Uno

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Natsuko fu sorpresa di quanto il clima potesse essere crudele nei confronti dell'essere umano.

Quella mattina, quando alle prime luci si era alzata ed era uscita di casa con Daichi, le era sembrato che da un momento all'altro fra i suoi capelli avrebbe potuto trovare cristalli di brina, tanto era bassa la temperatura.

Dopo un lasso di tempo che avrebbe stimato essere di quattro ore, la grossa sfera era ormai alta e possente nel cielo, così come forti e luminosi erano i suoi raggi, che rischiaravano il volto dei due ragazzi mentre si accingevano a compiere l'ultimo tratto del loro percorso: una lunga scalinata in pietra grigia nel cuore di una foresta in cui il tempo si era fermato a causa del freddo. Anche così chiari, così accecanti, quei raggi a Natsuko davano solo fastidio e nessun calore. Torbide pozze, causate dal temporale che per tutta la notte aveva battuto la capitale, minacciavano di gelare da un momento all'altro. La stagione invernale aveva risucchiato ogni traccia di tepore da Kamakura, eppure lei non cessava di sperare di ritrovarlo, sia per il suo corpo che per la propria famiglia. Mai come in quel periodo ne avrebbero avuto bisogno.

Si strinse lo scialle di lana grigia attorno alle spalle. Aveva indossato uno dei suoi abiti più pesanti e semplici, rinunciando a un minimo di eleganza pur di attrezzarsi per resistere al freddo: sopra la gonna di spesso tessuto color del sangue aveva sovrapposto cinque strati di vesti scure e aggiunto lo scialle. Più che la figlia di un defunto Daimyō, era vestita come una delle donne che servivano presso la loro abitazione. Aveva cominciato a provare un po' di sollievo solo durante la lunga camminata che da casa li aveva portati a quel tetro luogo.

Si fermò un istante. Erano soli, eccetto una donna che si trovava circa a metà della scalinata. Davanti a lei c'erano solo gli ultimi gradini da salire. Daichi le stava dietro. Quella mattina era cupo e silenzioso; da un mese a quella parte, assumeva sempre quell'atteggiamento quando c'era di mezzo Kogoro-dono. Natsuko immaginava che aver perso il padre tanto amato a causa di una malattia così improvvisa non dovesse essere una ferita che si rimarginava facilmente.

Riguardo lei, invece, per quanto fosse affezionata al defunto capofamiglia, i suoi sentimenti non sarebbero stati paragonabili a quelli di Daichi. Quell'uomo per la ragazza era riuscito a rappresentare tutto il suo mondo: salvezza, sensazione di sicurezza e protezione, una casa, il suo intero universo. Eppure, escludendo le circostanze formali, in cui sarebbe risultato strano fare altrimenti, non le era mai riuscito una sola volta di chiamarlo padre.

Non era una figlia naturale dei Kanayama: a dire il vero, di chi fosse figlia non aveva idea. Di punto in bianco, un giorno, si era svegliata accanto a Kogoro-dono in una stanza che non conosceva, con la sola certezza di non ricordare niente di come ci fosse finita. I Kanayama l'avevano ospitata per giorni prima di decidere cosa fare di lei, ma alla fine era stato stabilito che l'avrebbero presa in casa e allevata come fosse un membro della famiglia a tutti gli effetti. Una volta aveva provato a chiedere dei suoi genitori e di come fosse arrivata lì, e in quell'occasione aveva ricevuto una risposta evasiva e la raccomandazione di non preoccuparsi.
Solo qualche anno dopo aveva realizzato, in una sgradevole presa di coscienza avvenuta col terminare dell'infanzia, che probabilmente i suoi familiari erano morti da tempo. Non era riuscita a provare dolore, per il semplice fatto che il tempo aveva già provveduto a strapparle dalla mente ogni memoria relativa a come ciò fosse accaduto. Prima del suo risveglio sotto il tetto dei Kanayama c'era solo un enorme spazio vuoto in cui galleggiavano informazioni sconnesse. Ricordava il suo nome e possedeva memorie vaghe che a volte riusciva a focalizzare con determinati stimoli, ma quando era stata adottata era troppo piccola per poter conservare altri ricordi. Aveva la sensazione di essere stata cresciuta da una famiglia come tante, composta da un uomo, una donna e probabilmente degli altri figli. Ne vedeva i corpi, alti e deformi come un occhio di bambina avrebbe potuto percepirli, ma senza riuscire a distinguerne i volti. Ricordare, aveva scoperto, era faticoso e inutile.

Megami no namidaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora