza, i puntini sulla pelle.

Non voglio che si ammalino anche loro. So cosa significhi avere una madre malata e non voglio che lo scoprano anche loro. Mi misuro la pressione diverse volte al giorno, ma sempre chiusa a chiave nel bagno. Mi invento di avere delle faccende da sbrigare in casa per non portarli al parco. Li spio durante la notte per controllare che respirino. Cucino solo vellutate, per evitare che qualcosa gli vada di traverso.

Quando ieri sera sono andata a dormire mi sembrava che dal naso mi uscisse aria fredda e non riuscivo ad addormentarmi. Quando stamattina mi sono svegliata mi sembrava di avere una gamba debole e avevo paura di cadere. Poi mi sono specchiata, e mi sembrava di avere una palpebra più gonfia dell'altra, come se qualcosa mi stesse crescendo nella testa.

Sto scrivendo queste parole con le mani che mi tremano. Chiudo gli occhi, cerco di controllare il mio respiro. Sono condannata a vivere in questa trappola della mia mente, sono condannata a morte ogni secondo ma mi salvo sempre. Non so quanto tempo potrò andare avanti, quando la paura di vivere sarà più forte della paura della morte.

Perché ho anche pensato di uccidermi, più volte. Uccidermi per non dover più vivere con la paura di morire.

È ridicolo, drammatico, tragico allo stesso tempo.

Non so quando e se riuscirò a prendere una decisione. Ma forse la mia mente sì.

IPOCONDRIADove le storie prendono vita. Scoprilo ora