Sono ipocondriaca. Bizzarro modo di presentarsi, me ne rendo conto, ma non c’è definizione più completa per descrivermi.
Oggi, tornando da scuola, ho indossato la mascherina fino a quando non ho sentito gli incastri della porta di casa serrarsi dietro le mie spalle. A quel punto, dopo aver salutato papà dall’altra parte della stanza, sono corsa in bagno a disinfettare anche la più insignificante cellula del mio corpo; è pieno di malattie là fuori. Conclusa questa lunga operazione, mi sono diretta verso la cucina, sfoggiando un abito di fasulla serenità. Mio padre mi ha seguita con lo sguardo illuminato da uno di quei suoi sorrisi confortanti e sicuri, come se fosse certo che niente potrà mai abbatterlo. Proprio come avrebbe fatto il supereroe che costruivo intorno alla sua persona quando ero bambina.A volte mi domando se sia nata lì la mia ipocondria, in quell’ospedale in cui andavo sempre a trovarlo. Mi ricordo che allora ero felice, come prima di una gita, anzi forse molto di più, perché sapevo che lui era la mia meta. La mamma mi accompagnava in quell’interminabile tragitto e faceva del suo meglio per rimanere paziente mentre io mi agitavo sui sedili posteriori dell’auto e cercavo di sfuggire alla stretta insopportabile della cintura.
L’ospedale brillava ai miei occhi perché c’era lui ad attendermi all’interno. Perciò facevo di corsa le scale, mentre la mamma mi intralciava con la sua lentezza, e finalmente le porte dell’ascensore si aprivano e potevo dirigermi verso la sua stanza. Cardiologia. Stanza 87B. Papà stava steso su un piccolo letto bianco da cui spuntavano infiniti tubicini che collegavano il suo cuore a un macchinario. Aveva il cuore troppo grande, mi aveva spiegato la mamma, per questo i medici gli avevano consigliato di operarsi.
Con il tempo ho scoperto la verità sulla malattia, ma ciò che non riesco ancora a capire è come riuscisse a mantenere il suo solito sorriso, quieto e sicuro.
Durante quelle visite gli raccontavo tutto ciò che avevo imparato a scuola, della maestra Franca che ci aveva portati a lavorare nell’orto e di quel compagno che mi infastidiva ogni giorno. Ma gli parlavo anche di quanto mi mancasse sedermi sul suo pancione, giocare a carte con lui e scrivere storie insieme. E così i minuti si accartocciavano su se stessi, fino a diventare impercettibili, e giungeva troppo rapidamente l’ora di lasciarsi.Mi lavo di nuovo le mani, sfregando così violentemente da procurarmi diversi graffi superficiali. Mi sposto febbricitante, i miei movimenti non riescono a nascondere l’eccitazione, anche se preferirei essere in grado di lasciarmi sovrastare dalla calma.
Apro tutti i cassetti per cercare il coltello giusto, il bicchiere perfetto, i piatti migliori. Oggi è il giorno più speciale dell’anno per me e la mia famiglia, quindi ogni dettaglio deve essere impeccabile.
Mentre ispeziono la tavola appena apparecchiata, un dolce profumo di cioccolato penetra nelle mie narici, intenerendole, finchè un mio starnuto spezza il filo di quella piacevole magia e mi lascia precipitare in un dirupo di oscura agitazione. Raccolgo tutte le stoviglie e le immergo nel disinfettante.Anche quel giorno stavamo mangiando del semplice cioccolato, quando la suoneria del telefono di papà ha iniziato a strillare, quasi più squillante del solito. Papà si è alzato dalla sua sedia in cucina per andare a rispondere, sbuffando, perché era già convinto che fosse un altro di quei fastidiosi call center. E invece stavolta si sbagliava. Era la dottoressa che chiamava per comunicare gli esiti degli esami e con loro la notizia del tumore.
In quel momento persino papà, il mio eroe dal super-sorriso, ha lasciato andare un po’ della sua luce. E’ tornato a tavola e, dopo aver riportato l’inattesa novità, si è chiuso nel suo silenzio, e anch'io mi sono riparata nel mio, mentre mamma cercava di raggiungerci urlando parole angosciate.Driiiin. Driiiin. Driiiin. La torta è finalmente pronta. Indosso dei guanti in lattice e la tolgo dal forno. Corro in salotto per prendere le candeline e mentre passo rivolgo un altro sguardo a papà. Mi capita spesso di chiedermi se stia notando la mia ferma dedizione nel renderlo fiero della persona che sono. E’ sempre stato la mia ispirazione, colui che con i suoi silenziosi consigli mi incitava a migliorarmi, a non accontentarmi mai, a crescere. E’ sempre stato la stella che in mezzo a infinite direzioni mi aiutava a non smarrirmi nel buio della notte e nella luce accecante del giorno.
Per questo quando questa stella si è spenta, ho perso ogni punto di riferimento.
Ero sola. Sola nel nostro silenzio.Quel giorno, lo so, l’ho deluso. Piangevo fino a soffocare nei singhiozzi, tremavo, la testa mi scoppiava. Lui non avrebbe voluto questo, avrebbe voluto vedermi sorridere. Ma come potevo? Come avrei mai potuto perdonarmi per essere stata la causa della sua morte?
Papà aveva finito le chemio. Potevamo finalmente tornare a respirare. Era stato uno dei tempi più duri che avessimo affrontato, ma riuscivamo ad essere l’uno il riflesso del sorriso dell’altra. Anzi, al termine della cura, quasi quasi ci mancava essere sempre in ospedale; era diventata la nostra immancabile gita settimanale.
Poi è arrivata la pandemia, ma non ci spaventava. Ormai avevamo affrontato mostri molto più grandi e saremmo riusciti a gestire anche questo. In fondo, bastava semplicemente indossare una mascherina e igienizzare le mani un po’ più spesso del solito. Ho seguito alla lettera queste regole, eppure il virus mi ha presa. E, da me, è arrivato anche a lui.
Inizialmente avevamo il controllo della situazione perché i sintomi erano un banale raffreddore e una lieve febbre, ma questo è stato l’ultimo assaggio di speranza.
Mentre io mi riprendevo, papà era sempre più stanco e pallido. Non riesco ancora a trovare una spiegazione, ma per qualche motivo la malattia aveva scelto di consumare proprio lui, privarlo di ogni forza e chiudergli gli occhi per sempre. E ci è riuscita, ma non è stata in grado di spegnergli il sorriso, il suo solito sorriso quieto e sicuro.
Da allora questo suo sorriso è rimasta la mia risposta alla domanda ‘’per cosa vivi?’’ ed è il solo ricordo che ho preservato di quei giorni: la chiesa, l’arrivo della bara e le condoglianze sono soltanto un lontano borbottio fastidioso.Un altro starnuto questa volta travolge le candeline che ho recuperato. D’istinto i miei piedi ruotano in direzione del lavandino in cucina per disinfettarle, ma mi sento lo sguardo di papà addosso. Subito nascondo le mani graffiate dietro la schiena. Mi sembra che la sua foto sulla mensola del salotto abbia assunto un'espressione di dolce rimprovero.
Oggi papà compie sessant’anni ed è il primo compleanno in cui non siederà sulla sua sedia a capotavola, quella verde accanto alla mia. E’ il primo compleanno in cui non risuoneranno le sue battute pessime che, però, facevano ridere tutti. E’ il primo compleanno in cui gli altri percepiscono il tuo silenzio, mentre io l’ho sempre conosciuto e mi risuona dentro come la guida più preziosa che abbia.
Io e la mamma mangiamo la torta, sorridiamo e ci comportiamo come se tutto ciò fosse normale; stiamo facendo del nostro meglio.
A un tratto, però, sento un altro solletichìo al naso e, mentre cerco di trattenere anche questo starnuto, penso alla mia ‘’ipocondria’’. Sono terrorizzata dalla malattia. Un semplice raffreddore è un ponte che collega me alla fine, o forse alla fine di chi mi circonda. Non ho paura di stare male. Ho paura di diventare ancora portatrice di morte. Quindi cerco di disinfettare qualsiasi oggetto e capire dove ho sbagliato la prima volta, ma non so se riuscirò mai a trovare una risposta. Penso a mio papà e al suo sorriso. Il suo silenzio mi satura la mente e mi scioglie i nervi. Tiro un lungo respiro. Lascio andare lo starnuto e senza timore mi abbandono in un sorriso, quieto e sicuro.
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Nei silenzi
Short StoryUna raccolta di racconti; storie legate dal caos di silenzi incompresi.