I - Mano nella mano.

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Il ronzio del cellulare la costrinse ad aprire gli occhi e svegliarsi da un sonno abbastanza tormentato a causa di alcuni pensieri.
Guardò l'orario impresso sulla radiosveglia sul comodino e sospirò: le tre del mattino.
Sbuffò e rifiutò la chiamata, rigirandosi sul fianco sinistro, ma il telefono riprese a vibrare quasi con più insistenza; scazzata, si decise a rispondere.

«Ma che cosa vuoi alle tre del mattino? Lasciami in pace per favore, è finita.»

«Scusi per l'orario, signorina...»

La voce di uno degli agenti di scorta la colpì in pieno come uno schiaffo e subito lei si allarmò.

«Non si preoccupi, mi dica. È successo qualcosa di grave?»

«Grave no, ma non smette di chiedere di lei e chiamare il suo nome. Si è seduto per terra davanti Montecitorio e sta piangendo come un bambino, non c'è verso di farlo rimettere in piedi e in tre non ce la facciamo, anche perché è ubriaco come una pigna»

La ragazza emise un lungo sospiro, dopodiché scostò le coperte e si sedette a mezzo busto sul letto.

«Mi dia dieci minuti, arrivo. Intanto provate a rimetterlo in piedi, non fatemi vedere scene patetiche, vi scongiuro. Grazie»

«Grazie a lei»

Si alzò come una furia dal letto, levò la sottoveste in seta e si vestì alla meno peggio con dei pantaloni morbidi e caldi ed un maglione in cashmere; si infagottò bene nella calda sciarpa in lana e si avvolse nel cappotto.
Imprecò per aver dimenticato di indossare le scarpe e le calzò con fretta, dunque acciuffò il telefono, il portafogli con i documenti e la patente, chiuse casa e corse verso l'auto.
Imboccò la strada per il centro e in meno di cinque minuti fu sul posto: lasciò l'auto poco distante da Montecitorio e corse a perdifiato, per strada non c'era nessuno a quell'ora, solo alcuni camioncini addetti al lavaggio strade.

Svoltò su via del Parlamento e fu allora che lo vide: si reggeva in piedi per miracolo e tirava su col naso, appoggiato a due agenti di scorta mentre un terzo - presumibilmente colui che l'aveva chiamata - camminava avanti e indietro.

«Mina...»

«Zitto, non dire niente. Mi hai vista, sono qui, ora andiamo, ti accompagno a casa» sbottò, avvelenata.

«Non ci vado in quella cazzo di casa, voglio stare con te» piagnucolò.

«Giuseppe, non farmi incazzare di più. Non renderti ulteriormente ridicolo, andiamo»

«No»

E stava per accasciarsi nuovamente a terra, quando lei gli si avvicinò, lo acciuffò per un braccio e lo guardò negli occhi.
Chissà quanto aveva bevuto, erano giorni che lo ignorava volutamente dopo una discussione e lui provava comunque sempre a contattarla per chiarire.

Mina lavorava per lui solo da due anni, ma lo amava già da qualche anno prima, quando lui era ancora premier; si erano avvicinati per caso, un giorno in cui lui era triste per aver litigato con il figlio per via di una cavolata.
Era corsa da Giolitti a prendere una vaschetta di gelato alla nocciola e al pistacchio ed era tornata in ufficio per provare a tirargli su il morale, riuscendo nel suo intento.

Qualche sera più tardi avevano cenato insieme alla sede per lavorare ad alcune pratiche che riguardavano la formazione dei gruppi territoriali e una parola tira l'altra, fra una chiacchiera e un sorriso si erano ritrovati a baciarsi e a fare sesso sulla scrivania dello studio di lui.
Mina non si levava più dalla mente la bocca di lui, le sue dita, le sue braccia possenti e il suo corpo forte - nonostante avesse quasi sessant'anni - pressato sul suo; erano diventati amanti, lui le parlava dei suoi problemi, scopavano come animali quando entrambi avevano un po' di tempo a disposizione, ma la sera lui tornava sempre a casa come se nulla fosse.
Avevano litigato perché Mina aveva deciso di troncare la relazione clandestina che intercorreva fra loro, ma Giuseppe ci era rimasto male e cercava comunque di avere un contatto con lei al di fuori del lavoro.

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