Abbassi la guardia un istante, ed è in quel momento che ti fottono.Varcai la soglia, la stessa che avevo attraversato mille volte, ma questa volta qualcosa era diverso. Un nodo mi serrava la gola, un misto di rabbia, paura e quella gelida consapevolezza che annienta ogni razionalità.
"Olympia è sparita," dichiarai in affanno dopo averla cercata disperatamente.
Mio padre si voltò, e il suo sguardo cambiò in un istante, passando dalla sua solita calma glaciale ad un'oscurità impenetrabile.
Non servivano parole, perché nei suoi occhi c'era già tutto: la furia trattenuta a stento e la promessa di conseguenze che non avrei potuto evitare.Fece un passo verso di me, ma non si fermò. Mi colpì con una spallata che non sembrava nemmeno intenzionale. Mi sbilanciò, barcollai, finì seduta sul divano mentre lo guardavo girare l'angolo.
L'avevo lasciata sola in camera sua una manciata di secondi. Ero scesa al piano inferiore convinta che qualcuno avesse suonato il campanello, invece, una volta aperta la porta. Nessuno.
Sopra la mia testa il pavimento del piano di sopra vibrò come se qualcuno stesse correndo, pesante, di fretta. I passi corti di Olympia che si stava nascondendo. Era il suo gioco preferito, ma dalla direzione dei suoi passi sembrava piuttosto dirigersi nella camera dei nostri genitori. Quella in cui non le era concesso andare. Nostro padre teneva nascoste armi per tutta la camera .L'avevo chiamata senza risposta. Ma a metà tra il piano terra e il primo piano mi sembrò quasi di sentirla urlare. Un urlo strozzato e mascherato dalle pareti spesse. Scattai di corsa, saltando i gradini a due alla volta temendo che si fosse ferita.
La porta era socchiusa, oscillava appena, come mossa da una corrente invisibile. La spalancai.
Vuota.
La finestra spalancata lasciava entrare il vento e non ricordavo di averla lasciata aperta. Mi affacciai strattonando le tende, ma il sollievo di non trovarla a terra non durò a lungo.
La cercai ovunque in ogni anfratto anche quelli più impossibili. Lei non c'era.Non aveva creduto nemmeno per un secondo che quello fosse uno scherzo di cattivo gusto. Olympia non si era semplicemente allontanata. Non si era persa, era abbastanza grande ma quel grido si impresse nella mia mente, più forte di quanto lo avessi sentito realmente.
Mi strinsi la spalla indolenzita e lasciai che un paio di lacrime, fredde e furtive, mi attraversassero il viso. Dieci secondi , li contai in fretta e poi ... poi tornai in me , imperturbabile e indifferente . Questo era tutto ciò che mi era concesso, dieci secondi, purché nessuno lo notasse.
Uscendo, il vento pungente mi colpì in pieno volto. Era la sesta volta che facevo il giro del quartiere con la vana speranza di trovarla.
Il rapporto con mio padre era già in procinto di sbriciolarsi in mille pezzi. O forse era solo polvere in attesa di una folata di vento.
Lo era già da prima di questa mattina, lo era già da prima della nostra litigata furiosa di due giorni fa.Raggiunsi la costa quasi correndo, i piedi mi affondavano nella sabbia mentre il respiro si faceva sempre più irregolare. Crollai in ginocchio davanti all'oceano, le onde irrequiete che si infrangevano contro la riva sembravano rispecchiare il caos che mi sentivo dentro. Persino il cielo sopra di me si preparava alla tempesta.
"Stai bene?"
La sua voce arrivò prima di lui. Bassa, ruvida. Come se avesse camminato in punta di piedi dentro il mio silenzio.
Non risposi.
Non per orgoglio, non per paura.
Solo perché con lui era inutile fingere. Mi conosceva troppo per raggirarlo.
Mi voltai, e per un istante avrei voluto essere altrove.
O qualcun altro.
Qualcuna che sapesse piangere davanti a chi la guarda così.
Ma i miei occhi avevano già deciso per me, e quella fitta che sentii nel petto fu solo la conferma che avevo perso il controllo.Mi aspettavo la sua solita ironia spietata, una battuta a cui non avrei saputo rispondere. Un , sei più fragile di quanto vuoi far credere, detto con quel mezzo sorriso che usava per farmi odiare il fatto che aveva ragione.
Lui mi diceva sempre la verità, che fosse spiacevole o meno.Ma non disse niente.Ero stanca di tenermi insieme con lo scotch e le minacce. Di fingere che bastasse il controllo per non crollare, che bastasse mordermi la lingua per non urlare. Ogni parte di me gridava vendetta o pace, ma non sapevo più distinguere la differenza. Avevo cucito addosso una corazza che sembrava pelle, e ormai non ricordavo nemmeno com'era il mio volto sotto tutto quel metallo. Continuavo a vivere a strappi, a singhiozzi, come un cuore troppo stanco per battere ancora, ma troppo testardo per fermarsi.
Mi si avvicinò senza fretta, come se sapesse esattamente dove fermarsi per non farmi scappare.
Mi prese tra le braccia. Così, senza chiedere permesso. E non fu un gesto dolce.
Fu deciso. Reale. Mi strinse così forte da farmi perdere fiato."Lasciati andare."
Sussurrò. Quasi un lamento, quasi una preghiera.
Mi venne da ridere, dentro.
Lasciarmi andare?
Dove?
Io ero già affondata da un pezzo.
Avevo imparato a parlare con i mostri.
A nutrirmi di ciò che marciva.E poi, a cosa sarebbe servito strapparlo, questo cazzo di cerotto?
Non mi avrebbe fatto guarire.
Mi avrebbe solo fatta sanguinare più in fretta.Io non ero fatta per guarire.
Ero fatta per sopravvivere al dolore, non per liberarmene.
Il mio male non aveva radici da estirpare.
Era terra. Era casa.E lui...
Lui lo sapeva.
E mi stringeva lo stesso.Sapeva che non volevo nessuno vicino quando stavo così.
Che preferivo il fondo del bicchiere, la porta chiusa, il buio.
Lui però non era come gli altri.
Lui era quella parte di me che non avevo mai saputo domare.
Me lo ripetevo continuamente, mi aggrappavo a lui come ci si aggrappa all'ultimo ricordo felice prima di morire.Mi stringevo all'idea che lui conservasse l'ultima parte di umanità che mi fosse rimasta. Riponevo in lui le uniche emozioni spontanee che avessi mai provato.
Restò in silenzio. Con il viso nascosto nel mio collo e il respiro calmo, controllato, come se stesse aspettando che mi ricordassi di respirare anch'io.
Non c'era pietà nei suoi gesti, né compassione.
Solo quella violenta e inspiegabile lealtà che mi aveva sempre lasciata confusa.
Quella che fa più paura dell'odio.
Quella che li lascia nel dubbio, a chiederti se alla fine non ci sia uno scopo.Tra noi c'era sempre stato qualcosa che non si poteva spiegare.
Non si toccava, non si definiva. Ma esisteva.
Nascosta agli altri e a noi stessi.Mi allontanai, in quel breve momento di lucidità. Non poteva restare.
Non con mio padre a pochi metri di distanza.
Non con il mondo che ci voleva nemici.E, Dio, quanto faceva male saperlo.
Sapere che mi avrebbe scelta, sempre, anche quando non poteva.
Sapere che mi vedeva davvero , anche quando io facevo di tutto per nascondermi.
Sapere che restava, quando io non avevo più niente da dare, quando tutto ciò che toccavo marciva.
E soprattutto, sapere che prima o poi l'avrei distrutto, come tutto il resto. Perché in mezzo a un impero di finzioni, lui era l'unica cosa vera.
E io le cose vere le consumavo.

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Poison - glory and gore
De TodoNel cuore di New York, cinque sono le famiglie che controllano la città con un pugno di ferro: I Carlyle. Alla luce del sole sono i rispettabili proprietari del Carlyle Journal, un quotidiano che non ha mai osato puntare il dito contro di loro. Ma d...