- Capitolo Cinque -

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ATTENZIONE!!!

Ultima parte del capitolo non adatta a persone sensibili!
Non mi assumo nessuna responsabilità!

Sentivo il bisogno di sparire.

Più lei mi guardava con quello sguardo, più volevo scappare via. Mi strinsi nelle spalle facendomi piccola piccola, ma con gli occhi iniettati di sangue.
L'attesa mi faceva tremare, aspettavo la sua risposta con un peso sul cuore.

«Felicity sai come stanno le cose.
È inutile continuare a insistere. Verrai con noi, finirai il liceo e ti sposerai con lui.
Non ci sarà nulla che ci farà cambiare idea. Nulla. Fattene una ragione!
Questo è quanto!» disse alzando la voce piano piano.

Il mio mondo crollò.
Tutta la speranza che avevo rinchiuso in quella semplice proposta, svanì.

Mia madre appoggiò con una delicatezza disumana il bicchiere di vino rosso sull'isola della cucina e molto lentamente, come se lei fosse una leonessa ed io una preda, si avvicinò.

Quando le sue scarpe con tacco dodici toccarono la punta delle mie ciabattine preferite, pensai subito che volesse colpirmi.
Ero poco più bassa di lei, non avevo ancora compiuto la maggiore età, mancava qualche mese, ma nonostante ciò, l'altezza era sempre stata un punto a mio vantaggio nella vita.

Tranne ora.

Si abbassò per sussurrarmi all'orecchio, senza alcun timore. Come se io non fossi già sul punto di non ritorno.

Sapevo che non aveva finito con me, che c'era ancora qualcosa che doveva dirmi.
Come una sentenza, la conoscevo troppo bene.

E come immaginavo, non si fece attendere.
Sputò le sue ultime parole come se avesse appena mangiato una mela marcia.

«Tutto questo l'hai voluto tu, sei stata tu a metterti e a metterci in questo casino. Soltanto tu.
Le conseguenze delle tue azioni sono state la tua condanna.»

Scagliò la sua freccia intrisa di veleno dritta al mio cuore.
Cercai di trattenere le lacrime e mi feci forza per cercar di non essere più patetica di quanto potessi dimostrare.
Tirai su col naso, strinsi la lingua sotto i denti, abbassai lo sguardo e mi pizzicai dietro il gomito con due dita.
Feci di tutto per non cedere.

Sapevo che aveva ragione, sapevo che la colpa era solo mia.
Eppure ero sicura che loro mi avrebbero salvato dal mio destino segnato.

Dovevo resistere, avrei sfogato tutta la mia rabbia solo in camera, ma era davvero difficile trattenersi.

Il dolore era enorme.
Forte, acuto e rimbombante.

Avete mai provato un dolore che vi squarcia dentro? Un dolore causato da una vostra scelta?

Vi siete mai sentiti impotenti, ma talmente impotenti, da sentirvi morti dentro?

Cazzo io sì, proprio adesso.
E faceva un male cane.

Decisi in quel momento, che i miei genitori per me erano il nulla.
Era tutto finito.

Avevano fatto la loro scelta due anni fa, ma io speravo che si fossero ricreduti dopo tutto questo tempo.
Invece non era così ed ero una stupida perché non riuscivo ad accettarlo.
Perché io credevo in loro fin da piccola.
Nonostante l'affetto mancato, i "ti voglio bene" mai detti, io sapevo che per loro ero tutto insieme alle mie sorelle.
Ero stupida e ingenua.

Loro avrebbero dovuto accettare il mio volere, adesso.
Da ora in avanti non mi sarei più aspettata nulla.

Dopo questa breve riflessione, annuì, girai su me stessa e tornai in camera.

Dentro di me sentivo il caos.
Una furia cieca cominciò a ribollire nelle mie vene mentre salivo le scale e camminavo per il corridoio.
Tutto il mio corpo tremava e all'improvviso un fuoco si propagò come se fosse lava.
Cominciai ad accelerare il passo quando la disperazione s' impossessò di me.

Aprii la porta della mia camera e la sbattei con tutta la forza che avevo.
Vedevo nero perché nulla aveva più senso.
Cominciai a rovesciare qualsiasi cosa trovassi davanti a me.
Gridai, scaraventai i miei libri a terra, spazzolai con un gesto di mano la scrivania piena della mia collezione di conchiglie.

Aprii l'armadio e buttai a terra tutti i miei vestiti, borse, pantaloni, maglioncini.
Rovesciai la mia toeletta, dove di solito mi sedevo per truccarmi e pettinarmi.

La mia anima era dannata.
Ormai, l'aveva contaminata con le sue mani.
Ero una bestia in gabbia senza via di fuga.

Cosa avrei fatto una volta a Sacramento?
Cosa mi avrebbe fatto lui?

Solo pensarlo, immaginare le sue braccia, le sue dita mentre mi toccava la parte più sensibile, mi faceva venire da vomitare.

Un conato si issò dal mio stomaco e corsi in bagno inciampando nelle cose che avevo buttato a terra.

Fortunatamente papà, tra la camera delle mie sorelle e la mia, aveva fatto costruire un bagno comunicante solo per noi.
In quel momento lo ringraziai mentalmente.
Aprii la porta e feci appena in tempo a rigettare quel poco che avevo in corpo.

Mi sedetti ai piedi del water, appoggiai la testa alla doccia e mi presi i capelli.
Li tirai, volevo staccarmeli tutti.

Forse magari così non mi avrebbe accettato come sua moglie, pensai.

La psicologa che avevo visto per diverso tempo non sarebbe stata contenta né del mio stato né di come stavo reagendo alla situazione.

Ma cazzo nemmeno lei poteva salvarmi e a questo punto nessuno poteva farlo.

Un pensiero oscuro mi balenò in testa per la seconda volta in tutta la mia vita.

No, no, no Felicity no.

La mia coscienza aveva già capito.
Con un balzo mi alzai e cominciai a frugare in ogni cassetto.

Dove erano?
Per ultimo, cercai nel ripiano di mia sorella, dove teneva tutte le sue cose per fare la ceretta.
Bingo!

Le forbici rosa con la punta affilata erano un richiamo alla mia disperazione.

In fretta le presi e mi allungai nella vasca.
Guardai il mio polso, vene di un blu e verde acceso brillavano come luce alla fine di un tunnel.
Guardai le forbici e poi ancora il mio polso.
Dovevo farlo per me, volevo essere libera e quella era l'unica via di uscita.

Dovevo farlo per me, volevo essere libera e quella era l'unica via di uscita

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