CAPITOLO 20: The law of the strongest

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Clarke lascia il bagno in men che non si dica, liquidandomi velocemente, senza nemmeno proferire una parola. D'altronde non servirebbe, tutto quello che aveva da dirmi l'hai lasciato trasparire agli occhi. Quegli stessi occhi che pochi minuti prima mi stavano consumando e pochi minuti dopo invece erano pieni di rabbia, paura forse. I vestiti che indosso, con una lentezza disarmante, non servono a coprire il disagio, ma nemmeno a coprire le tracce di quello che si è appena dilapidato. Le labbra arrossate sono testimoni di quella passione che ci ha avvolto, spazzata via dalla freddezza con cui Clarke mi ha allontanata, di nuovo, per raggiungere i suoi genitori dall'altro lato della casa.
Il panico si impossessa di me prima che io stessa possa negarlo; mi guardo intorno con la speranza vana che possa comparire un'altra porta da cui fuggire, scappare dalle responsabilità come sono solita fare, ma ovviamente non accade.
In che situazione mi sono cacciata?
Di sicuro non posso restare qui in eterno, nonostante lo voglia terribilmente, ma prima o poi Clarke verrà a reclamarmi. Forse. A meno che non voglia lei stessa nascondermi. Non la biasimerei, insomma.
Queste sarebbero le presentazioni ufficiali? A che titolo?
Sono un'amica, un po' più di un'amica, o meglio, un po' meno di un'amica e un po' più di un'amica con benefici?
Come può definire quello che siamo?
I pensieri si ingarbugliano nella mente.
Forse dovrei rilassarmi e fidarmi di Clarke, che intavolerà le giuste conversazioni e mi toglierà dall'impaccio. Sarà sicuramente così.
Passo freneticamente la mano nei capelli come per sciogliere non solo i nodi ma anche la tensione che alberga indisturbata dentro di me, ma tutto sembra -come al solito- un fottuto casino. Provo a raccattare quello che ho lasciato in giro e appendo ad una gruccia l'accappatoio che mi avvolgeva. Prima che Clarke me la sfilasse via, s'intende.
Il bagno sembra aver ripreso, più o meno, il suo aspetto museale: immacolato e perfettamente in ordine. Prima di uscire tiro un profondo respiro, poggio l'orecchio sulla porta in legno massiccio, laccata di bianco, per captare anche solo una parola, ma dall'altro lato c'è solo un'inquietante silenzio.
È il momento di uscire fuori dal cilindro e, proprio come un coniglio impaurito, compio passi in punta di piedi, guardandomi a destra e a sinistra, per non fare alcun tipo di rumore. Non so dove andare e il religioso silenzio non aiuta, quindi percorro tremante il percorso a ritroso, che mi porta diritta in soggiorno.
Ed eccoli qui, i Griffin, che mi danno le spalle seduti al grande tavolo da pranzo. Nessuno si gira, non mi hanno sentita arrivare, quindi ne approfitto per scrutarli il più possibile.
La donna ha i capelli castani, come la buccia delle noci di cocco, raccolti meticolosamente in uno chignon da prima ballerina, mentre l'uomo, al suo fianco, ha i capelli biondi, con qualche filo d'argento al loro interno, che cadono morbidi sulle spalle perfettamente dritte e simmetriche.
«Alexandra, finalmente, accomodati».
È Clarke a risvegliarmi dalla trance in cui ero caduta, facendomi scuotere freneticamente la testa come un cane bagnato.
Non indossa più la tuta slavata di prima, bensì un tailleur dello stesso colore delle lavande, che sembra le sia stato cucito addosso. Porta addirittura un paio di sandali con il tacco, rigorosamente troppo alto e ha del mascara blu ad incorniciarle gli occhi. Non comprendo come abbia trovato il tempo di cambiarsi.
La vista è decisamente mozzafiato, ma mi fa anche pentire amaramente di aver lascito il bagno con i capelli arruffati e un triste completo grigio da jogging.
Adesso su di me sono puntati tre paia d'occhi, che non condividono il colore, ma il magnetismo. Se stessi sognando sarebbe un incubo, in cui sono ipnotizzata, impossibilitata a muovermi perché una forza superiore me lo impedisce. 
Purtroppo o per fortuna, però, mi trovo proprio davanti ai genitori di Clarke che intanto imbastisce una finta tranquillità, un'apparente calma, nonostante senta, anche a distanza, la sua pelle bollire, la sua voce incrinata pronta ad esplodere in un impeto.
