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Tw: ci sono ancora Manuel e Simone che si conoscono da bambini (purtroppo è un mio grande punto debole) ci sono diversi cliché, la mia poesia preferita, un po' di angst (non guasta mai), Manuel con un po' di problemi (strano, vero?) Simone crocerossino (strano anche questo) una logopedista un po' particolare, un abbandono e poi basta che sennò faccio spoiler.

In sostanza è un po' una cagata.

Ah, l'ho scritta tipo un anno fa, bleah.

A parte tutto questo (amo sdrammatizzare) questa storia per me è molto personale, spero possa lasciarvi qualcosa.
Grazie, sempre.
Mari














Quando papà decise di andare via di casa, avevo solo dodici anni.

Fu uno dei momenti più difficili della mia vita.
Non ricordo molto di quel periodo, così come non ricordo molto del rapporto con papà. Era un uomo burbero e scostante, a volte arrogante e, nei casi peggiori, prepotente.

Non aveva parole di conforto verso mia madre o slanci di affetto nei miei confronti, ma era pur sempre mio padre e a me bastava la sua presenza per sentirmi uguale a tutti gli altri bambini.

Mi accompagnava a scuola quando mamma non riusciva a districarsi tra i suoi due lavori e veniva a riprendermi quando, a fine giornata, uscito dallo studio della logopedista che frequentavo due volte a settimana, mi portava a prendere il solito gelato.

Non era tanto, ma ero felice.

La cosa che più ricordo, tuttavia, erano i suoi occhi tristi e rassegnati quando provava a chiedermi come fosse andato l'incontro e tutto quello che otteneva, da parte mia, era una semplice alzata di spalle.

Non capivo perché fosse deluso da me, non volevo arrecargli dolore, ma non sapevo cosa fare.

Forse, col senno di poi, fu questo a farlo scappare.

Mi sentivo inferiore e spesso incapace, nonostante cercassi di esprimermi nel miglior modo possibile. Seguivo i consigli che la dottoressa Marta mi impartiva durante gli incontri settimanali e riprovavo gli esercizi anche a casa, lontano da mamma e papà.

Non volevo vedessero che, in realtà, non stavo ottenendo nulla.

Per i primi anni fu inutile, biascicavo consonanti e vocali senza dar loro un senso, non riuscivo a comporre una frase lineare e tutto ciò che riuscivo ad emettere erano dei versi inconsueti e senza un filo logico.

Fino ai sei anni l'unico modo che avevo per esprimermi era attraverso i gesti. Erano semplici e di poco impatto.

Quando avevo sete portavo l'indice fino al mio viso, aprivo la bocca e indicavo la lingua, così che tutti potessero capire cosa intendevo.

Quando qualcosa non mi piaceva o non era come volevo io, negavo col capo e muovevo la mano da destra a sinistra, in maniera veloce e disordinata.

Quando qualcosa, invece, mi rendeva particolarmente felice, aprivo e chiudevo gli occhi un paio di volte, stringendo forte le palpebre; a papà non piaceva, diceva che era un tic e che avrei dovuto evitare di farlo così spesso.

Non ci volle, comunque, molto tempo per farlo sparire, erano poche le volte in cui ero veramente felice.

Non parlavo, ma la mia testa non smetteva di fare rumore.

Ricordo con tristezza le risate dei bambini quando in classe arrivava il momento del dettato e io faticavo a stare dietro alla maestra, quando dovevamo rileggere le consonanti e le vocali e io finivo per scuotere il capo e abbassare lo sguardo, mostrando così la mia volontà di non andare oltre.

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