LUNA
Appena entrai a scuola non salutai nemmeno le altre, i tagli mi bruciavano e avevo bisogno di acqua fresca per sciacquarli. Mi diressi in bagno, aprii il rubinetto e feci colare il sangue nel lavandino. Le gocce cadevano una alla volta a intervalli precisi, e scivolavano nello scarico, le ferite si dilatavano ogni volta che l'acqua le toccava e la pelle attorno si era ormai fatta di un rosso acceso. A un certo punto sentii l'acqua dello scarico provenire da uno dei bagni, uscì una ragazza minuta, bionda, con degli occhi azzurri che mi ricordavano il mare, guardò prima me e poi il mio braccio e spalancò la bocca. "Cos'hai lì?" mi disse. La fissai per un po', poi la presi per il collo e la sbattei contro il cesso dietro di lei, strinsi le mie dita ancora sporche di sangue attorno al suo collo sottile mentre cercava in tutti i modi di respirare e liberarsi. Le tirai una ginocchiata nello stomaco e cadde subito a terra, pensai allora che fosse il momento giusto per iniziare a riempirla di calci, sulle costole, sulle gambe, sulla testa, in faccia. Non diceva niente, la guardavo mentre veniva sbattuta qua e là in mezzo alla piscia contro il water e non parlava. La tirai su per i capelli e la obbligai a leccare terra, "tira fuori la lingua" le sussurrai nell'orecchio , lei si girò verso di me e una lacrima le attraversò la guancia, fece no con la testa, "lecca" continuai. Allora si abbassò sulle ginocchia e si spinse in avanti, le diedi un colpetto sulla testa per incitarla, ma la cosa fu interrotta da una voce femminile, era Jessy. "Luna che cazzo stai facendo?", mi alzai di scatto e lasciai la biondina a terra che singhiozzava. "Luna esci da questo bagno per favore", mi coprii il braccio ormai sporco di sangue e uscii in corridoio. "Alzati" disse Jessy alla ragazzina, ma lei restava a terra accovacciata. "Tirati su, muoviti", ma ancora niente, allora le si avvicinò , la prese per un braccio e la rimise in piedi. "Stai bene?", le chiese, "come ti chiami?". La bionda la guardava con un labbro sanguinante e con le mani che premevano sullo stomaco, "Stella" disse poi. "Non piangere, prendi un po' di carta e pulisciti".
Jessy uscì dal bagno e mi raggiunse davanti la porta della classe, mi prese da un braccio e mi trascinò nel laboratorio di chimica. Lì prese uno straccio, mi tirò su la manica della felpa e mi avvolse il polso con delicatezza. Aveva le mani lisce, con dita sottili e unghie mangiucchiate ma colorate di blu, le si vedevano le piccole vene dalle nocche in giù. Il suo respiro mi cadeva sul naso, mentre i suoi capelli mi sfioravano la fronte, se la guardavi da vicino potevi vederle delle lentiggini sugli zigomi e le sfumature di marrone che aveva negli iridi. Mi fece sedere, prese dello scotch, iniziò a girarlo sullo straccio, lo fece abbassandosi verso me e le mie dita le toccarono il seno. "Smettila di tingerti", avrei voluto dirle, "perché il bruno dei tuoi capelli associato a quello delle sopracciglia scure ti dona", ma non le dissi nulla. Mentre metteva a posto le cose le fissavo le spalle scoperte, e le braccia lunghe che si muovevano come serpenti. "Devi smetterla", si girò verso di me di scatto.
"Di tagliarmi o di picchiare le persone?" le chiesi io di rimando. Lei sbuffò, ma mi immaginai comunque la sua voce che mi rispondeva.
