Capitolo 1

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Nacqui il 30 marzo del 1963, da una famiglia piuttosto benestante in verità contando il periodo abbastanza sconsolato di quegli anni.
E fui un bambino tanto voluto e tanto amato. Per tutti gli anni della mia infanzia non mi mancò nulla, neppure il più caldo abbraccio dei miei cari genitori a cui si riaccesero gli occhi dopo gli anni della guerra.

Mio padre, Dante Balestra, era un uomo che ai tempi, era sicuro di sé e forse a tratti un po' egocentrico. Ma con molta bontà in cuor suo, ne sono stato sempre sicuro.
Mia madre, cara donna, l'ho vissuta poco e niente tra lacrime, finti sorrisi e partenze. Ma nei momenti in cui la sentivo vicina, era estremamente confortante rifugiarsi tra le sue fragili braccia.
Mio fratello Jacopo infine, la mia metà mancante. Non so dire molto su quel bimbo dal visino ben conosciuto: forse anche per me a dirla tutta è uno sconosciuto ma di certo, un vuoto nel mio petto è causa della sua assenza.

Nonostante la mia famiglia fu pressoché perfetta io non fui un bambino grazioso.
Ero una creatura piuttosto sulle sue, che non blaterava più del dovuto con chi appunto non conosceva.
Molto schivo e introverso, tendevo a chiudermi molto in me stesso proprio perché al di fuori delle mie spalle larghe, avevo paura a spingermi.

Ricordo,
che nell'esteso prato della villa, ci passavo le ore a contemplare anche il più minimo movimento delle foglie, una timorosa vespa che si posava su un fiore in attesa di nutrirsi e il sole che tramontava non appena papà accorreva alla porta per urlare il mio nome.

Avevo un mondo tutto mio, che controllavo alla perfezione e in cui mi piaceva perdermi per ritrovarmi in modi sempre nuovi con scoperte sempre differenti.
Ma agli sembrò non piacere questo mio modo di essere e di vivere.

Iniziarono a definirmi strano.
Fermavano papà mormorando "Balestra, ma il tuo figliolo proprio non esce con gli altri bimbetti del parco?"
E mio padre, forse per educazione, non rispondeva mai alle loro domande. Semplicemente ignorava queste stolte menti e mi rassicurava dicendo che io non me ne sarei dovuto mai preoccupare.

Forse avrei dovuto ascoltarlo.

Ahimè, quando iniziai ad andare a scuola, a stretto contatto con gli altri bambini, non negavo di sentirmi un po' a disagio.
C'erano quei piccoli musini che tra loro parlavano e si tenevano il posto del banco a vicenda.
Io invece, camminavo con il mio zainetto rosso fino al primo banco, senza curarmi di quegli sguardi vispi e curiosi che mi bruciavano sulla schiena.

Non fu un bel periodo.

In quegli anni percepii sulla mia pelle la sensazione di essere escluso. E all'inizio a me non importava, semplicemente perché io nella solitudine ci sguazzavo una meraviglia. Certo, non doveva essere inoltrata a lunghi periodi ma ormai io ero abituato e non pensavo che questo potesse mai cambiare.

Poi, la prima media.

Il mio papà rimase al mio fianco tutto il tempo, fino al momento in cui fui costretto a entrare in classe e lasciare la sua grande mano e gli occhi ricchi di fiducia e amore che mi seguirono fino alla finestra al primo piano.

Mia madre in quegli anni non c'era mai. Era sempre indaffarata con questioni di lavoro anche abbastanza importanti e per cui doveva restare concentrata.
Era partita, lasciandoci soli, circa sei mesi prima dal mio inizio nella scuola media.
Per la Scozia. Che io ai tempi vedevo come una terra lontana che la donna della mia vita aveva preferito a me.

Ebbi problemi più gravi questa volta a scuola.
Quando entravo nella classe e tra i banchi percepivo gli sguardi penetranti dei giovani sul mio corpo, mi imbarazzavo a tal punto che per un paio di mesi soffrì di un breve mutismo selettivo. Che causò un periodo di scherzi e battute che gli altri chiamavano bullismo, ma io non notavo gran differenze dal solito comportamento.

Il mio papà • Simone Balestra Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora