"Succede ai vivi".
"Succede ai vivi".
Era la frase che dicevi sempre ai tuoi figli, per sdrammatizzare e ridimensionare tutti i problemi della vita.
Per dire una verità amara, che si addolcisce dentro il palato quando la gusti meglio.
Uno di questi giorni, mentre tornavo a casa sotto la pioggia incessante senza ombrello, ho ripensato alle tue parole.
"Succede ai vivi".
Ho ripensato a quella frase senza associare il suono della tua voce, perché non lo ricordo: a stento l'ho mai udito. Non parlavi mai con me. Non parlavi e basta - forse.
Quando io iniziavo a estendere la mia coscienza sul mondo, tu ritiravi la tua: io, piccola, mi appropriavo della vita, mentre tu, anziano, la lasciavi andare dalle tue mani stanche.
Quando sono diventata un po' più grande per capirti, sei andato via.
E così non ci siamo incontrati. Mai.
Sapevo solo che ti dovevo un grande debito genetico: l'asma.
E con questa eredità, mi sembrava finita la nostra storia.
Invece non era così.
È successo che durante una pandemia ho trovato te, i tuoi pensieri asciutti quanto la tua faccia, osservazioni sintetiche e senza passione sul mondo, il tutto stretto a doppio spago dentro il tuo diario di guerra.
Ho visto Pasquale Esposito, 22 anni e una linea di frontiera sulla quale imbracciava armi sempre scariche, inadeguate alle sue mani figurarsi contro un nemico, dentro una guerra, una guerra vera, non quella gloriosa dei libri o delle campagne di regime, ma quella di fango, sangue e prigioni.
Quando ti ritrovai lì dentro un amico mi disse: "trascrivi il diario... inizia a frequentare tuo nonno nelle sue parole".
E così ho fatto. Fino a un certo punto. Mi sono arrampicata sulle tue lettere sottili ed eleganti per trascriverle, mi sono inerpicata in codici da giovane leva...
Finché non ho deciso di perdere il controllo su di te, cadere giù, dentro la tua vita, nei tuoi giorni: ho abbandonato la trascrizione meticolosa e ho cercato di capire come ti avessero imprigionato, cosa potevi aver pensato, provato.
Ho tentato di entrarti nel cuore, attraversando il guado delle tue frasi scritte; ma te l'ho detto, hai pensieri asciutti e sottili quanto la tua faccia, che non portano con sé segni di emozioni: più che un diario, infatti, hai scritto un bollettino quotidiano.
La grafite segna la traccia di azioni, non di sentimenti.
E così mi sono accontentata: ho preso il sentiero dei tuoi giorni, per tre anni.
Tre anni che ho vissuto, giorno per giorno, in un'unica notte di lettura febbrile.
È così che conosco.
Conosco i giorni in cui hai mangiato le patate bollite, quelli in cui hai digiunato, gli altri in cui hai avuto la diarrea.
I giorni in cui hai avuto freddo e quelli in cui hai aspettato lettere che non arrivavano.
Un solo giorno hai scritto che hai pianto: quanto ti deve essere costato uscire dal bollettino per sbattere un'emozione sulla carta, sconfitto dalla violenza della nostra umanità fragile.
Mi è bastato leggere questa frase una sola volta per scoppiare a piangere insieme a te e avere il desiderio di tornare indietro nel tempo, in quel giorno del '44, per venire a stringerti la mano di notte e prometterti che ti saresti salvato.
Conosco i giorni in cui sei riuscito a recitare il rosario e quelli in cui eri troppo stanco per farlo: so quanto ti è pesato non poter essere cristiano come desideravi.
Conosco i tuoi spostamenti: ti ho seguito nei campi di lavoro forzato, nei trasferimenti in altri paesi. Ti ho seguito in ogni azione quotidiana.
Poi, non so bene com'è successo nonno, ma è successo: ci hanno liberati!
È bastata la notizia della fine della guerra per far dileguare i nazisti dal campo: i cancelli si sono aperti da soli, come se a spingerli fosse solo il vento alle vostre spalle (o la paura dietro quelle del nemico).
Come ci si sente a essere liberati dopo due anni, nonno?
Vorrei saperlo, ma non me l'hai detto: hai taciuto anche questo sentimento.
Eppure so che sei stato felice - sai, l'ho capito - quando in un punto confuso della tua fuga verso l'Italia, sei riuscito a vedere un film proiettato all'aperto. Deve essere stato strano vedere un film dopo essere stato in un lager, ancor più strano che vedere il mondo girare in mascherina per 12 mesi.
E deve essere stato strano, davvero strano e spaventoso, quando quell'uomo di colore che guidava un camion dentro Praga cercava di riportarvi verso il confine, rischiando di schiantarsi: lì, lo so, hai pensato davvero di morire.
Ma non è successo.
E alla fine, anche se nel bollettino non lo scrivi, sei tornato a casa.
Vivendo con te questi tre anni, uno da militare e due da prigioniero, l'ho capito, l'ho capito adesso nonno, dopo averti conosciuto, cosa vuol dire davvero "succede ai vivi".
Me l'hai spiegato in un punto impreciso della Storia e delle nostre vite, un momento in cui tu sei più giovane di me e io più anziana di te: in deroga al Tempo, ci siamo finalmente incontrati.
Mi ci è voluta una pandemia globale e la seconda guerra mondiale per farmi capire che è vero, che hai ragione: tutto, in qualsiasi momento, qualsiasi cosa, bella o brutta che sia, succede solo se sei vivo.
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Succede ai vivi.
Short StoryQuando ero piccola, mio nonno parlava pochissimo con me. Ricordo i nostri disegni, i nostri abbracci ma non le sue parole. Una delle poche massime però che mi rimase impressa fin da piccola era: "succede ai vivi". Solo durante la pandemia, ritrovand...