08 Agosto, Amsterdam.Amsterdam è fredda, ho il cappotto anche se è estate. Il quartiere a luci rosse è nauseante.
Passo a testa bassa, mi guardo le scarpe e per poco non inciampo sui miei stessi piedi.
Tutti questi uomini aggregati attorno alle vetrine per guardare delle belle donne in intimo mi fanno venire il vomito.
Sono seduto in uno squallido locale, i muri sono ingialliti dal fumo delle pipe di quei vecchi seduti laggiù, al tavolo sette. Giocano a carte, chi perde offre un giro di birra. Anche quella fa vomitare, è troppo amara.
Bevo un sorso di cognac, lo tengo un po' in bocca, poi lo mando giù e tossisco.
Il barista, il più giovane, seppur abbia all'incirca trent'anni, continua a guardarmi mentre asciuga i bicchieri e i calici con un panno. L'atmosfera di questo pub è angosciante, meglio andarsene.Sto molto meglio qua, seduto su una panchina accanto ad un alberello ed un lampione dalla luce giallastra. Mi accendo una sigaretta, mentre aspiro sento freddo al collo, dunque mi stringo nel cappotto.
Oggi ci siamo detti addio.
Ti ho detto di dimenticarti tutto, di scordarti di me e di mettere via tutte le mie cose.
Eppure non sai che al polso ho ancora il tuo braccialetto ed il tuo elastico per i capelli rosa pastello. Li tengo nascosti sotto le maniche, perché di lasciarli in casa non me lo sento.
Hai pianto mentre ti mandavo via? Scommetto di sì. Sai, Minnie, una parte di me voleva chiederti di restare. Eppure non riesco a perdonarti. Lo so, è stato ipocrita da parte mia dirti che appigliarsi a dei ricordi non servirà a farli tornare. Da quando Akihiko se n'è andato vivo nella convinzione che un giorno possa entrare dalla porta di casa e che si sieda sul divano con una sigaretta mezza fumata tra le labbra, che mi chieda di sedermi sulle sue gambe per poi passare la sua mano grande e callosa tra i miei lunghi e biondi ricci.
Ti ho detto che ho già cancellato i bei ricordi con te. Non è vero niente, Minnie. Non è vero nemmeno che odio quando mi chiami "Lia".
Lia, lia, lia. La tua voce soffice mi soffia nelle orecchie: mi faceva bene al cuore quel soprannome accompagnato dal tuo dolce sorriso. Però ho dovuto mentire, anche se nel profondo non volevo farlo.
Non te lo perdonerò mai quel tredici di maggio.Tra l'11 e il 12 Agosto, Amsterdam.
È passato qualche giorno dal nostro addio.
Ho infranto la promessa.
Il mondo ha perso il suo colore. Proprio come sei anni fa, proprio come dieci anni fa.
Minnie, ti ricordi come come ci siamo conosciuti?
Io e Demon eravamo migliori amici, lui era un irresponsabile, ogni sera era fatto o ubriaco per strada e non ti rispondeva. Ci conoscemmo a causa sua. Eri geloso di me, un po' mi odiavi. Non te lo avrei mai portato via, lo sai anche tu. Poi qualcosa è cambiato. Il mio migliore amico sei diventato tu, Demon è invece diventato un estraneo.
Sarò sincero, preferisco te a lui.
Diventammo amici in fretta.
No, Minnie. Non mi riferisco a questo.
Quanti anni avevi? Quattordici? O forse quindici. Avevi le guance arrossate e gli occhi gonfi per il pianto. Eri un ragazzino dolce, timido. Ti ricordo magro sotto ai vestiti, lo sguardo sempre basso, gli occhi grandi. Eri sempre solo nella tua stanza, quella di fronte alla mia.
Io ero lì da un anno, avevo visto tanta gente entrare e uscire da quella porta.
Ricordo che il giorno che arrivasti, accompagnato da tuo padre, mi misi le pantofole morbide azzurre ed entrai nella tua stanza. Ti tesi la mano. "Hai degli occhi bellissimi, lo sai? Mi chiamo Helia, piacere di conoscerti". Tu mi guardasti spaesato e mi afferrasti la mano, sussurrando il tuo nome.
Eri caldo, sei sempre stato caldo, a differenza mia. Passavamo giornate intere insieme.
