L'estate prima di morire, mio padre mi confessò che per lui Milano era una città del cazzo, ma, che, alla fine, gli aveva portato fortuna. Un po' di fortuna nella vita fa sempre la differenza. Mia madre, invece, non era contenta della mia decisione di trasferirmi in città.
Lei lavorava come contabile nell'azienda del padre di Beppe e si sentiva a disagio per il fatto che suo figlio scroccasse la casa del suo capo.
I primi tempi, infatti, mi ospitava Beppe, un mio vecchio amico del liceo che, dopo la laurea in agraria, si era trasferito a Milano per frequentare un master alla Bocconi. Suo padre voleva lasciargli l'azienda di famiglia e gli aveva comperato un monolocale alla fine di viale Ripamonti. Sul citofono era rimasto il cognome dei vecchi proprietari cinesi e Beppe si era guardato bene dal sostituire la targhetta. Non era pigrizia la sua, ma un compiaciuto estro per le puttanate che aveva sempre coltivato con meticolosità.
Il nome sul citofono era Suon e lui con un pennarello aveva aggiunto il suffisso -are, di modo che, ad ogni chiamata dei corrieri che non rintracciavano il suo cognome, lui rispondeva: «Suona a Suon-are, c'è scritto sul citofono».
A Milano ci ero finito proprio per un invito di Beppe.
«Se devi vivere alla giornata, facendo lavoretti del cazzo e pure sottopagati, allora vienitene a Milano che almeno qui ti pagano meglio. Puoi stare da me, se vuoi».
Mio padre morì e io decisi di approfittare dell'annoiata gentilezza di Beppe, per capire che cosa avesse Milano di così misteriosamente seducente.
Presi un intercity notte da Lecce e, quando vidi per la prima volta la stazione centrale, mi sentii come un invitato ad una festa che era già iniziata da un pezzo.
Beppe aveva comperato un materassino gonfiabile che mi sistemò in cucina e che divenne il mio primo letto a Milano per i successivi tre mesi.
Trovai subito lavoro come lavapiatti in una pizzeria in viale Montenero: seicento euro al mese in busta paga e centocinquanta black se superavamo le dodici ore di lavoro. Succedeva spesso e a fine giornata avevo la schiena a pezzi. Conobbi Dalila, brasiliana, faceva la cameriera per pagarsi gli studi e mi scroccava una Camel ogni volta che facevamo pausa prima di chiusura. Mi innamorai dei suoi denti bianchissimi e del modo in cui pronunciavaobrigado. Una domenica mattina mi chiese di accompagnarla al suo corso di Samba alla Balera dell'Ortica. Prendemmo uno scooter a noleggio che mi costò cinquantasei euro, perché lo lasciai parcheggiato per tutto il giorno fuori dai confini dell'area abilitata alla sosta. Comunque quella sera dormii insieme a lei, nel suo divano-letto color oliva che aveva unaconca al centro che odorava di chanteclair.
Iniziammo a frequentarci, io e Dalila. Mi raccontò dei pappagalli colorati che aveva visto da bambina durante una gita con suo padre sul Rio delle Amazzoni e mi parlò del suo amore per il presidente Lula. Poi un giorno mi disse che non potevamo vederci più, perché stava per arrivare suo marito da Rio de Janeiro. Me lo disse mentre preparava una frittata di cipolle, forse sperando che lo sfrigolio delle uova sulla padella attutisse il peso delle sue parole. C'era, nei suoi occhi, tutta la saudade dei romanzi di Amado, che qualche volta avevamo letto, nudi, sul divano color oliva. Così, quel pomeriggio io e Dalila ci dicemmo addio e al lavoro facevamo finta di non conoscerci.
La sera dopo, presi il giorno libero in pizzeria e Beppe mi portò a bere uno #Sbagliato_del_Bar_Basso.
«Così ti riprendi dalla sbandata del culo brasiliano», mi disse.
Conobbi Emma, un'amica di Beppe che faceva la producer.
«E Beppe mi diceva che ti occupi anche di grafica?»
Quanto piacciono le puttanate a Beppe, pensai.
«So usare un po' photoshop, ma in questo momento lavoro in pizzeria».
«Ah, photoshop, grandissimo! Hai qualcosa da farmi vedere?».
«Ho fatto gli inviti del matrimonio di mio fratello» ammisi cercando di essere serio e sincero al tempo stesso. Emma si mise a ridere a crepapelle.
«Adoroh! Sei troppo simpatico» aggiunse con la lingua rossa di Campari «Se vuoi, posso farti conoscere una mia collega che lavora nel tuo campo».
Non capivo cosa intendesse per campo, ma il giorno dopo avevo un colloquio di lavoro.
Chiesi a Beppe se avesse una cravatta da prestarmi. Pensai che alla Bocconi si usasse portare la cravatta e mio padre una volta mi disse che ai colloqui bisognava fare sempre una bella impressione. Beppe si mise a ridere anche lui: facevo ridere tutti, nei miei primi giorni a Milano. Andammo a prendere un kebab da Amir, sotto casa. Piccante senza cipolla.
Forse era l'ansia per il colloquio, forse i tre sbagliati della sera prima, ma il sapore di quel kebab si conficcò nel mio cervello per sempre.
Dopo un mese dal primo colloquio, lasciai la pizzeria e aprii partita iva.
Emma mi aveva fissato un appuntamento con Carla. Carla aveva parlato di me a Giulia e Giulia aveva dato il mio numero di telefono a Kevin. Kevin aveva un gruppo whatsapp che si chiamava #freelance_fantastici_e_dove_trovarli.