prologo

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Cloe Esposito si guardò intorno e deglutì a fatica, la bile bruciava in fondo allo stomaco e aveva la bocca secca. Delle ciocche di capelli scuri si erano appiccicate sulla fronte imperlate di sudore, coprendo leggermente il campo visivo della ragazza e nascondendo i suoi color nocciola. Le tremavano le gambe e faceva fatica a stare in piedi; le ginocchia scoperte e sporche di terra erano doloranti a causa della corsa. Uno dei poliziotti che l'aveva fermata le si avvicinò e con cautela le afferrò i polsi portandoli dietro la schiena e spingendola verso la macchina della polizia con la sirena ancora accesa. Era pomeriggio inoltrato e le persone in strada si fermarono per guardare la ragazza mentre veniva arrestata: alcuni scuotevano la testa, altri avevano un'espressione di disgusto sul viso. 

L'agente chiuse la portiera posteriore e fece il giro dell'auto per raggiungere il sedile del passeggero; il collega alla guida gli fece un cenno con il capo ed egli annuì: «dritta all'IPM» mormorò lanciando un'occhiata a Cloe dallo specchietto retrovisore.

Il viaggio fu piuttosto silenzioso. Cloe aveva le orecchie che ronzavano e la testa piena di pensieri: aveva appena compiuto un furto di sua spontanea volontà e si era lasciata catturare senza fare storie, nella speranza che la portassero al penitenziario minorile di Napoli, la città dov'era nata e cresciuta. Aveva uno scopo ben preciso, non si era di certo fatta catturare poiché era una sciocca. Tutto era dovuto a causa di una singola persona: Massimo Esposito, comandante di polizia presso l'Ipm di Napoli e, soprattutto, suo padre. Colui che aveva deciso di farla crescere da sola alla madre per sfuggire alle proprie responsabilità e ai fantasmi del suo passato. Ovviamente, entrambi erano consapevoli del rapporto che c'era tra i due, ma Massimo aveva giurato a se stesso che avrebbe protetto la figlia da lontano, per non incasinarla con i propri problemi. Ma di questo Cloe non era a conoscenza. Sua madre le aveva sempre descritto il padre come uno scansafatiche irresponsabile e la ragazza le aveva creduto senza pensarci due volte. Ma i tempi erano cambiati, in quanto Cloe era cresciuta e si era stufata di fingere; fingere di essere sola, di non avere un padre e soprattutto di doversi accontentare di come stavano le cose. Voleva avvicinare il padre e visto che questi sembrava riluttante a incontrarla, l'unica soluzione che sembrava poter funzionare era quella dell'Ipm dove egli lavorara. Compiere un piccolo reato, farsi arrestare e andare dritta da Massimo per cercare di...convincerlo? Cloe non aveva la minima idea se tutto ciò avesse realmente funzionato e ignorava del tutto l'enorme guaio in cui si era cacciata. La vita in carcere non era di certo semplice, per non contare l'enorme problema che aveva causato alla sua famiglia. Cosa le era passato per la testa? Cloe cominciava ad avere i sensi di colpa ma ormai era troppo tardi.

L'auto si fermò davanti l'ingresso dell'Ipm e varcò il cancello non appena fu aperto. Pochi istanti dopo, la portiera si aprì e qualcuno le afferrò delicatamente la spalla per esortarla ad uscire. Quando alzò la testa, si ritrovò a guardare negli occhi una donna dai capelli castani legati in una coda che dopo essersi presentata come Liz la condusse verso una porta e poi su per delle scale, dritta all'ufficio della direttrice. Quando arrivarono al piano superiore, Cloe si guardò intorno alla ricerca della persona che stava cercando, ma la parte amministrativa dell'istituto sembrava vuota.

Liz bussò alla porta e attese l'assenso della direttrice che non tardò ad arrivare: «avanti», le disse aprendo la porta e spingendola dentro. L'ufficio era ampio, con un tavolino e due divani disposti ai lati; vi era un'enorme finestra davanti alle quale sostava la direttrice dietro la scrivania, i capelli biondi, mossi sulle spalle e un bastone nella mano destra.

«Accomodati,» commentò indicando una sedia e prendendo posto davanti ad essa, «sono Paola, la direttrice dell'istituto.» aggiunse con un sorriso poco rassicurante sul volto. «Benvenuta.»


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