Santa Claus is cuming to town

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"Eppure, c'è qualcos'altro
che brucia dentro di me.
Un desiderio
che è cresciuto per troppo tempo,
sepolto sotto la cenere
e la fuliggine della mia cattiva reputazione."

24 dicembre

Quando uscii dalla metro rabbrividii e una nuvola di vapore bianco e denso s'allontanò dalle mie labbra nell'aria rarefatta della notte.

I miei scarponcini slittarono appena sul leggero nevischio che si stava ghiacciando sull'asfalto, mentre grossi fiocchi di neve cadevano tutto attorno a me, unica anima in questa stradina deserta.

Credo di aver sempre amato la neve. Ha un odore particolarissimo, di quelli che mi fa sorridere, che mi mette allegria. Probabilmente è solo un retaggio dell'infanzia, che mi riporta immediatamente al porticato sul giardino, all'odore di sakè caldo della nonna. Al rincorrere il nonno mettendo i piedi dove lui aveva lasciato le impronte.

Ai pupazzi di neve mezzi storti che papà mi aiutava a costruire e al fiato caldo di mamma che mi scaldava le mani dopo un pomeriggio fuori.

Sperai di non finire gambe all'aria nel tragitto tra la fermata della metro e casa mia, riparandomi sotto il misero ombrellino pieghevole che stringevo con le dita congelate.

Quell'anno mi ero immolata nella Vigilia di Natale in favore di Itou, che voleva assolutamente vedere la recita di suo figlio più grande e attendere con loro l'arrivo di Santa-san. Così mi era toccato il turno più palloso della storia della mia carriera lavorativa: non un campanello che suonasse, nessuna crisi.
Eppure, ero così stanca che bramavo un bagno rilassante e una lunga dormita, perché, in quelle ore noiose che sembravano non finire mai, la mia mente aveva vagato nei labirinti della nostalgia e l'idea di non passare a casa dei miei il giorno di Natale mi aveva fatto salire un lieve tristezza.

Affondai di più il naso freddo nella sciarpa di lana pesante che mi avvolgeva collo e spalle, il vapore del mio fiato passava attraverso le maglie grosse e si perdeva attorno ai miei capelli.

Pek. Pek. Pek.

La neve che si posava leggera sul mio ombrello faceva un rumore dolce, continuo, su cui era piacevole concentrarsi in quel breve tragitto a piedi.

«Un po' tardi per tornare, non credi?».

Sussultai e il suono acuto che uscì dalla mia bocca fu quasi uno squittio, mentre tentavo di riacquistare il mio equilibrio precario con un piccolo, caldo aiuto, che mi tratteneva saldamente per un gomito.

Quando alzai l'ombrello vidi Dabi lì, accanto a me, imbacuccato nella solita felpa scura col cappuccio chiaro tirato sulla testa e un giubbotto forse di una o due taglie più grandi. Nero, rigorosamente.

«Hai imparato a squittire come i tuoi simili?».

«Mi hai spaventata!».

«Lo so.», mi rispose con un sorriso accattivante che mi scaldò le guance senza alcun apparente motivo.

Alzai l'ombrello e lo mossi per coprire anche lui, che aveva il giubbotto umido sulle spalle e grossi fiocchi di neve s'erano depositati sul cappuccio della sua felpa e sui capelli ribelli che da esso uscivano. «Che ci fai qui? Non eri... via?».

Dabi scosse le spalle, la solita espressione annoiata che usava come scudo per qualsiasi situazione. «Passavo di qui.».

Una risatina lasciò la mia gola, mentre riprendevo a camminare, lasciandolo come un idiota sotto la neve che continuava a cadere, ad ovattare qualsiasi suono. «L'ho già sentita una stronzata del genere!», rilasciai con tono divertito una volta che fui davanti al portoncino d'ingresso, le dita gelate che facevano fatica a tenere le chiavi.

Baby it's cold outsideDove le storie prendono vita. Scoprilo ora