Il cinghiale gigante

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Esisteva un tempo, nella terra di Art, un clan dedito alla razzia chiamato Eoriu. A quel clan appartenevano i tre fratelli Teote, Neone e Reo.

Era quasi estate quando i tre decisero di lasciare la loro casa per avventurarsi in una pericolosa battuta di caccia. Nelle selve non lontane dal loro villaggio un gigantesco cinghiale era stato avvistato da alcuni membri del Clan. Gli uomini del clan degli Eoriu erano tutti guerrieri straordinari e i tre fratelli in particolare erano dotati di qualità prodigiose che consentivano loro di poter cacciare Vulca - questo era il nome che avevano dato al grande cinghiale - correndo sulle loro stesse gambe, visto che a quei tempi il cavallo non era ancora stato addomesticato. Avevano però anche delle lance puntute con cui colpire l'animale.
Fatti gli ultimi preparativi partirono di buon mattino con ben poche provviste, convinti dalla sicurezza dei giovani che sarebbero riusciti nell'impresa prima di notte.

Ai tempi della caccia di Vulca, Teote e Neone erano ancora uomini senza responsabilità, mentre Reo che era il più giovane dei tre aveva da poco superato i riti di passaggio all'età adulta. Scendendo dalla collina dove sorgeva il villaggio degli Eoriu intonarono canti sulle imprese dei guerrieri del loro passato, e come se il destino avesse guidato i loro passi, appena misero piede nella selva, Vulca comparve davanti a loro grugnendo, mostrando le enormi zanne e scalciando furiosamente. I tre erano stati colti di sorpresa e non sarebbero riusciti a scagliare un colpo contro la poderosa bestia prima che questa si fosse avventata contro di loro. Straordinariamente ciò non accadde e l'animale dopo averli minacciati con le zanne cambiò direzione e fuggì via nel folto della vegetazione, come se avesse voluto sfidarli a catturarlo.

Dopo un primo momento di sgomento e sollievo i tre si riscossero, e a un'esortazione di Teote si scagliarono al suo inseguimento. I guerrieri potendo contare su una velocità straordinaria dopo non più di un'ora riuscirono a ritrovare le tracce di Vulca e poco dopo lo ebbero di nuovo avvistato. Fu in questa occasione che Neone scagliò per la prima volta la lancia contro di lui, ma il tentativo fu vano e la lancia colpì il vuoto, al che l'animale svanì nuovamente. Questo stato di cose continuò per tutta la durata della caccia, quel giorno. Vulca appariva dinnanzi ai tre che invano tentavano di catturarlo o abbatterlo per poi svanire nel nulla e per fare notare nuovamente la sua presenza dopo poco tempo. Sembrava un atto deliberato della bestia e i tre al calare della sera cominciarono a pensare che si stesse prendendo gioco di loro, proprio come avrebbe potuto fare un gatto con un topo.

Non vollero darsi per vinti, contavano molto sulle loro capacità e confidavano che sarebbero riusciti a catturare il cinghiale, perché erano sicuri di essere più caparbi di lui. Così invece di rientrare per la notte si accamparono allestendo un fuoco in mezzo a una radura e dormendo su giacigli improvvisati. Reo raccolse radici e bacche che sapeva essere commestibili e quella sera si cibarono in tal modo, non trovando altro. Prima che fosse sorto il nuovo sole il grande cinghiale si fece vivo di nuovo ed essi ripresero la caccia. Il secondo giorno procedette nella stessa maniera in cui era passato il primo.

Nel corso della caccia, mentre la bestia e gli Eoriu continuavano il loro gioco all'infinito instancabili come se non fossero come tutte le creature viventi che avevano bisogno di mangiare, di dormire e di riprendere fiato, si allontanavano sempre di più dalle terre conosciute dal clan. Passato il mezzodì i tre guerrieri non dettero più respiro a Vulca, in modo che non potesse prenderli in giro come il giorno precedente e decisi a porre fine alla caccia entro sera. Così erano sempre più rari i momenti in cui l'animale era fuori dal loro campo visivo e sempre più ridotti. Sia i tre che la bestia non risentivano dell'azione del tempo, la loro velocità non diminuiva, il fiato teneva, le membra non cedevano. Erano entrambi degni avversari del loro rivale.

Venne il momento in cui lasciarono infine le verdi colline delle terre abitate dalle genti che erano loro familiari. Il sole era già basso e lanciava i suoi raggi più purpurei quando i tre guerrieri riuscirono a diminuire sensibilmente la distanza tra di loro e la bestia Vulca, che solo una manciata di minuti prima avevano creduto perduta di nuovo. Teote che era il più veloce dei tre, nel vedere il fianco bianco dell'animale ammiccare come un bagliore stagliato sul resto del vello nero nella sua folle corsa, fu assalito da un cipiglio rabbioso di esasperazione. Non aver visto Vulca più vicino che in quell'occasione dall'inizio della caccia gli permise di sfruttare un moto di determinazione attraverso cui riuscì a spingere le sue forze ancora oltre, al limite di quel che stava già facendo. I suoi balzi si fecero più ampi, come il suo respiro, tutti i suoi muscoli si tesero mentre afferrava più saldamente la lancia e tirando indietro il braccio la scagliava con tutte le sue forze.

