Erano trascorse tre settimane dal nostro arrivo a Monaco e la pioggia incessante ci aveva costretti a rintanarci in casa e fare la maratona di cartoni animati.
Chiuso in casa e con la pioggia che batteva forte sul vetro della grande vetrata in salotto me ne stavo lì, con gli occhi tristi e in piedi a guardare l'orizzonte, perso completamente nel grigio del mare in tempesta. Avevo ricevuto notizie da Toto sulle condizioni stabili di Isabella, ma non un accenno al suo risveglio. Quando sentivo il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni il mio cuore faceva un salto, galoppava nella speranza di sentire solo una buona notizia, rotolava e poi ricadeva con l'ennesima conferma della "stabilità" dei parametri vitali della madre di mia figlia, a pezzi.
Sentivo gli occhi pizzicare quando Eleonor mi strinse leggermente la stoffa della tuta nera che indossavo quel pomeriggio, incitandomi a prenderla in braccio mentre mangiucchiava la gamba di una barbie.
La coccolai dondolandomi prima su un piede e poi sull'altro, ancora immerso tra i miei pensieri, quando la sua vocina mi riportò bruscamente alla realtà come un bagno d'acqua gelida
«Dov'è la mamma?» non avevo la più pallida idea di cosa dirle. Mi aspettavo una domanda simile, infondo aveva passato due anni e mezzo della sua vita con Bella, ma il silenzio dei giorni precedenti mi aveva dato la speranza che non me l'avrebbe mai chiesto, ormai infranta
«Dorme» dissi semplicemente; infondo non era una bugia. El mi guardò perplessa, probabilmente non riuscendo a capire appieno ciò che le avevo detto, così continuai
«È caduta in un sonno profondo, è molto stanca» cacciai indentro la lacrima che bruciava come il sale del mare, e poi una risata lasciò le mie labbra quando sentii la bambina dire
«Come la Bella Addormentata?» indicó con la manina una bambola dai lunghi capelli dorati, fasciata da un bellissimo abito rosa con le maniche a sbuffo e la gonna con delle roselline bianche ricamare sopra. Era proprio lei, la Bella Addormentata
«Si, come una vera principessa» e poi le cose cambiarono tutto a un tratto. Un fulmine cadde dal cielo nero colpendo un grosso albero che, ormai fumante, si staccò da terra accasciandosi su un fianco e finendo proprio sul nostro terrazzo. I rami più lunghi finirono per rompere le vetrate dove io e la bambina ci eravamo affacciati e un grosso polverone di foglie e pezzi di vetro ci cadde addosso come pioggia bollente. Cercai di allontanarmi il più in fretta possibile dalle vetrate ma queste si erano già rotte, così per proteggere El mi lanciai sul pavimento e stetti attento a non schiacciarla con tutto il mio peso mentre piccoli pezzi di vetro si insinuavano nella mia pelle, ferendomi lievemente la schiena e le braccia. Sentii un tonfo e delle urla provenire dal piano di sopra, poi vidi la mamma e Lorenzo catapultarsi in salone per poi sbiancare e sbrigarsi a chiamare aiuto. Quando ormai il peggio era passato lasciai che Lorenzo prendesse Eleonor per portarla in cucina e io mi alzai da terra stando attento a non tagliarmi
«Arthur!» la mamma era in lacrime e si strinse ancor di più nella sua vestaglia buttando uno sguardo generale alla situazione e poi alla porta spalancata per far sì che i soccorsi entrassero immediatamente. Il pianto della piccola richiamò la mia attenzione e insieme alla mamma mi precipitai in cucina per vedere se fosse ferita. Lorenzo stava riempiendo il suo biberon con dell'acqua e le accarezzava dolcemente i capelli per farla calmare mentre io, lanciandomi verso la bambina, venivo fermato dalla mamma
«Dovete andare in ospedale, adesso! Lorenzo, accompagnali al pronto soccorso, io resto qui per quando arriveranno i pompieri» mi infilai la giacca provando un fastidio alla schiena e in un batter d'occhio arrivammo in ospedale dove alcuni medici, vedendoci in quello stato, presero me e la piccola per visitarci. Quando capii che ci avrebbero divisi pregai mio fratello di andare con lei e assicurarsi che fosse tutto apposto, poi lasciai che mi trascinassero in una stanza e spiegai quanto accaduto mentre un'infermiera mi aiutava a spogliarmiIl dottore mi stava mettendo gli ultimi punti sulla fronte e fasciando i tagli più gravi con una garza quando una donna fece capolino nella stanza con in braccio Eleonor. La piccola sembrava essersi calmata: i suoi occhietti, arrossati dal pianto, fissavano il coniglietto di peluche sorridente che stringeva tra le mani. Un piccolo graffio sulla guancia e una garza attorno al polso erano le uniche tracce dall'incidente, fortunatamente.
Nonostante sembrasse in ottima forma, pulita e ordinata, la studiai attentamente mentre l'infermiera che la teneva in braccio la portò vicino alla finestra. La donna le stava facendo vedere il grande giardino dell'ospedale, indicandole il campo di margherite sulla destra, appena di fianco al pronto soccorso, quando girando lo sguardo e alzando gli occhi mi accorsi di essere osservato. Un uomo giovane, sulla trentina, era appostato dietro una colonna e mi fissava con gli occhi spalancati. Mi accorsi troppo tardi che questo aveva in mano una fotocamera ed era pronto a scattare. Accadde tutto nell'arco di pochi secondi: mi alzai di scatto e, ancora scombussolato, ebbi un giramento di testa e venni accecato dal flash di quello sconosciuto. Raggiunsi la porta correndo e mi catapultai fuori alla ricerca di quell'uomo, che prontamente aveva imboccato la rampa di scale più vicina
«Ei!» lo richiami seguendolo, ma questo era troppo spaventato per fermarsi. Probabilmente non si sarebbe aspettato una tale reazione da parte mia, infondo ero abituato ad essere seguito dai paparazzi, ma la situazione non era delle migliori e pensare che in quella stanza c'era anche El mi aveva mandato in bestia.
Scesi velocemente le scale saltando gli ultimi tre gradini, finendo addosso a un povero infermiere che fece ribaltare il carretto che trasportava con su i medicinali. Mi scusai più e più volte aiutandolo a sistemare tutto, non distogliendo mai lo sguardo da tutte le uscite possibili alla ricerca del paparazzo.
Quando scorsi la sua giacca verde dirigersi verso il parcheggio riservato ai pazienti mi fiondai fuori per seguirlo, ma fui fermato da due imponenti uomini con le divise della sicurezza e uno sguardo minaccioso: mi guardarono dall'alto in basso con disprezzo, focalizzandosi sulla siringa che avevo
in mano, allarmandosi
«Signore, getti a terra la siringa» fino a quel momento non mi ero neanche reso conto di starne stringendo una. I loro occhi guizzavano dalla mia mano al mio viso, in cerca di un qualsiasi accenno
di reazione. Non avevo intenzione di fargli del male,
non ne avrei mai fatto neanche a una mosca, e fu quello probabilmente a farmi saltare i nervi. Feci per lasciare a terra la siringa e correre di nuovo dietro a quell'uomo che stava salendo in un suv scuro, ma le guardie fraintesero il mio gesto immobilizzandomi
«Fermo lì ragazzo! Lucien, le manette» alla parola manette credei veramente di star impazzendo: prima finiamo in ospedale per un incidente assurdo, poi mi scattano foto senza il mio consenso e ora vogliono pure arrestarmi! Cercai di dimenarmi spingendo indietro la guardia che mi aveva stretto le braccia dietro la schiena, ma questo era decisamente più forte di me
«È lui l'uomo che dovete fermare, dannazione!» convinsi i due uomini che si stavamo sbagliando nell'esatto momento in cui quel paparazzo scattò l'ennesima foto, ritraendomi mentre venivo preso per un maniaco. Un sorriso crebbe sul suo volto
«Questo va dritto alla stampa» mi era sembrato di sentire mentre la sua auto sfrecciava via dal
parcheggio. In preda all'ira scattai di lato facendo barcollare una delle guardie, e l'altra prontamente mi colpì la schiena costringendomi ad accasciarmi. Un urlo di dolore uscì dalla mia bocca e prima che potessi fermarmi e ragionare colpii con un pugno in pieno volto l'uomo, facendogli uscire il sangue dal naso. Non era mia intenzione, ma quello mi aveva colpito una ferita e probabilmente l'aveva riaperta. Mi toccai il punto dolente con le dita, serrando i denti quando una fitta di dolore mi attraversò la schiena. Era una scena davvero esilarante quella che avevo dinanzi agli occhi: avevo atterrato due guardie e messo a soqquadro l'ospedale.
Mon dieu, che giornata!Dopo aver passato un intero pomeriggio a farmi ricucire la schiena e giustificare la violenza compiuta nei confronti della sicurezza dell'ospedale potei tornare a casa, esausto.
Lorenzo si occupò di mettere a letto la bambina mentre io, la mamma e Charles ci sedemmo tutti al tavolo in cucina.
Come se la giornata non fosse stata abbastanza pessima, dovetti subire anche la predica di mia madre riguardo la mia irresponsabilità.
Era preoccupata, esausta tanto quanto me e furiosa
«Ti rendi conto di quello che hai fatto?» sbattè le
mani sul tavolo di marmo e mi fissò con gli occhi sbarrati, in attesa di una risposta che però non arrivò mai. Me ne stavo lì, inerme con la testa piegata sul tavolo e le braccia conserte. Avevo un gran mal di testa e il fatto che non la smettesse di urlare mi stava dando terribilmente fastidio. Charles tento di distrarla spiegandole che non era mia intenzione aggradire quell'uomo e che stavo solo cercando di proteggere me e mia figlia, ma lei non volle ascoltarlo. Aveva troppo a cuore l'immagine, e io compiendo quel gesto l'avevo infangata.
Monte Carlo era una piccola città e noi eravamo una delle famiglie più famose del principato, perciò l'accaduto sarebbe presto divenuto di dominio pubblico.
Le loro voci mi arrivavano ovattate alle orecchie, stavo cominciando davvero a non sentirmi bene.
La testa mi girava, le tempie mi pulsavano e un fastidioso formicolio mi intorpidì le mani e i piedi.
In un attimo il mio cuore accelerò e il mio respiro si fece sempre più pesante e difficile da controllare.
1,2,3,4...contai i battiti del mio cuore cercando di calcolare quanti ne avessi al minuto: 130.
Essendo a riposo non era un buon segno.
Cercai di farli rallentare inspirando ed espirando piano, fino a quando non scesero e tornarono nella norma. Mi focalizzai su un bel ricordo che mi
aiutasse a calmarmi: Isabella. Riportai alla mente il nostro primo incontro e di quanto fosse tremendamente bella, di quando ci facemmo il bagno insieme nelle acque cristalline di Capri, della cena sullo yacht e della nostra prima volta. Ricordai le sue guance andare a fuoco quando le sfilai il vestito svelando un corpo tonico e abbronzato; le sue labbra soffici, calde; i suoi lunghi capelli castani al profumo di vaniglia e i suoi occhi, incastrati perfettamente nei miei.
Era la donna più bella che avessi mai visto, e il
diamante più prezioso che potessi desiderare.
Se solo non avessi fatto lo sbaglio di lasciarmela scappare...
Un flusso di pensieri aveva invaso la mia
mente tutto ciò che desideravo fare era andarmene al letto, chiudere gli occhi e dimenticare tutto.
Charles e la mamma non si erano accorti di nulla, troppo impegnati a discutere su chi avesse torto o ragione, perciò in silenzio mi alzai e andai verso la mia camera, noncurante del richiamo di mia madre e di Charles.
Chiusi la porta della mia camera senza neanche voltarmi e, sfilandomi piano la maglietta, mi accasciai sul letto, inerme.
Papà, se puoi sentirmi, fa che tutto si risolvi, che El stia bene, che tutti stiano bene, ma soprattutto, fa che Bella si svegli...
Una calda lacrima di esasperazione e stanchezza mi rotolò lungo la guancia, solleticandola.
Non appena poggiai la testa sul cuscino caddi in sonno profondo, sognando papà.🏎️
Rieccoci con il ventunesimo capitolo. L'attesa è stata tanta, ma ne è valsa la pena. Spero che questo capitolo vi piaccia e cercherò di aggiornare il prima possibile per recuperare il tempo perso.
Grazie per essere arrivat* fino a qui e ci vediamo al prossimo capitolo❤️
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SEI SEMPRE STATA TU || Arthur Leclerc
FanfictionIsabella, a soli diciannove anni, si ritrova a fare i conti con una situazione difficile. Su di lei gravano il giudizio altrui, il peso delle aspettative e la consapevolezza di non essere ciò che gli altri desideravano che fosse. Al suo fianco un...