1. Finché le porte automatiche si richiusero

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Vidi Emma e mia madre piangere prima che le porte automatiche mi si chiudessero alle spalle tra tutti i suoni confusi dell'aeroporto. Capii allora quanto era vero che sarei partito, che il tempo sarebbe passato senza rivedere loro o mio padre. Sentivo che c'era il mondo ad aspettarmi e varcare quella soglia era soltanto l'inizio di un tragitto per il quale l'entusiasmo veniva meno. Il fiato mancava.

Quel giorno era un venerdì, uno di quelli in cui non succedono tante cose. Persino l'autunno non ci provava a esser così tanto freddo o umido a metà ottobre e la gente aveva lasciato lontano i ricordi delle vacanze; io e Emma facemmo l'amore la sera prima osservando dalla macchina il crepuscolo schiantarsi dietro la chiesa diroccata. Io la sentivo stretta addosso. Emma pensava che non era giusto ciò che sarebbe accaduto l'indomani. Mi disse che avrei potuto tirarmi indietro anche all'ultimo. Che sarei potuto restare con lei e che non sarebbe stata la fine del mondo continuare. Disse che avrei trovato lavoro prima o poi, che era normale aspettare dopo la laurea un paio di mesi specie con il casino che è la disoccupazione giovanile in Italia. Essere inoccupati per un anno intero se non anni interi sembrava normale e così confermava quel piccolo mondo. Io, invece, sembravo esagerato nel mio decidere di andare dall'altra parte del mondo. Potevo provare ancora per lei a restare lì, arrangiarmi. Solo che mi sentivo troppo al pari gli altri dell'esercito industriale di riserva dei laureati e onestamente non avrei mai voluto chiedere ai miei di mantenermi. Non è il mio stile ed è qualcosa che odio. Preferivo il mio contratto da cinquecento euro (sicuramente non migliaia) dove potevo esser libero e indipendente, piuttosto che bisognoso e nessuno. Dentro pensandolo mi sentivo rabbioso, anzi in testa mi sentivo Ulisse, con neanche un po' di barba e escluso da qualunque guerra o missione. Senza niente da fare. Io, volevo vedere il mondo, volevo viaggiare e capire come fosse la vita. Il mio problema però era semplice: io non ero Ulisse. Sia chiaro, non lo sono neanche oggi. Non credevo di aver tanto da dire, e anche se l'avessi avuto sarebbe stato ignorato; dal canto suo Emma, a ripensarci adesso, si apprestava parecchio a diventare come Penelope, aspettando per giorni e giorni. Vedendo i festeggiamenti alternarsi con le stagioni e sentendosi in disparte con la vita che va avanti intorno, mentre lei sarebbe rimasta ferma. E sì, per nessuna delle due sarebbe stato giusto aspettare, ma la gente dice che l'amore forse è una prova. Così come crescere e diventare adulti ne è un'altra.

Gli uomini sono una tribù strana, sempre alla ricerca di conferme: dagli Achei agli Zulu, dagli Italiani agli Ugandesi. Abbiamo i nostri esami e cerimonie, abbiamo i nostri momenti di passaggio ora vissuti nella savana ora nella giungla di cemento, ma li abbiamo. Tutti con i nostri momenti duri e di paura e poi di liberazione, sempre a guardare al momento successivo e grazie a Dio siamo così e non cambiamo. Forse saremmo morti senza questo.


Emma mi strinse poi poco prima delle tre del mattino, io cominciai a tornare a casa allacciandomi la cintura di sicurezza con tutta calma in macchina. Mentre tornavo a casa quella notte cercai di memorizzare qualunque cosa vedessi o sentissi. Me lo ero proposto, ne avevo bisogno per sentirmi nostalgico. Sentivo l'eccitazione pompare al tempo della musica indie gloomy, seria ed electropop che mi ero preparato. Non sono sicuro che la luna fosse nel cielo, ma tutto sembrava lo stesso e sarebbe andato avanti così. Quasi pensai che il giorno successivo non sarebbe arrivato. Lo rinforzavano anche I gatti in giardino questo pensiero, mentre continuavano a fare le stesse cose e tendere agguati all'aria dopo che parcheggiai. Mio fratello era ancora sveglio in casa. Disse di sbrigarmi ad andare a dormire che non mi avrebbe dato un passaggio lui fino a Delhi. "Seh! Come no! Ti faccio spingere fino a là" gli risposi. Messo a letto, credevo che dormire sarebbe stato complicato ma il giorno arrivò prima di quanto pensassi. Mi svegliò il profumo del caffè con un chilo di zucchero fatto da mio padre. La luce bianca filtrava dalle nuvole sterile. Non era il tradimento del mattino (per dirla alla Primo Levi), ma avere più tempo mi dava almeno la possibilità di ricontrollare per la terza volta che tutto fosse in ordine prima di metterci in viaggio. Si trovava tutto su un tavolo in un angolo di tavernetta: una valigia con qualche camicia, una dozzina di magliette, due o tre jeans, l'abito e varie paia di scarpe. Mia madre riempì ogni piccolo spazio vuoto di medicine (che non ti porti le medicine se vai in India? Metti che non ce l'hanno l'Oki?). A star fuori c'era il passaporto nuovo di qualche anno con il visto approvato dall'ambasciata di via XX settembre. A completare il quadro un'altra valigia e uno zaino verde, lo stesso che ricevetti dopo aver preso parte a un progetto europeo in Spagna giusto l'anno prima, con quello c'erano altri gadget utili che potevano servire come un tablet che ora ho fracassato (ma conservo). Più che altro quella roba era per portare con me lo stesso spirito. Il colore però era orribile.

Un anno è 5000 chilometriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora