Giorno 1

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È freddo questo vetro. O forse ad essere freddo sono soltanto io che ci sono poggiato contro da ore.

Non è vero.

Non sono passate ore.

Sono passati a malapena trenta minuti eppure a me sembrano una vita intera, quella che ho pensato più volte di perdere stanotte.

Non mi sento più la fronte, e la punta del naso, e la punta delle dita. Perché sono premuto contro questo vetro nella speranza di sentirlo diventare aria, nella speranza di vederlo disintegrarsi, portandomi così da te senza che io possa farci niente. Nella speranza che qualcuno, per l'ennesima volta, prenda una decisione al mio posto. Al posto del mio cuore spaventato.

Il vetro però è freddo, e spesso, e duro e irremovibile.

Così come la mia paura. Così come il mio cuore.

Mi sento una merda, Simone, perché per un breve istante, stanotte, mi sono sentito sollevato.

Mentre tu combattevi con la morte ed i tuoi demoni —o forse con la vita, più che con la morte, per quanto ne sappiamo — io mi sono sentito sollevato perché per una volta, una sola volta, ho provato una paura tanto grande da annientare tutte le altre.

La paura che ho provato stanotte è stata così enorme da annientare me, da annientare ogni cosa in me, ed ho scoperto che nel dolore più devastante si può trovare una forma di inquietante completezza, una forma di pace, una spaventosa quanto confortante assenza di sentimenti della quale sento che potrei diventare dipendente.

Mi sento una merda perché sono un codardo, perché la mia necessità di sentirmi vuoto, svuotato di ogni paura — anche a costo di venire schiacciato da una superiore — è forse quello che ti ha portato in questo letto, davanti a me.

Perché dal dolore non si può sfuggire, ma io invece che tenerti per mano e farti compagnia mentre tu avevi paura, ho spento la luce.

Era diventato tutto buio e io, che al buio ci sono nato, ti ho nascosto l'interruttore, invece di indicarti la strada verso di esso.

Non me lo perdono e per questo continuo a premere la fronte contro questo vetro, immaginando che sia il tuo petto ciò su cui mi sto poggiando.

Lo faccio solo perché ora stai dormendo, in realtà.

Non puoi vedermi. I tuoi occhi non hanno mai incrociato i miei da quando si sono riaperti su questo mondo e forse è giusto così. Eppure non faccio che sentirmi una merda perché a me non interessa di cosa è giusto, perché sono qua solo perché non puoi vedermi, sono qua nascosto dietro il tuo sonno perché ho paura.

Di me, non di te.

Mai di te ho avuto paura, Simone.

Ho sempre avuto paura di me, ma stanotte ho avuto paura di perdere te.

E ora non so che fare, allora piango.

E sono patetico, lo so che sono patetico, che chiunque passi per questo corridoio vedrà un ragazzino con i capelli sfatti, una giacca stropicciata, le scarpe slacciate ed una mano sporca di sangue poggiata contro un vetro — come se al di là di questo ci fosse tutto ciò di cui ha bisogno e tutto ciò di cui è stato privato.

Non ho avuto il coraggio di lavarmi le mani.

Mia madre mi ha detto di non toccarti quando ti abbiamo trovato e io non l'ho fatto, Simone, però poi... poi ho passato una mano sul tuo viso perché non ci potevo credere che la tua bocca non si muovesse per farmi qualche fastidiosissima domanda, che i tuoi occhi non mi guardassero come sono certo di non aver mai meritato di esser guardato. Allora ti ho accarezzato come non ho fatto mai, nemmeno la sera del tuo compleanno, nemmeno quando mi hai amato più di quanto io non mi sia amato mai.

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