«Madre, Padre, lei è Alexandra Woods. Eravamo colleghe al college, studiava Legge, proprio come me».
Clarke sputa fuori quella frase con una naturalezza che mi fa tremare le gambe.
Ma cosa le salta in mente? Perché mentire?
Legge? Clarke ha frequentato il college?
Non so cosa dire e dal silenzio che ne diviene immagino che nemmeno i signori Griffin sappiano come riempire i vuoti tra una bugia e l'altra. Guardo la bionda in cerca di una spiegazione, ma il suo sguardo glaciale mi intima di non fare domande.
«Alex, loro sono il signore e la signora Griffin, come puoi aver immaginato».
«Colonnello, Clarke».
«Certo Padre, mi scuso. Colonnello Jake Griffin e sua moglie, Abigail Griffin».
L'uomo tutto d'un pezzo che fino ad allora non aveva fatto altro che occupare semplicemente uno spazio vuoto in quella stanza, finalmente parla, e lo fa per rimproverare Clarke come una bambina, con il tono freddo e sprezzante di chi non ammette errori.
«È un piacere, Colonnello. Signora».
L'unica frase che pronuncio esce come un messaggio preregistrato per la segreteria: meccanico e robotico.
I volti sembrano non mutare, non lasciano trasparire alcuna emozione, se non una certa rigidità, che mi fa mettere sull'attenti proprio come uno di quei soldati di battaglione del Colonnello Griffin, la cui deformazione professionale deve averlo inghiottito.
«Clarke, hai preparato i documenti per il tuo trasferimento? Siamo tornati prima per questo, lo sai vero?». Adesso è la madre a prendere parola, con il tono di voce limpido, chiaro, ma penetrante.
«Abbiamo già parlato di questa cosa, Madre. Non ci sarà alcun trasferimento», risponde Clarke, trattenendo le parole tra i denti.
«Ricomponiti, Clarke. Parla con rispetto a tua madre», interviene il signor Griffin.
«Padre, non è il momento di parlarne».
«E quando sarà il momento, signorina? Sono mesi che rimandi, adesso non ammetto obiezioni. Partirai agli arbori dell'estate, che ti piaccia o meno». Il colonnello è adesso in piedi, imponente, di fronte alla figlia. Solo adesso noto la verga da passeggio, con il manico a T, ondeggiare come uno scettro davanti agli occhi infiammati di Clarke.
La situazione sta prendendo una brutta piega, in effetti vorrei defilarmi, ma il timore di fare anche solo un respiro mi fa immobilizzare.
«Adesso basta! Non parleremo di questo, non davanti a lei, Padre».
Di cosa stanno parlando, esattamente?
La bolla che mi proteggeva esplode, facendomi tornare con i piedi per terra.
«E chi sarebbe lei, mh? Un altro vizio? Un altro sintomo della tua devianza?», urla d'un tratto la madre, senza però scomodarsi, senza nemmeno avere un capello fuori posto. Sono pietrificata dalla sua freddezza. «Hai bisogno di curare questo male».
«Smettila, cazzo», ringhia a bassa voce ma non tanto da non farsi sentire. Il signor Griffin stringe i denti, infervorato, alza il bastone e colpisce le ginocchia di Clarke, costringendola a cadere in avanti, in un tonfo sordo.
Il mio sussulto fa più rumore di quanto voglia veramente. Faccio qualche passo, per raggiungerle la bionda ancora al suolo, ma una mano mi blocca.
«Non sono affari tuoi, ragazzina». È di nuovo Abigail, ancora seduta allo stesso posto, con ancora la stessa maschera di durezza.
Nonostante non la stia guardando, sento lo sguardo mortificato di Clarke su di me.
Quello che le ha riservato la madre sono parole piene d'astio, di ignoranza. Quasi vorrei prenderla a pugni.
Riconosco il disprezzo, è lo stesso che per anni mi ha perseguitata, nascosto e ramificato in un uomo che sarebbe dovuto essere mio padre.
I brividi che i vecchi ricordi mi procurano quasi mi fanno male, come lividi sulla pelle.