Quando ci si taglia viene lesionato un vaso sanguigno, allora le sostanze chimiche richiamano le piastrine che corrono e corrono per raggiungere la parete danneggiata e formare un tappo. A me sembra sempre che questo tappo non si formi, il sangue esce e mi scorre sulle braccia alla velocità della luce, vorrei poterlo fermare, vorrei poter sentire dolore senza vedermi inzuppata di un rosso vivo, ma non ci riesco. Devo sprecare rotoli di carta igienica e pacchetti di fazzoletti per ripulire l'orrore di cui sono carnefice. Mi spavento dopo essermi tagliata, ho paura di tutto, del mondo, ma ancora di più di me stessa, mi stupisco di quello che sono in grado di fare, e per di più sul mio stesso corpo, vedo la pelle aprirsi e seguire la scia della lama, le vene gonfiarsi come d'estate quando fa caldo. Per circa dieci minuti quel bruciore è il miglior effetto che io possa provare, ma superato quel momento cado in uno stato di profonda depressione che non mi fa vedere la luce intorno a me. Quella sera stavo fissando il soffitto, le crepe sulla parete davanti al letto, mi ricordavano le vene delle braccia, sottili e lunghe, imperfette e deboli, "se mai dovessi sbagliare nello spingere la lama sul mio corpo si romperebbero" pensai, e allora a quel punto il sangue fuoriuscirebbe come una fontanella dei parchi. Me le ricordo, le fontanelle, ci andavo a bere dopo aver sprecato fiato sullo scivolo o sull'altalena, andavo a spasso con i nonni e mi ricordo l'aria profumata, gli alberi pieni di fiori e il vento che mi accarezzava il viso. Ricordo le merende all'uscita da scuola, le barbie sul tavolo della cucina, mamma e papà che mi portavano a vedere gli aerei decollare, mia sorella a gattoni sulla moquette, le bambole sul passeggino e i miei boccoli sempre disordinati. Se ci ripenso, se ripenso a tutte queste cose piango, non per malinconia, ma perché dietro a tutti questi elementi quotidiani di una bambina spaventata si nasconde l'inquietudine del vivere.
La mattina dopo in corridoio davanti alla mia classe vidi Jessy, Perla e Nina parlare con la ragazza del bagno del giorno prima.
"Ciao" dissi a tutte quattro, poi allungai la mano e mi presentai alla biondina, che appena mi guardò deglutì intimorita.
"Che begli occhi che hai" continuai con Stella. Non mi rispose, e allora intervenne Perla "pensavamo di andare al mare questo weekend Luna, cosa ne dici? E' per il compleanno di Nina"
"Come volete" risposi di rimando. In realtà mi andava, sarei stata lontana da casa e dai soliti ambienti tossici, volevo passare del tempo con le mie amiche, e in fondo anche con una che non sapevo neanche chi fosse.
L'aria di mare, il profumo di salsedine, la brezza marina si sentivano appena entrati nel paesino della Liguria. Guidava Jessy, parcheggiammo e ci avviammo a riva con i nostri teli, appena mi tolsi le scarpe sentii la sabbia morbida toccarmi le piante dei piedi, i granelli entrarmi tra le dita sudate e le caviglie farsi deboli ad ogni passo. Guardai l'immensità della distesa d'acqua e immaginai che mi risucchiasse, lentamente, tra le onde leggere e la schiuma con le bollicine. È da solo il mare, eppure in tanti lo ammirano, lo disegnano, lo toccano, ma rimane solo, abbandonato nella sua bellezza. Perchè dopo averlo ammirato, disegnato e toccato se ne vanno tutti, lo lasciano lì tra i suoi rumori e i suoi segreti. Chissà cosa nasconde in quella solitudine, chissà quali cose non rilevate né visibili, che non si possono percepire ma che si sentono, io le sento, sento le parole non rilevate dai movimenti lenti. Dai movimenti che il mare produce turbolenti quando piange e dai movimenti calmi di quando è in pace con sé stesso. Anche se, secondo me è femmina, il mare è donna, facciamoci almeno attribuire questo immenso paragone. Perché, non siamo noi donne in grado di entrare in crisi, di sorridere, di lacrimare e di ridere, di correre, stare ferme, agitarci e placarci nello stesso tempo? Non siamo noi in grado di fare l'amore con il sole? Al tramonto, e all'alba.
