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Ricky

«Lo sogno. Ogni notte lo rivivo. La tranquillità iniziale. Mio fratello che mi chiede se voglio una patatina. Mia madre che guarda tranquilla fuori dal finestrino mentre mio padre guida. Poi arriva quella maledetta chiamata. La chiamata della morte. Mio padre risponde e non so come, non so perché ma...perde il controllo della macchina. Poi i fari accecanti di un'altra macchina, il rumore del clacson. Poi...niente. Non c'è più niente nei miei ricordi. Solo io che mi sveglio in ospedale»

Caldo. La mia temperatura corporea era troppo alta. Mi sentivo soffocare all'interno dei vestiti. Ero sdraiato ma mi sembrava di svenire. Di nuovo qui. Come ogni martedì.

«Cosa senti quando ripensi a ciò?» ed eccola lì, la domanda alla quale mi bloccavo sempre. Alla quale non avevo mai trovato una risposta.

Rabbia? frustrazione? tristezza?

No. 

«Senso di colpa»

Riaprii gli occhi che mi resi conto solo in quel momento di averli tenuti chiusi per tutto il tempo del racconto. Girai la testa per guardarlo negli occhi. 

«In colpa per cosa?»

«Per essere qui e poter parlare con lei. Per potermi alzare ogni fottuta mattina. Per essere vivo»

Perché io ero ancora lì? E loro erano a putrefarsi sotto terra?

«Lo so che non è realmente colpa mia. Insomma io non c'entro con l'incidente. E so anche che ciò che provo ha un nome, si chiama ....... Ma nonostante ciò, non riesco a fare a meno di provarlo. Di farmi corrodere da questo senso di colpa»

Dopo le mie ultime parole, il silenzio prese il sopravvento. Per la seguente mezz'ora nessuno fiatò. Io rimasi sdraiato sul divano in pelle a fissare il soffitto.

«Ci vediamo la prossima settimana caro» disse il dottore stringendomi la mano

«a settimana prossima dottore»

**********

«Come è andato dallo psicologo» mi chiese mia zia mentre tornavamo a casa. Io alzai le spalle e mormorai un «bene».

Non avevo un bel rapporto con i miei zii. In realtà non era neanche brutto, semplicemente non avevo un rapporto con loro.

Dopo l'incidente ero stato affidato a loro. Dei completi sconosciuti. I miei genitori non me li avevano mai fatti frequentare. Forse li avevo visti una volta durante le festività natalizie. 

Prima che li rivolgessi la parola erano passati 6 mesi. Forse anche perché avevo subito un trauma.

«Come va a scuola»

«bene»

«hai fatto amicizia» sarei potuto essere sincero ma, per un qualche strano motivo a me ignoto, non volevo deluderla

«Si» la zia sospirò e si arrese a fare una conversazione con me.

Decisi di non voler subito tornare a casa. Dopo una seduta intensiva dallo psicologo non ce l'avrei proprio fatta a rinchiudermi dentro la mia stanza. Dissi alla zia di dover andare a casa di un amico per un progetto. Non sapevo se mi avesse ceduto o meno, non mi importava.

Qualche giorno prima mentre la ragazza stramba di scuola mi faceva da guida per il paese, avevo intravisto un sentiero che andava dentro il bosco. Mi ero portato dietro e cuffie per fortuna.

Sulle note di Enemy degli Imagine Dragons, passeggiai in mezzo alla natura più viva. Per me che venivo da una grande metropoli, era un paradiso quel posto. Il verde era così luminoso, si sentivano gli uccelli cinguettare e il rumore dello scorrere dell'acqua di un fiume.

Qui potevo respirare a pieni polmoni senza temere per lo smog. Sentivo la freschezza e la purezza dell'aria, la avvertivo. 

Trovai un grande masso e decisi di sedermici. Tirai fuori dal mio zaino un blocchetto. Amavo il disegno. Era proprio in questa mia passione che mi ero rifugiato. Per tutto il periodo che sono stato ricoverato in ospedale, ho disegnato.

Cosa disegnavo?

Tutto e niente.

Disegnavo ciò che vedevo dalla finestra della mia stanza. Le facci dei vari medici che si occupavano di me. C'era però un disegno che non avevo mai finito. Un ritratto. Anzi, un autoritratto. Il mio.

Mia madre mi aveva chiesto di farlo per lei. In quel ritratto avrei dovuto sorridere. Ma da quel giorno non avevo mai più sorriso. Non me lo ricordavo più come fa il mio volto sorridente.

Avevo dimenticato il mio sorriso. 

Come avrei potuto disegnare qualcosa che non ricordavo? Io ero abituato a mettere su carta cose materiali. E in quel periodo il mio sorriso era solo un concetto astratto bloccato nei miei ricordi.

Chissà se un giorno avrei mai completato quel disegno.

Mentre definivo i  contorni dell'albero che stavo disegnando notai una figura. Aggrottai le sopracciglia e rimisi tutta la mia attrezzatura da disegno nello zaino. Dalla figura minuta capii che si trattava di una ragazza. La seguii.

Si ambientava benissimo. Si muoveva come se fosse in casa sua. Doveva essere una ragazza cresciuta qui. Seguendola arrivammo sulle rive di un lago cristallino. Sembrava uni specchio. 

La ragazza prese una tovaglia e la stese a terra. Era rivolta verso il lago e mi dava le spalle. MI appoggia al tronco di una albero. Prese dalla sua borsa un quaderno e mentre lo faceva vidi il suo profilo.

Non ci volevo credere. 

Un ghigno divertito prese subito posto sul mio volto. 

Quatto quatto mi avvicinai. 

«Pureté»

«AAAAAA» mi accasciai a terra ridendo.

«Che ti ridi idiota che non sei altro» disse picchiandomi con il suo quaderno

«tu pensi davvero di farmi male con quel coso?» smisi di ridere e mi asciugai le lacrime agli occhi.

Aspetta un attimo.

Io...stavo...stavo ridendo?

«vuoi provare un mio pugno?» mi mise davanti alla faccia il suo tenero pugnetto paragonabile a quello di una bambina di 8 anni.

«Oh no, non farlo ti prego. Con quello si che mi faresti molto male» si era sentita la mia ironia? dalla sua faccia giudicai di si.

«Non sei divertente»

«Che ci fai qui?» le chiesi guardandomi intorno. 

«Per stare da sola. Non voglio NESSUNO qui con me»  ricalcò la parola nessuno.

«mi ero dimenticato del soprannome che mi avevi affibbiato»

«che intendi?»

«anche al nostro primo incontro mi hai chiamato nessuno»

KAREN

«Ti offende questa cosa?»

«il nomignolo? no»

sospirai

«peccato» ridemmo insieme.

sembrava quasi una barzelletta, io che ero in compagnia di qualcuno e non mi sentivo a disagio. Magari mi sentissi così con tutti.


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