"Inutile riprovarci...
Il dolore è troppo forte. Ma quello è il meno, alla fine col dolore sono abituato a conviverci, da sempre.
È l'impossibilità di emettere un qualsiasi suono dal mio strumento che mi arrovella l'anima"
Chet restò con questo pensiero in testa per alcuni minuti. Immobile.
Il suo sguardo fisso sul bocchino della sua tromba, che pareva lo guardasse come farebbe un cane in attesa del bocconcino lanciato dal padrone. "Perché non mi fai suonare un po'?" sembrava imprecasse lo strumento.
Ma Chet non voleva neanche più provarci. Le labbra, senza l'appoggio fisico dei denti anteriori, non potevano porre alcuna resistenza alla pressione del bocchino, impedendo così la loro vibrazione e, di conseguenza, l'emissione del suono.
Non poteva più comunicare.
La musica era l' unico ponte che lo univa al resto dell'umanità. Il resto era sempre stato un disastro.
Persino il suo aspetto.
Da giovane era proprio un bel ragazzo, tutti si accorgevano della sua somiglianza a James Dean, cosicché lo iniziarono ad associare al "bello e maledetto" che l'attore si era portato nella tomba. Era destino, anche il quel poco di bello che madre natura gli aveva donato per caso, si trasformò in un handicap, distruggendo anche il poco di amor proprio che il giovane conservava ancora dentro di se.
Ma la musica era ancora li ad indicare al mondo che lui esisteva e aveva ancora molto da dire.
Ma adesso? La paura di aver perduto tutto si impadronì così tanto di lui che non riusciva neanche a riflettere sulle possibili soluzioni ai suoi problemi. Invece quest'ultimi gli si erano incollati alla sua mente come un pezzo di nylon che per effetto dell'elettrostaticità ti si attacca alle mani e non riesci a liberartene neanche scuotendole con forza.
A parte la sua tromba, non aveva altro. Non aveva soldi, non aveva amici.
Ma aveva molti debiti, e, soprattutto quello che adesso lo preoccupava di più, aveva un contratto con mister Denver, il proprietario del jazz club dove la sera andava a suonare, per tirare su qualche dollaro.
Cosa avrebbe potuto raccontargli? Ma soprattutto, quanto sarebbe interessato, a mister Denver, il suo problema? Per lui valeva la formula del "non suoni, non riscuoti". Punto!
E lui non poteva suonare.
Il dolore ai denti ricominciò a farsi sentire forte. Normale conseguenza di un pugno ben assestato che colpisce i due incisivi superiori, sgretolandoli e piegando le radici all'interno.
"Quello spacciatore è un imbecille" pensó Chet, in uno strano lampo di lucidità; "rompermi l'unica possibilità che ho per ridargli i soldi, è proprio da imbecille". Ma questo non bastò a consolarlo. Ma servì per dargli finalmente una mezza idea per risolvere il problema della serata e mister Denver. "Canterò, se non posso suonare, canterò!". E questa decisione lo tranquillizzò un po', facendolo cadere in una situazione di torpore mentale che gli alleviò anche il dolore.
Quando si risvegliò da quella sua condizione si rese conto che l'idea avuta era un frutto di una situazione disperata, ma che era del tutto irrealizzabile. Probabilmente la sua mente aveva bisogno di riposare e aveva creato quella via di uscita per permettergli di riposare. Ma adesso a mente fredda si rese conto dell'assurdità della situazione.
Lui non sapeva cantare!
Il suo orecchio era perfetto per dare alle dita e alle labbra il giusto impulso per emettere dalla tromba sempre il suono perfetto. Nessuna tecnica lo guidava. Solo l'intuito di emettere la nota giusta al momento giusto. Ma la stessa cosa non valeva per il collegamento tra il suo orecchio e le corde vocali. Quest'ultime parevano andare per conto proprio. Sin da piccolo.
Glie lo dicevano gli sguardi della maestra alle elementari, le risatine dei compagni. Lui non sapeva cantare.
Squillò il telefono e Chet sapeva cosa significasse. Mister Denver stava tuonando. Era in ritardo e si stava sicuramente preoccupando per la serata.
Rispose al quinto squillo biascicando qualcosa di simile ad un sto arrivando e riagganció.
Le strade erano due, o avrebbe preso il coraggio di presentarsi e cantare, o sarebbe stato meglio per lui filarsela e sparire per sempre da quella città.
Si incamminò verso il locale, ancora incerto sul da farsi, pronto a cogliere il primo segnale di lucidità che il suo cervello gli avrebbe dato, per uscire da quell'incubo. Nel frattempo pareva che fossero le sue gambe l'uniche che riuscivano a prendere una decisione.
Aveva con se la tromba, dentro la custodia, pur sapendo che non l'avrebbe mai aperta. Senza pensare entrò nel locale, in silenzio, senza rispondere ad alcun saluto. Nessuno fece caso a questo. Fin li il suo comportamento era sempre il solito. Brusco e scontroso. Salì sul palco, sempre in quello stato di incoscienza, il gruppo aveva già cominciato a suonare da un bel po', ma erano costretti a fare pezzi senza che fosse necessaria la sua presenza.
Non aprì la custodia della tromba.
La band iniziò ad introdurre My Funny Valentine.
Le battute avanzavano e lui rimaneva li fermo davanti al microfono, senza muovere un muscolo. Al momento previsto per la sua entrata appoggiò la bocca al microfono e cominciò a cantare.
I Jazz Club, a differenza di quello che si può pensare, erano locali dove gli avventori non erano completamente intenzionati ad ascoltare la musica. Erano locali dove si parlava, si beveva, si poteva anche ascoltare la musica, ma il più delle volte la si considerava un piacevole sottofondo sul quale costruire la serata.
Quella serata fu diversa dal solito. I clienti, dal momento in cui Chet cominciò a cantare, cominciarono a ridurre i dialoghi, una persona alla volta, un gruppo alla volta. Finché tutti si trovarono li, rivolti verso il palco, con sempre più curiosità, a guardare quella figura magra e ingobbita che stava cantando. Nessuno commentava, nessuno pareva apprezzare, ma neanche sembravano disturbati. Erano li fermi ad ascoltare, come se la condizione di semi incoscienza di Chet fosse uscita da lui e si fosse distribuita agli altri, in quella stanza, sotto forma di una nube gassosa. Tutti l'avevano respirata e adesso non riuscivano a pensare. Erano solo in grado di ascoltare, ma forse neanche questa era la giusta condizione. Erano in grado solo di assimilare vibrazioni. Perché il canto di quell'uomo non era intonato, e non era neanche accompagnato da una voce piacevole. Ma aveva una particolarità che pochissimi cantanti avevano. Parlava all'anima.
Chet Baker, con la tromba o senza di essa, aveva la capacità di rivolgersi direttamente all'anima, facendola vibrare assieme alla sua musica...