Prologo

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Dicono che quando subisci un trauma dimentichi gli attimi, piccoli segmenti di momento in cui non riesci a rimanere consapevole. Succede, e tu sei lì in balia di quell'istante, quel secondo in cui può succedere qualsiasi cosa.
E lì Dio sembra non esserci. Non c'è lui, non ci sono gli angeli, nessun miracoloso salvatore a tirarti fuori dai guai. No, quella notte non c'era nessuno.
E forse non doveva nemmeno esserci.
Ero stata la vittima di un eccesso oltre il limite possibile, ubriaca di sensazioni, febbricitante d'aria fresca, di qualcuno che finalmente mi avrebbe aperto la bocca a forza per permettermi di cominciare davvero a respirare la libertà, come un qualcosa che non avevo conosciuto per vent'anni.
Ci sentivamo invincibili.
Quando ti senti incontrollabile, irrefrenabile, irreprimibile, riassumi tutto nel termine 'invincibile', perché era questo che eravamo io e lui quella notte: due semi sconosciuti illuminati soltanto dalla luce fioca di un lampione di Barcellona, sotto il cielo di una torrida estate che non dava tregua nemmeno di notte, indecisi su come continuare la serata.
Il caso è balordo. Avrei potuto rifiutare l'invito, rifiutare di parlarci, rifiutare, la sera precedente, di andare in quel locale; ancor più indietro, avrei potuto scoraggiare le mie amiche nell'andare a Barcellona. Del resto, c'erano Madrid, Valencia, Lloret De Mar, le opzioni erano infinite. Eppure, alla fin fine era andata così.

Dicono che quando subisci un trauma dimentichi gli attimi, sì, può essere, ma io ricordo tutto. Lo ricordo come un'antica fotografia sbiadita, come se avessi immagazzinato nel mio cassetto dei ricordi tutta la scena, ma in colori tenui, cupi. Come se fosse una scena da film, con io che sporgo dal finestrino dell'auto per metà, gridando, urlando scemenze, mentre il mio cellulare squilla, squilla e squilla ancora. "Sarà mio padre che chiama" avevo detto, liquidando la gravità della situazione in una semplice affermazione. "Ho vent'anni, non so ancora perché fa così" avevo aggiunto. Lui rideva, rideva di gusto, mi guardava con gli occhi di una gazza ladra, scintillanti, lucenti, come se il gioiello più prezioso fossi io e ora che ero lì con lui, non necessitava d'altro.
Ci conoscevamo da meno di quarantott'ore e, per un qualche scherzo del destino, eravamo finiti a sfrecciare lungo le strade, con il trambusto dei locali che quasi sovrastava il suono della radio. Poi era arrivato l'odore invitante del mare, la salsedine così prorompente che se tiravi fuori la lingua per un piccolo frammento di tempo, ti ritrovavi a sentire in bocca il sapore di sale. Avevamo parcheggiato alla bell'e meglio, ubriachi l'uno dell'altro e ubriachi di alcool, ci eravamo tolti i vestiti e tuffati nell'acqua gelida, così fredda da ritrovarmi avvolta tra le sue braccia forti.
Mi girava la testa, ma in quel momento pensavo più che fosse il mondo a girare attorno a noi. Eravamo noi ad essere il centro di tutto.
E poi di nuovo corse folli in auto, i clacson dietro di noi che ci ammonivano, qualcuno gridava di star attenti, ma noi ridevamo, e quello bastava a sovrastare tutto il resto. Pensavamo di liquidare tutto con un movimento allegro delle labbra.
"Guida tu" mi aveva detto, mentre ci addentravamo verso il centro città. Ricordo di avergli risposto "No! Assolutamente no!" Per poi dargli un buffetto sulle guance ancora bagnate. Mi aveva preso per i fianchi, tirato indietro il sedile, tolto la cintura e fatto posizionare sul suo grembo.
"Tu pensa al volante, io ai freni"
Avevamo continuato così, fradici dalla testa ai piedi, i miei capelli appiccicati sul suo petto, come se non volessero per nessun motivo staccarsi da lui.
Invincibile. Libera.