Guardavo Jessy spogliarsi, gli occhi mi caddero sul piercing che aveva all'ombelico, che le penetrava la carne, vorrei essere voluta dentro lei esattamente come quel diamantino. Mi alzai e mi avvicinai a lei, si stava facendo accarezzare i piedi con le onde, le andai dietro e le portai le braccia attorno ai fianchi. Appoggiai il mento su una delle sue spalle, e la mia guancia le toccò il collo, le annusai i capelli, sapevano di lavanda, fresca e appena raccolta, si aggirarono attorno al naso e mi entrarono negli occhi. Le toccai la cicatrice dell'appendicite con l'indice, che era soltanto una delle cicatrici che si portava dentro ma che non faceva vedere a nessuno, le mie gambe toccarono le sue e una delle mi cosce si appoggiò delicatamente sul suo sedere. Era poco più bassa, mise i piedi tra i miei e si strinse a me. "sei paragonabile al mare" avrei voluto dirle, ma non le dissi nulla e la buttai in acqua.
Facemmo il bagno tutte insieme e chiacchierammo come non facevamo da tempo. Tra le risate, le battute e le confessioni si fece sera, uscimmo tutte dall'acqua e ci asciugammo per tornare a casa. Quando le altre si avviarono verso il lungo mare dissi che dovevo rimanere con Stella per parlare di una questione e che saremmo tornate con il primo treno, così tutte se ne andarono lasciandoci sole con il tramonto e l'aria che iniziava a farsi più fresca.
"Lasciami andare Luna" mi sussurrò Stella. Io la guardavo con le braccia appoggiate ai fianchi consapevole che lei, una perfetta sconosciuta, aveva scoperto la parte più fragile di me.
"Vieni con me" le dissi mentre mi avviavo a riva. Dopo alcuni passi mi girai per vedere se mi stesse seguendo ma non lo stava facendo.
"Stella muoviti" insistetti.
"Non voglio venire"
"Non ti ho chiesto se ti va" ma continuava a non muoversi. Così mi avvicinai a lei, le andai dietro e la spinsi dalla schiena.
"Luna lasciami" stava per mettersi a piangere mentre con piedi cercava di fare resistenza. La portai in acqua, la tirai per le braccia fino a dove non si toccava, non sapeva nuotare. Le spinsi la testa sott'acqua, la tenni giù qualche secondo e poi la feci venire su.
"Luna" non riuscì a finire la frase che la spinsi ancora, stavolta per più tempo, agitava le braccia e la gambe ma non la mollai. Quando la tirai su aveva bevuto non so quanta acqua, era bianca cadavere e non aveva la forza di restare a galla. La misi nella posizione del morto, le tolsi la parte sopra del costume e poi le mutandine.
"Luna, cosa fai?" mi disse a fatica. La lasciai lì, me ne andai sulla sabbia e mia avviai in stazione, con la speranza che stesse soffrendo come non mai.
La sera stessa ero sola a casa, in famiglia avevano tutti qualcosa da fare, come sempre ormai, e mi sentivo uno schifo. Andai in cucina, aprii la bottiglia di vino e inizia a scolarla, piano piano, sorso per sorso, ero seduta appoggiata alla credenza e mi facevo tristezza e pena da sola. Come ero arrivata a quel punto? Cosa avevo fatto per meritarmi di stare così? Pensavo alla bambina che ero e al male che le stavo facendo, lei di certo non se lo meritava ma forse la me diciottenne sì. Perché in fondo cos'ero se non una fallita capace di rovinarsi con le sue stesse mani. Mi alzai lentamente dopo una mezz'ora, mi girava la testa e non riuscivo a reggermi in piedi, attraversai il corridoio per andare a dormire ma con la coda dell'occhio, nel ripostiglio, vidi la valigetta degli attrezzi di mio padre aperta. Fuoriusciva un taglierino, ancora aperto, un po' arrugginito e sporco, mi avvicinai, lo presi in mano e feci scivolare il pollice sulla lama. Era affilata e liscia, ero sicura che avrebbe fatto un male cane se utilizzata nel modo corretto. Andai in bagno e mi chiusi dentro, accesi la luce e inizia a passarmi delicatamente il taglierino sul polso, come fosse una carezza, come mi stessi coccolando, ne avevo bisogno, di carezze e coccole intendo, mi mancavano, erano anni che non ne ricevevo e quel coso mi faceva quasi solletico, mi rilassava la lama fresca, era come ricevere dei grattini dalla persona amata. Io lo amavo effettivamente quello strumento, ero innamorata di tutto ciò che potesse farmi del male, di tutto ciò che avrebbe potuto segnarmi eternamente, che avrebbe potuto lasciare delle tracce indelebili, che se ne stanno lì e ogni tanto ti guardano e ti ricordano del male che meriti. Poi iniziai a spingere sul braccio, a spingere e a spingere ancora, la pelle si dilatò e apparve il primo taglio, me ne feci un secondo vicino a quello precedente, un terzo e poi al quarto premetti con più forza. Non lo so, mi scappò la mano, oppure lo feci di proposito, non lo so dire. Il sangue iniziò a colare, si infilò nelle unghie e arrivò sul pavimento, correva come un atleta in gara, scivolava come un bambino sullo scivolo, si muoveva come un millepiedi inseguito da un animale molto più grande di lui. Scorreva, scorreva e io lo guardavo, non sentivo dolore, né bruciore, ma quella pozza che si stava formando a terra mi fece pensare che la mia vita sarebbe finita di lì a poco. Presi un asciugamano, lo avvolsi intorno al polso e premetti più forte che potevo, vedevo la macchia rossa fuoriuscire dal tessuto dello straccio, sentivo la pelle viva sotto il taglio e d'un tratto mi fece impressione, corsi al cesso e vomitai, mentre mi sporcavo piedi e vestiti di un rosso scuro. Poi presi il telefono, digitai il numero di jessy e la chiamai. Mi rispose dopo appena tre squilli.
"Luna?"
"Jessy" dissi io singhiozzando, avevo iniziato a piangere e non me ne ero neanche accorta.
"Luna cosa c'è?"
"Jessy devi venire, devi correre"
"Dove sei?"
"A casa, jessy devi correre"
"Ok ok, arrivo subito" e riattaccò.
Il sangue non si fermava, quando lo straccio era zuppo lo cambiai, mi sedetti sulla pozza a terra. Puzzavo di alcol, e di vomito, la testa mi esplodeva e sentivo il braccio sempre più debole. Chiusi gli occhi e mi addormentai per qualche minuto, mi svegliò il campanello.
"E'aperto jessy" provai ad urlare e per fortuna mi sentì.
"Dove sei?" chiese lei.
"In bagno" risposi. Nel giro di qualche secondo mi ricordai che la porta era chiusa a chiave.
"Luna non riesco ad entrare, aprimi"
"Non riesco, non posso Jessy" non sentivo più il braccio, la vista mi si offuscò e caddi sdraiata a terra.
"Luna se non mi apri butto giù la porta" urlava nel frattempo Jessy. Io non risposi, non riuscivo, provavo a parlare e mi uscivano versi strani. A un certo punto sentii un forte rumore, che mi fece riprendere e rialzare da terra. Mi trovai Jessy davanti agli occhi, chinata su di me, con la mani inzuppate di sangue. Mi prese in braccio, mi portò davanti alla porta di ingresso, mi lasciò lì qualche minuto e poi tornò con le chiavi della macchina.
Mi svegliai la mattina dopo in una sala d'ospedale, avevo il polso fasciato ed ero legata ad un letto. Sentivo la testa pesante, come se avessi avuto dentro un mattone, lo stomaco mi faceva male e non sentivo ancora il braccio. Ero intontita, confusa e in dormiveglia, mi ci volle un po' per ricordare cosa fosse successo la sera prima, provai ad alzarmi ma non ce la feci, così mi sporsi leggermente dal letto e lessi la scritta che c'era sulla porta d'ingresso del reparto, "psichiatria". Pensai fosse finita, pensai che non ci sarebbe stato più niente da fare, che mi avrebbero tenuto lì contro la mia volontà, che mi avrebbero fatto vivere come un animale per mesi per poi rilasciarmi nella società come un cane abbandonato. A un tratto entrò un dottore, mi sorrise e mi chiese come stessi.
"Cosa mi avete fatto?"
"Nulla, ieri sera hai bevuto molto alcol, è normale tu ti senta male. Ti dobbiamo fare alcune domande"
"Io non voglio stare qui" dissi io con l'aria preoccupata.
"Questo lo decideremo insieme. Mi devi dire quante volte ti è capitato di bere così tanto".
"Poche" e invece no. Bevevo, tutte le volte che avevo voglia di evadere e di sparire, ed erano tante, ma dovevo scampare dall'uscire da quel posto con una diagnosi di alcolismo.
"Ieri ti sei fatta qualcosa di grave al braccio"
"Non ho fatto apposta"
"Hai altri tagli"
"Beh? È illegale?"
"E' meglio che tu stia qua dentro per un po' di tempo" mi disse poi.
"Non ci penso nemmeno. Fatemi firmare quello che devo e lasciatemi andare"
"Lo dico per il tuo bene. Con un buon percorso qui puoi guarire e tornare a stare bene"
"Io sto bene" replicai.
"Non mi sembra"
"Lei come fa a saperlo?"
"Senti, se vuoi uscire vai, ma ogni martedì pomeriggio nel reparto si tiene un cerchio di condivisione con persone che hanno il tuo stesso problema, ti consiglio di partecipare". Dopo un paio di ore firmai un documento di dimissione e uscii. Fuori dal reparto mi stava aspettando Jessy, seduta su uno dei seggiolini dell'ospedale con la testa tra le mani.
"Sei stata qua tutta notte?" le chiesi io.
"Sì. Mi hai fatto spaventare Luna"
"Scusami. Ora sto bene". Mi dispiaceva, mi dispiaceva perché aveva visto quella scena, perché mi aveva trovata in quelle condizioni, perché non aveva dormito per me e perché l'avevo fatta preoccupare.
"Luna" iniziò a piangere "ti devi fare curare" disse mentre si asciugava le lacrime. Non risposi, sapevo che aveva ragione, ma era una cosa impensabile per me, non avevo mai concepito l'idea che prima o poi sarei uscita da quel buco nero che mi stava risucchiando lentamente, mai avevo pensato che qualcuno avrebbe sprecato del tempo per dedicarsi a me e ad aiutarmi.
"Luna, resta qui, resta in ospedale" continuava lacrimando.
"Non posso" dissi io.
"Luna se non resti qui io non ti parlo, non ti guardo, non ti tocco, non ti penso più. Lo giuro, Luna lo giuro cazzo. Svegliati, apri gli occhi, pensa a te stessa, alle persone che ti vogliono bene, pensa alla tua salute, a quanto dev'essere bello stare bene"
"Parli proprio tu"
"Sì parlo io, perché mi sono rotta il cazzo di vederti così, di fasciarti le braccia, di disinfettarti, di ritrovarti con i capelli sporchi di vomito, con l'alito che puzza di alcol, mi sono rotta di dover correre ovunque tu sia, di raggiungerti in lacrime, di ripulirti della merda di cui ti sporchi. Perciò lo giuro Luna, giuro che se non rimani qui tu per me non sei più nulla"
"Jessy" cominciai a piangere anche io "non fare così"
"Faccio così invece, perché non capisci" alzò la voce e d'improvviso tutti nel reparto si girarono verso di noi.