Restano anche le notti chiusa in camera a piangere, restano le urla, gli schiaffi, le parole affilate come coltelli. Restano le cicatrici, resta il dolore e la delusione perché non te lo aspetti. Non te lo aspetti che quando torni a casa, posi le chiavi all'ingresso, non sorridi perché sai di non essere più al sicuro. Resta la rabbia per chi ti ha strappato via l'infanzia, la giovinezza.
E alla fine non resta niente.
«Mi lasci passare», ringhio ad Abigail, che non smette un attimo di puntarmi addosso gli occhi scuri e freddi come il ghiaccio. «Clarke, alzati, andiamo via», urlo alle sue spalle per farmi sentire dalla bionda, che è ancora carponi, con lo sguardo chino.
«È tutto okay, Alex. Ai miei genitori piace fingere di poter comandare la vita altrui, lasciamo che si divertano ancora un po'», risponde sorniona. Non perde l'occasione di rispondere a tono: si sta prendendo gioco di loro a sua volta.
«Oh Clarke, adesso vuoi far credere alla tua amichetta che i cattivi della fiaba siamo noi?». Jack, d'altro canto, sembra sereno, mentre pronuncia quelle frasi così infide ad occhi chiusi, come se stesse dormendo. Come se non ci fosse sua figlia lì per terra. «Hai tradito la nostra fiducia, di nuovo», continua, «non ci sarà un'altra occasione per te. Andrai al centro di salute mentale a Washington. Ne ho abbastanza di questa storia».
«Ci andrò, ma adesso lasciami andare, Padre», si arrende Clarke. Definitivamente depone le armi e lascia che, per questa volta, vincano loro; anche se so che sta mentendo, perché Clarke odia perdere. Ma Jack si lascia convincere dalle sue parole, e con un rapido gesto della mano l'invita ad alzarsi, mentre si allontana zoppicando da lei come fosse spazzatura. Anche la madre molla la presa e lascia che mi avvicini a Clark, non prima di aver detto: «Adesso lasciateci, il colonnello ha bisogno di riposare, non di altre rogne».
Clarke annuisce, mentre si tira su, ed io le porgo la mano per aiutarla, ma lei la scansa, perché è troppo orgogliosa, ed io sorrido, perché capisco che non l'ho persa.
Quando siamo sole Clarke finalmente mi guarda, ma adesso sono io ad abbassare gli occhi. Non sono pronta a leggervi dentro il dolore, la sofferenza, la vergogna. Ho solo bisogno di stringerla, proteggerla; tenerla lontana dai mostri che le attanagliano le caviglie e non la lasciano libera di camminare. Avvicina la sua mano alla mia, le dita si sfiorano ma non si toccano del tutto, eppure una scossa pervade il mio corpo. Questo è il suo modo di tenermi vicina, è il suo modo di farmi capire che la mia presenza non è più scontata, che lei ha bisogno di me come io di lei.
«Adesso dobbiamo andare. Ti spiegherò quello che vuoi sapere, ma non adesso, non qui», sussurra. Io annuisco e basta. Effettivamente sono tante le domande che si rincorrono nella mia testa ma nessuna di esse prende forma, nessuna di esse sembra essere abbastanza logica, degna.
Mi lascio trascinare via, all'ingresso, dove mi porge un suo paio di scarpe da ginnastica che infilo distrattamente, prima di seguirla fuori dalla porta fino all'auto, lasciandoci alle spalle quello che è appena accaduto.
L'auto di Clarke ha sempre lo stesso profumo ma nell'aria alleggia una pesantezza diversa. Lo vedo nei suoi occhi spenti, fissi sulla strada; lo vedo nelle sue mani, strette sul volante, come se volesse scaricare via la rabbia che la sta divorando. Deglutisce forte, per buttare giù i pensieri, sperando di farli restare nel punto più profondo di se stessa, dove non si vedono, dove nessuno può sbirciare, dove io non posso arrivare. Clarke ci prova a tagliarmi fuori, alzando quei muri che fatico tanto ad abbattere, ma la vedo che sta crollando, che ha bisogno che le dica che andrà bene anche se non ne ho la piena certezza.
«Dove siamo dirette?», rompo il silenzio. La mia voce esce come un sibilo per la paura di aver rovinato l'equilibrio che la bionda sta cercando di crearsi. Lei non risponde, nemmeno si gira, continua a guidare con automaticità, ed io sospiro, accasciandomi sul sedile. Quando si decide a rispondermi lo fa mentre spegne il motore, e mi dice di restare in auto e che tornerà presto. Non riesco ad obiettare che già si è catapultata fuori, chiudendo le sicure. Appiccico la faccia al finestrino e la guardo dirigersi verso l'entrata di un market: siamo in una stazione di servizio. Clarke si muove leggiadra, sinuosa, a testa alta, come se niente attorno avesse più importanza di se stessa. Sono sfiancata, ma credo che questo giro sulle montagne russe duri più del previsto, quindi per resistere conviene tenermi lo stomaco e stringere dolorosamente gli occhi e i denti.
Quanto male ci faremo? Quanto sarà dura perdersi e ritrovarsi continuamente? Per quanto tempo riusciremo a sopportare il peso del nostro passato prima che quello dell'una travolga quello dell'altra, inondandoci come uno tsunami da cui non usciremo vive? Eppure niente riesce a tenermi lontana da questo destino che sembra essere scritto per me, per noi.
Un rumore metallico sblocca le portiere, Clarke entra in auto con la solita scioltezza che la contraddistingue, un po' impacciata mentre cerca di incastrarsi tra il sedile e le tre buste che ha strette fra le mani. Alzo un sopracciglio, stranita, ma non pongo domande perché è lei stessa a rispondere: «Ho preso qualcosa da mangiare. Serviti pure». Mi passa una busta e sbirciandone il contenuto mi rendo conto che deve assolutamente rivedere il suo concetto di "qualcosa", perché letteralmente c'è cibo ovunque. «Ho presto anche delle caramelle gommose, ho pensato potessero piacerti», continua, quasi in imbarazzo. La scena mi fa sorridere, perché Clarke in queste vesti non l'ho mai vista.
«È perfetto, davvero», rispondo. «Quindi è piccola Taz, giusto?», incalzo per rompere il silenzio. Provo ad essere seria ma la sua espressione da finta disinvolta non aiuta.
«Potrei aver detto così, giusto», risponde placida, mentre mastica un serpente di gomma. Annuisco, nascondendo la malizia nel mio sguardo, che indirizzo verso una delle buste colme di leccornie, scegliendo dei biscotti ripieni di crema alla fragola.
«E cosa intenderesti, esattamente?», insisto bonariamente.
Sfinire Clarke è il lavoro più faticoso e soddisfacente che esista.
«Oh, tipo che sei un fottutissimo diavolo della Tasmania, per esempio?», ride tra una masticata e l'altra.
«Come osi paragonarmi a quell'orrendo animale?».
«Oso eccome, Taz. Quando mi sei tra i piedi scompigli tutto quello che ho attorno».
«Però ti piace quando ti sono tra i piedi, Clarke», dico sfacciatamente mentre le rubo dalla bocca l'ennesima caramella che sta mangiando.
«Hai appena fatto una battuta a doppio senso, Alexandra?». Vorrei che quegli occhi non parlassero così tanto, vorrei che non vi trasudasse libidine mentre pronuncia il mio nome, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se fosse la sua cosa preferita.
«Può darsi, Clarke».
«Sai che non puoi farlo».
Il suo tono è cambiato. Non è più un gioco.
Devo distogliere lo sguardo perché il suo è insostenibile: sappiamo entrambe dove stiamo andando a parare.
«Oh, e perché?», chiedo, quasi in imbarazzo.
«Perché non finirebbe bene».
«Beh, verifichiamo».
E allora Clarke lo fa: mi tira a sé dal colletto della maglia sbiadita e io l'aiuto spingendomi senza vergogna verso di lei. Non importa delle buste, del cibo, delle caramelle rovesciate sui tappetini; adesso vale solo l'urgenza di un bacio. Questo, però, è diverso da quello dell'ultima volta: è tutto un miscuglio di fragola, lingue e voglia di capirsi. Le sue mani sono già ovunque, che mi cercano, che esplorano quei confini che Clarke vuole a tutti i costi superare. Ma non qui, non adesso.
Pelle contro pelle, in una lotta perpetua, dalla quale esco vinta, perché nonostante il dolore che ci procureremo è impossibile per me non volerlo, non desiderarlo. Il mio corpo arde di piacere, esplode di quest'ultimo; la mente, invece, sembra essere finalmente sgombra: non esistono più i litigi, le urla, il mondo attorno.
Siamo solo Clarke e Lexa, in un ritaglio di esistenza.

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