La Melodia della Morte.

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"Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo."

-Eugenio Montale.

Era giunta la notte e con essa i diavoli cominciavano a uscire dagli angoli bui della stanza

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Era giunta la notte e con essa i diavoli cominciavano a uscire dagli angoli bui della stanza.

Li sentivo sussurrare, digrignavano i denti e risate macabre si facevano largo all'interno di una sudicia camera di un appartamento dimenticato dal resto del mondo.

La mia pelle era piena di brividi, non ero pronta per essere divorata.

Non c'era luce e non ci sarebbe stata per l'eternità. Ero destinata a esistere nell'oscurità, nel buio dei miei peccati.

«Guardati, non fai pena a nessuno. Sei rimasta da sola». Una voce maligna si era avvicinata al mio orecchio. Sentivo la puzza del suo alito, delle sue fauci appuntite e della nera saliva che scorreva lungo labbra strappate. «La tua carne mi eccita», continuò. «Sento la paura, è così estasiante».

Ero terrorizzata. Mi avrebbero dilaniato ogni centimetro del corpo, spezzato le ossa in milioni di frammenti affilati e si sarebbero ubriacati con il mio sangue.

Era quella la mia fine. Essere dimenticata, vivere nel buio più oscuro.

Mi domandavo spesso se in quel denso silenzio avessi provato dolore, se esistessero ancora le emozioni o se avessi avuto la capacità di piangere un'ultima volta.

Tutto quel tempo a soffrire per continuare a vivere non era servito a niente. Avevo solo sprecato fatiche inutili, non avrei mai cancellato i miei rimorsi, le mie scelte sbagliate.

«È questo ciò che ti meriti, non hai saputo mantenere le promesse, hai sbagliato tutto. La tua famiglia ti ha abbandonato, sei un fallimento per tutti. Quelli come te non hanno diritto di vivere ancora» disse un altro demone sbucato da sotto il pavimento.

Mi teneva per le caviglie, le unghie marce e affilate mi graffiavano come spilli conficcati nei nervi. Sentivo già scorrere il sangue sui piedi.

Le lacrime scivolavano veloci appannandomi la vista. Mi bruciavano gli occhi come brace ardente, volevano avvertirmi, urlavano alla mia anima. Stava prendendo fuoco dall'interno e non potevo fare più nulla per fermarla. Mi sentivo sgretolare, avevo l'impressione di star diventando un mucchio di cenere.

Cercavo di muovermi, ma i diavoli attorno stavano accerchiando ciò che ne rimaneva della mia esistenza.

Non avevo il coraggio di parlare, di ribattere a quelle parole spregevoli. Avevano ragione, si divertivano a sputarmi in faccia la realtà. «Perché piangi?» domandò una voce più cupa del gracchiare dei corvi. «Ti abbiamo dato tutto. Lusso, fama, uomini e donne con cui gemere la notte, ma eccoti qua. Un lurido topo di fogna che si nasconde nel buio. Hai le mani sporche di sangue come tutti noi» rise divertito.

Mi guardai i palmi e sotto la flebile luce della luna un liquido cremisi impregnava le mie dita.

«No, non è vero. Non l'ho fatto» sussurrai con gli occhi sgranati, quasi a uscirmi fuori dalle orbite.

«Invece sì, hai ucciso la tua anima con le tue stesse mani» rispose un diavolo, mentre passava la sua lingua tra i denti, pregustandosi il sapore dolce della mia carne.

In un istante, tutta la mia vita si palesò in uno schiocco di dita davanti ai miei occhi. Avevo causato sofferenza, ma al tempo stesso avevo subìto perdite, dolori inimmaginabili per arrivare ai miei obiettivi. Mi avevano portata a essere un mostro, niente aveva più senso.

Avevo ucciso la mia esistenza facendola diventare parte integrante di un'oscurità che mi avrebbe inghiottito per l'eternità. Non ci sarebbe stata pace, né prima né in un'altra vita.

A cosa sarebbe servito implorare perdono? I miei occhi erano pieni di vuoto, ogni momento di gioia era svanito nel nulla. Avevo l'impressione di non aver mai compreso cosa significasse davvero la felicità. Il buio si era insinuato nelle mie vene, nei miei organi e mi stava divorando le sinapsi.

Imploravo che non mi prendessero con loro, ma i diavoli non si allontanavano dalle anime peccatrici: le torturavano per l'eternità e si sarebbero cibate di esse fino alla fine dei tempi.

A un tratto, un suono di violoncello si insinuò nei timpani. Fu quasi un anestetico al mio dolore. Provai a voltarmi verso il mio letto e lì la vidi. Suonava per me, per la mia sofferenza e alleviava il peso del mio peccato, mentre mostri deformi iniziavano a soffocarmi, a strapparmi la pelle e gli organi. Li lasciavo cibarsi, non opposi resistenza. Avevo bisogno di farli smettere di parlare.

Fiumi di sangue scesero lungo le loro bocche, ingurgitavano le interiora, mi strappavano i seni e i fianchi, mentre io sparivo tra quelle note. Era una musica lenta, gentile e malinconica. Guardavo quella donna vestita di nero che quietava le urla con il suo tocco di dita su quelle corde delicate.

Io morivo dimenticata e lei mi alleviava il dolore in quell'eterno buio.

Non sentivo nulla, le voci nella mia testa erano sparite, ma il sangue sulle pareti era spettatore di atti disumani.

Lei non parlava, faceva danzare le sue dita sulle corde e la melodia risuonava per tutta la stanza. I miei occhi piangevano sangue, mentre i polmoni avevano smesso di richiedere avidi l'aria. La guardavo con dolce disperazione, avrei voluto raggiungerla, sedermi accanto a lei e dormire al suo fianco, mentre mi cullava con quel violoncello.

Era la musica della Morte, un canto dolce prima di chiudere gli occhi per sempre e vivere in quel buio eterno. Forse, tutto il dolore sarebbe evaporato e l'unica cosa a consolarmi in quell'oscurità sarebbero state le sue tristi note.

Io conoscevo la musica, vivevo per essa. Non ero stata capace di diventare qualcuno.

Quella sonata l'avevo imparata a memoria, riuscivo ancora a sentire le mie dita tremare dall'emozione.

I miei occhi si stavano chiudendo, erano stanchi di ogni dolore, di tutti i rimorsi e il mio corpo era dilaniato, lacerato. Perdevo pezzi di pelle e avevo bisogno di riposare in quell'immensa oscurità in cui mi ero nascosta, dimenticata dal resto del mondo. Dondolavo come un orologio a pendolo che aveva perso il ritmo del tempo.

Come ultima esibizione avrei suonato alla mia anima quella macabra musica, mentre il mio corpo marciva appeso al lampadario della mia stanza.

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