Ti suonavo la chitarra, mi accompagnavi a fumare in terrazzo e per ripagarti della compagnia ti compravo le merendine alla macchinetta e le mangiavamo assieme sul letto, tenendoci per mano, perché così era più semplice per entrambi. Quando uscii per un giorno comprai delle scatole di colori e fogli, tornai due ore prima del previsto: ero impaziente di condividerli con te. Il giorno del tuo compleanno ti regalai un vestitino bianco con i fiori ed un rossetto rosa pesca. La purezza del tuo viso si sposava alla perfezione con la delicatezza del vestito.
Avevi paura ad indossarlo, allora io mi misi la mia vestaglia azzurro pastello ed il rossetto viola.
"Lialia, questa notte dormi assieme a me"
Un brivido mi percorre la schiena al ricordo della tua mano calda sulla mia guancia e la tua flebile voce che usciva timidamente.
Quella notte mi raccontasti della tua infanzia, dei ragazzi che ti escludevano e ti trattavano male. Mi raccontasti di quanto volessi bene a tuo padre. Mentre parlavi ti stringevo al mio petto, passavo le mani sui tuoi capelli, sempre più sottili. Sentivo il tuo corpo farsi più stretto, e sentivo il modo in gola stringersi il doppio.
Ti addormentasti con le lacrime, io restai sveglio fino all'alba. Continuai a toccare i tuoi capelli e la tua spalla. Ti lasciai dei baci sul viso, nella speranza che sentissi, anche da addormentato, la mia presenza.
Volevo proteggerti da tutto, da qualsiasi tipo di dolore.
Lasciasti l'ospedale prima di me.
Ti preparai una torta con le fragole e la panna, mi aiutò la sorella di Akihiko.
Ti regalai il mio maglione preferito, il mio pupazzo preferito, un braccialetto abbinato al mio. Ti regalai anche dei fiori.
Tu ami i fiori perché tuo padre te ne portava uno ogni giorno, dicendoti che un giorno li avresti potuto regalare a chi ti faceva stare bene.
Ti insegnai a fare gli origami di carta a forma di fiore, ne facesti tanti da riempire l'intera cassettiera della tua stanza.
Quando lasciasti l'ospedale piansi una notte intera. Ero felice che fossi finalmente libero. Ero felice da morire. Però ero triste, tremendamente triste. Mi sentii nuovamente solo, mi sentii lasciato indietro. Mi sentii egoista e schifoso a pensarlo.
Ormai ero lì da circa due anni e mezzo. Ogni tanto mi rimandavano a casa, ma non duravo più di una settimana. Uscivo con la consapevolezza che sarei tornato a breve.
Avevo paura, Minnie. Temevo che la fuori potessi tornare ad essere solo, a farti del male e a trascurarti.
Il giorno che tornasti a casa, parlai con tuo padre. Avevate lo stesso identico sorriso.
Non credo di avertelo mai detto.
Gli feci una promessa.
"Mi prenderò cura di Minnie, non sarà mai solo. Le prometto che gli starò sempre accanto, sempre!"
Lui mi sorrise e mi diede una pacca sulla spalla, delicata, non come quelle degli altri padri, che mi facevano sbilanciare.
Mio padre non mi dava le pacche sulle spalle. Non mi accarezzava il viso o i capelli. Non mi diceva che ero stato bravo. Non mi comprava le torte e non mi portava i miei fiori preferiti.
Mio padre non era mio padre. Era solo l'uomo che aveva sposato mia madre e che viveva nella mia stessa casa. Era strano vederti felice assieme a lui. Vi guardavo andare via lungo il corridoio giallo panna, con le lacrime agli occhi.
Per la prima volta fui geloso di te.
Quel giorno, mentre tornavi a casa con tuo papà e tuo fratello, la macchina sbandò.
Mi raccontasti tutto in modo vivido, quasi mi sembrò di esserci stato.
Tuo padre morì quel giorno. Una parte di te morí assieme a lui. Tua madre cercò sempre di incolparti per la sua morte, e tu ci credesti pure. L'ho sempre odiata tua madre.
Tu non lo sai, minnie, ma ogni domenica vado a Busan a portare dei fiori a tuo padre, e gli parlo di te. Da quando sono ad Amsterdam, non posso farlo, ma mando sempre dei fiori sulla sua tomba, così non si sente solo.
Ho sempre desiderato un padre come il tuo.