La lancia dalla punta d'osso partì dritta facendo vibrare l'aria come un fulmine, salì rapidamente in alto disegnando un ampio arco nel cielo per poi precipitare a terra puntando precisa sul grande cinghiale. Teote aveva avuto una buona mira e col braccio fermo era riuscito a dare alla sua arma la giusta traiettoria, tanto che i tre guerrieri rimasero per gli attimi che separava la loro lancia da Vulca col fiato sospeso, ansiosi di sapere se la loro battuta di caccia avrebbe finalmente avuto una degna conclusione, prima che sorgesse la luna.

Quando Teote e i suoi fratelli erano ormai sicuri di aver avuto la meglio sulla loro preda, e la lancia stava per conficcarsi nell'ampio dorso dell'animale, il cinghiale quasi premunendo quel che stava per avvenire improvvisamente scartò sul posto riuscendo per un pelo a fuggire la morte. Non poté però evitare completamente la lancia di Teote che lo ferì alla spalla anteriore sinistra, lasciandogli un ampio sfregio sul manto bianco. Nel vedere quel che alla fine era successo, con le loro aspettative così frustrate, i tre inizialmente si abbatterono pieni di rabbia e di delusione. Ma al sentire gli improperi lanciati da Teote contro se stesso gli altri due guerrieri si ridestarono ed elogiando il fratello lo rassicurarono che così ferita, quella bestia, non sarebbe più potuta sfuggire loro ancora per molto. Nel frattempo i tre erano rimasti indietro.

Vulca con l'agitazione che la lancia doveva avergli procurato era fuggito via come un fulmine mentre i suoi cacciatori si erano visti mancare le forze dopo tutto il giorno passato a correre dietro a lui. Teote aveva allora raccolto la sua lancia, e mentre tutti e tre riprendevano fiato si erano infine guardati intorno. Non riconoscevano più la vegetazione attorno a loro, non erano più tra le montagne e le colline di casa, erano in mezzo ad una pianura sconosciuta fitta di alberi e cespugli e guardandosi indietro non scorgevano più il sentiero battuto da cui erano arrivati. Le alture in lontananza all'orizzonte erano un tutt'uno indistinto, con le fronde degli alberi a coprirne buona parte. Spuntavano le stelle della sera e la luna sorgeva, il sole non lanciava più i suoi raggi e ormai non potevano più sperare di ritornare al villaggio neppure per quel giorno. Mentre preparavano una sistemazione di fortuna per la notte decisero sul da farsi. 

Con la bestia così ferita sarebbe stato un vero peccato tornare indietro a mani vuote. Quindi anche se si erano già molto allontanati dalla loro terra avrebbero tentato un'ultima volta il giorno seguente di catturare Vulca, e allora il destino avrebbe detto loro se veramente non erano degni di quel bottino. Non conoscevano quella landa ma anche se il sentiero alle loro spalle non si scorgeva più non sarebbe stato difficile ritrovare la strada grazie al movimento delle stelle.

Un altro paio di maniche fu il regolarsi con il cibo. Nonostante sembrasse una terra fertile quella in cui erano capitati, i tre non vi trovarono niente di tutte quelle cose che erano commestibili per l'uomo, né radici né bacche selvatiche, né pesci né uccelli alla loro portata, o altra selvaggina. E neppure ruscelli o pozze d'acqua per bere. I guerrieri avevano avuto la troppo facile speranza di banchettare con la loro preda per quella sera. Per fortuna il più giovane di loro che aveva trovato quel poco con cui si erano rifocillati il primo giorno di caccia aveva fatto una piccola scorta di quelle bacche e radici e se le era portate appresso, così anche in quell'occasione non rimasero a stomaco vuoto. Ma Reo avvertì i suoi fratelli che era tutto quello che gli era rimasto e nonostante fosse avvezzo di luoghi selvatici neppure lui era riuscito a trovare altro dove adesso si trovavano.

Per quella volta non ebbero neppure i problemi legati alle incursioni delle bestie selvatiche nella cerchia del loro piccolo accampamento, come la notte precedente, e non si svegliarono fino al mattino. Era un luogo stranamente silenzioso e non si avvertivano più neppure i suoni legati agli animali o allo scorrere dell'acqua di un ruscello. Anche se non si udiva un suono Reo non riuscì a dormire adagiato sul suo giaciglio di foglie ed erba, perché sentiva su di se il peso dell'aria immobile. Era convinto che non sarebbero mai riusciti a catturare Vulca, neppure se l'animale era ferito, perché forse aveva compreso che la sua resistenza non fosse da accreditare unicamente alle sue qualità terrene. Ed era quasi certo che entrambi i suoi fratelli avessero lo stesso presentimento, ma nessuno di loro si sarebbe ritirato prima di un altro tentativo.

La canzone degli EoriuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora