Capitolo 1

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Quella mattina, Alice si era svegliata abbastanza di buon umore.
Rispetto al solito, la voglia di alzarsi dal letto era maggiore, e la stanchezza che di prima mattina non dovrebbe esserci, stavolta non c'era per davvero.
Era una giornata di sole, ma non faceva troppo caldo, così decise che il tempo era perfetto per andare a correre.
Prese le cuffie, infilò calzini e scarpette ed uscì.
Appena mise piede fuori casa, l'aria fresca del mattino la avvolse, accarezzandole il viso. Inspirò profondamente, trattenne il respiro per pochi secondi e poi lasciò andar via l'aria ormai calda e pesante che aveva raccolto dentro ai polmoni.
Rimase ferma per qualche istante. Amava osservare, ogni singolo dettaglio per lei era fondamentale. Aveva sempre quell'assurda capacità di memorizzare tutto. Non le sfuggiva mai niente. E questo era un bene, il più delle volte. Essere in grado di ricordare ogni cosa, spesso può andare a tuo favore, eccetto quando ciò che ricordi fa così tanto male da spezzarti le ossa. In quel caso, disattenzione e memoria corta possono risultare più che utili.
Il viale sul retro di casa sua andava ramificandosi in tante piccole stradine, e Alice non aveva mai avuto il tempo, né la voglia, di percorrerle tutte. Ce n'erano a decine.
Le prime due, però, ormai le conosceva a memoria. Stessi alberi, stesse fontane, stessi piccoli ruscelli e spiazzi dove stendersi e perdersi per un po'.
La pace regnava sovrana, in quei posti. E questa era l'unica cosa bella del suo paese. Lì dove viveva non c'era mai niente di interessante.
La gente, in particolar modo, la disgustava.
Tutti tranne Marco, ovviamente. Lui era l'unica eccezione in mezzo a quelle persone che non avevano niente a che vedere con lei.
Voci, occhiate e sguardi inopportuni... tutto, tutto contribuiva ad accrescere in lei la voglia di scappare, un giorno, lontano da lì. Magari con Marco, chi lo sa.
A volte sentiva di far parte di un altro posto, o addirittura di un'altra epoca. Era come se qualcosa, una vocina dentro di lei, le continuasse a dire e a ripetere che c'era un altro luogo a cui lei apparteneva. Lontano, molto lontano da lì.
Alice aveva già cominciato a perdersi nei suoi pensieri. Era ancora ferma davanti casa sua, quando venne distratta da un bambino poco distante da lei.
Mele - così lo chiamavano tutti - stava giocando con la sua palla. La lanciava contro un albero, e questa rimbalzava e cadeva ripetutamente ai suoi piedi. Lui si abbassava, la riprendeva tra le mani e tornava a lanciarla contro il tronco.
Alice decise di avvicinarsi. Erano rare le volte in cui vedeva quel bambino, specialmente da solo. Soffriva di un lieve disturbo autistico, e i suoi genitori gli stavano sempre intorno, non lo lasciavano mai da solo per più di dieci minuti.
Mele, ciao》disse Alice. Si avvicinò al bambino, del tutto impassibile.
Lui si voltò, la guardò per non più di un secondo, e poi tornò a prestare attenzione alla sua palla.
《Come stai?》insistette Alice, pienamente consapevole che neanche stavolta avrebbe ricevuto risposta. Perciò si limitò a scompigliargli i capelli con un gesto affettuoso, si abbassò e gli diede un piccolo bacio sulla guancia. Poi fece per allontanarsi.
Dopo aver percorso qualche passo, non sentì più alcun rumore. Il pallone non rimbalzava più, e allora Alice si voltò.
Mele era fermo davanti a quell'albero, con le mani giù per i fianchi e la testa rivolta verso l'alto.
Seguì lo sguardo del bambino e notò il pallone incastrato tra le foglie e tra i rami di quell'albero.
Alice non era alta, no. Per niente. Tutti le davano almeno due o tre anni in meno di quelli che in realtà aveva. Sembrava una bimba, lei. Aveva un'aria sempre troppo smarrita, intimorita da chissà cosa. Chi poteva dirlo?
Tornò indietro e si sistemò accanto a Mele. Mise le mani sui fianchi e piegò di lato la testa, come a inquadrare meglio la situazione e capire come avrebbe potuto recuperare la palla.
Senza pensarci più di tanto, cercò di fare qualche salto per raggiungerla, ma era troppo in alto perché lei potesse arrivarci.
《Ora ti prendo in braccio, Mele》disse Alice, rivolgendosi al bambino.《Da sola non ce la faccio.》
Mele annuì, senza guardarla in volto. Si lasciò sollevare, e Alice lo alzò più che poté, finché Mele riuscì a toccare il suo pallone.
《Ce l'hai?》Cominciava ad avvertire lo sforzo dei pochi muscoli che aveva.
《Sì.》
Lo posò a terra, strofinandosi le braccia.
Il bambino la guardò, sorrise per un istante. Alice ricambiò, e d'un tratto il suo cuore parve sollevarsi, come se si fosse liberato di un piccolo sassolino di quell'enorme macigno di cui ormai era abituata a sopportare il peso.
《Mele!》
Una voce proveniva da una casa in fondo. La mamma di Mele stava richiamando il bambino. Probabilmente era già stato fuori da solo più del dovuto.
Senza dare alla madre la possibilità di un altro richiamo, Mele strinse a sé il pallone, diede un ultimo rapido sguardo ad Alice e, senza aggiungere altro, corse verso casa sua e raggiunse la mamma.

Seguì il solito percorso, andò per la prima stradina e camminò fino a quando non si fece ora di pranzo. Poi tornò indietro. Era già piuttosto tardi, e con sua madre anche un minuto risultava guadagnato.
Il sole batteva più forte, adesso. Erano le ore più calde, e Alice cominciava a sentire la fatica della corsa. Le gambe le facevano piuttosto male, e fu soltanto con un grande sforzo che riuscì a muovere qualche altro passo.
Ormai c'era quasi, e non poteva fare altro che continuare a camminare.
Arrivò a casa giusto in tempo per sedersi a tavola e mangiare. Finì e andò subito a farsi una doccia. L'acqua fredda le scivolava sul corpo caldo, e il getto d'acqua fitto e deciso seguiva le morbide linee delle poche curve che aveva.
Alice non amava particolarmente il suo corpo, e ogni volta che si spogliava, per lei era una dura lotta contro se stessa.
Quando andava a scuola, durante l'ora di ginnastica, negli spogliatoi le altre ragazze le sembravano tutte così perfette. Le guardava sempre con grande invidia. Le gambe lunghe e sfilate, le curve abbondanti e al posto giusto e quei profili perfetti le facevano venir voglia di sputare contro lo specchio ogni volta che ci si rifletteva.
Al contrario delle altre, aveva sempre fatto veloce, a cambiarsi. Non le piaceva mostrare il suo corpo. Sapeva che era brutto, sapeva che non valeva la pena farlo vedere, e l'unica cosa che poteva fare era togliere e mettere i vestiti il più velocemente possibile.
Uscì dalla doccia e rimase a fissarsi per qualche secondo allo specchio, voltandosi e rivoltandosi per cercare di trovare un'angolazione che la rendesse più o meno accettabile, ai suoi occhi, ma non la trovò. Così, sconsolata, si rivestì in fretta e andò in camera sua.

Quando ti ricorderai di avere un'amica, chiama.
Alice inviò l'SMS e lanciò il telefono sul letto. L'allegria della mattina, così come era arrivata, era sparita. Esattamente come Marco. Che fine avesse fatto, Alice proprio non lo sapeva. Erano tre giorni che non lo vedeva, né sentiva. E per quanto le costava ammetterlo, Marco le mancava da morire.
Da quando si erano conosciuti, erano sempre stati insieme, quei due.
Dalle scuole medie, non c'era giorno in cui Alice e Marco non si sentissero o vedessero. Questo, almeno fino a qualche tempo fa.
Ormai erano grandi tutti e due, e Marco, così come Alice, aveva i suoi impegni. Impegni che li avevano pian piano allontanati, ma non separati. Quello mai.
Potevano passare giorni, senza che si vedessero, ma non passava giorno in cui l'uno non era nei pensieri dell'altra. Entrambi erano reciprocamente necessari, e questo loro lo sapevano, solo che non lo ammettevano. Troppo orgogliosi per mostrare le loro debolezze, e troppo incapaci di comprendere che di debolezza ne avevano una sola, e ognuna portava il nome dell'altra.
Contrariamente al solito, e contrariamente a quanto Alice si aspettava, Marco non tardò a rispondere.
Il telefono squillò e Alice si catapultò sul letto, prese il cellulare e lesse il messaggio: 'Dopo cena sono da te.'
Sorrise, bloccò lo schermo, posò il cellulare sul pavimento, si rigirò nel letto e si addormentò.

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