"Non urlare" la pregai. Girò su sé stessa e mentre se ne stava per andare aggiunse "Ah e ho detto ai tuoi che eri a dormire da me".
L'avevo vista seria questa volta, spaventata più di me e realmente stanca. Pensai a tutte le volte che mi aveva aiutato senza mai chiedere nulla in cambio, a tutte le volte che mi aveva coperta, difesa e protetta. Io non ho mai fatto così tanto per lei, anche se avrei voluto restituirle tutto il bene che mi ha regalato ogni giorno da quando ci conosciamo. È stata forte per me, ha avuto il coraggio di andare avanti per me e non potrò mai ringraziarla abbastanza per avermi regalato la voglia di vivere. Rappresentava tutto, tutto quello che potessi desiderare e chiedere dalla vita, era stata un'ancora di salvezza, una colonna portante, un amore proibito, una parte, la parte più importante di me e la ragazza più bella che potessi mai incontrare. Non ce l'avrei fatta senza di lei, senza il suo sorriso, senza i suoi occhi da bambina, senza i suoi tocchi delicati con quelle mani che mai avrei dimenticato, senza il suo profumo, senza i suoi capelli sul mio viso o senza i suoi nei che se collegati formavano una figura perfetta. Senza di lei sarei stata nessuno.
Il giorno dopo la sera andammo tutte a un concerto e finito quello Jessy ci accompagnò tutte a casa. Salimmo in macchina per il ritorno, io ero quella che abitava più lontano e dunque fui l'ultima che Jessy dovette accompagnare. Rimanemmo in macchina io e lei, non preferì parola per tutto il tragitto e arrivata a casa mia si sporse per aprire la portiera e farmi scendere il prima possibile.
"Ti stanno bene le trecce" le dissi con sincerità. Non mi rispose, continuava a guardare avanti con le mani sul volante.
"Anche il top non ti sta male"
"Luna scendi" disse finalmente.
"Non scendo finché non mi parli"
"Ti ho già detto le cose come stanno"
"Se non ci sei tu nella mia vita io non esisto più". Stette zitta, mi guardò fulminandomi con lo sguardo.
"Jessy ti prego" continuai io.
"Finiscila luna"
"Sei tutto quello che ho"
"Non mi hai mai avuta" replicò lei quasi ridendo. La guardai, le fissai le lentiggini, il naso alla francese, le sopracciglia disordinate, le labbra carnose. Al collo aveva una catenina, che le arrivava fino al top, da dove si poteva vedere un pezzo di reggiseno che fuoriusciva. Allungai la mano sul suo ginocchio abbronzato, lei la guardò, poi spostò gli occhi su di me che continuavo ad osservarla. Feci scivolare la mano sulla coscia e poi ancora più su e ancora più su. Jessy non diceva niente, aprì la bocca per proferire qualcosa ma non uscì nulla. I nostri sguardi erano incrociati, come due corpi che si sposano su un materasso, mentre la guardavo vedevo me, era come uno specchio che mi ricordava chi fossi, mi ritraeva tutti le mie imperfezioni, ma anche la bellezza che io non riuscivo a vedere. Mi accarezzò le dita che stavano toccando la parte più intima di lei, in modo delicato e dolce, la sua mano sulla mia era calda e morbida, avrei voluto mi toccasse ogni volta che avevo voglia di farmi del male.
"Scendi luna" d'un tratto si mosse, si allontanò da me e smise si guardarmi. Io scesi subito e la guardai andare via, con l'amarezza che un momento simile non era durato per l'eternità.
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SFUMATURE DI NOI
General FictionLe vite di cinque ragazze adolescenti si incrociano e tra dolori e amori cercheranno di sopravvivere all'inquietudine del vivere.