E poi il caso, ancora. Ricordo di essere tornata al mio posto nell'auto, stanca e con le braccia ridotte a due gelatine. "Quanto è duro questo volante?" Gli avevo chiesto, aggrottando le sopracciglia e fingendomi addolorata. Lui, nonostante quello sguardo, aveva continuato a sorridere. Credevo che quegli occhi tendenti al mandorla e quelle labbra carnose non mi avrebbero stancata mai.
Del resto, era solo l'inizio, no?
E poi, come se il mondo fosse in ascolto e avesse deciso che quella domanda era un enorme stupidaggine, lo schianto.
Il vetro anteriore infranto, il cruscotto spaccato. Io, immobile, appuntata al sedile. Avevo rimesso la cinta poco prima, e così anche lui.
L'airbag così grande da soffocarmi, lui che cercava la mia mano.
L'odore di fumo opprimente, il rumore dei pezzi di vetro che si stavano staccando a poco a poco.
Stavamo bene.
Ancora vetro, sta volta fuori dall'auto. Avevamo fracassato una vetrina. Una gioielleria, sembrava.
"Vattene"
"Cosa?"
"Vattene"
"Dobbiamo chiamare..."
"No!" I suoi occhi di corvo si erano ridotti a due fessure. "Farò finta di rubare questi gioielli" aveva detto, avvicinandosi alla vetrina. "Sono ubriaco, con una macchina non mia, e tu" mi aveva messo una mano insanguinata sulla guancia "Tu... Sei stata con me tutto questo tempo. Meno sapranno, meno ne sarai coinvolta"
Avevo tentato di parlare, ma mi aveva messo una mano sulla bocca.
"Vattene, Deva"
"Pensi di andare in prigione per guida in stato d'ebrezza? Oh, ma perfavore. Però, non peggiorare la situazione, togli questi gioielli" con un gesto della mano, erano tutti caduti a terra.
"Pensi di sapere tutto, eh? Vattene, prima che sia troppo tardi. Dirò che non eri con me". Mi aveva spaventato, in quel momento. "Andrò dentro" aveva concluso, come se avesse già deciso da solo la sua sorte. In effetti, non sapevo molto di lui.
"Non me ne vado". Che stupida sciocca.
L'eco delle sirene in lontananza. Non c'era nessuno attorno a noi, nessun testimone. Eppure sapevo che sarebbero arrivati presto.
"Vattene"
Poi uno spintone, così forte da farmi barcollare. "Vattene. Ora". Di nuovo, poi lo sguardo di chi si era reso conto che mi stava facendo soffrire. "Deva, ti prego" aveva continuato, più docile, quasi al limite della sopportazione.
Non potevo abbandonare chi mi aveva fatto sentire libera.
Ricordo che poi, aveva preso un bel respiro. "Non mi conosci. Non conosci un cazzo di me. È stata una serata, ci siamo divertiti, ora vattene"
Dunque, non era significato niente.
Gli avevo voltato le spalle. "Grazie. Per questo attimo che siamo stati noi due". Suonava come la frase di una sciocca. Non aveva nemmeno risposto, già intento a fingere un qualcosa che l'avrebbe messo solo più in difficoltà.
Stava proteggendo me. La ragazza di una serata, a detta sua.
Con i piedi che sembravano non voler procedere verso il vicoletto alla mia destra, mi ero fatta forza.
Nessun bacio d'addio. Nessuna carezza.
Non avevo più saputo niente di lui. La mia famiglia aveva fatto sì che quel ricordo fosse cancellato, che il nostro processo - dato che ero comunque stata beccata - fosse svolto separatamente, chissà per quale strano motivo. Era illegale, eppure mio padre, a quanto pareva, poteva tutto.
Non ho mai saputo se fosse stato arrestato, o no.
Nonostante ciò, sono dell'idea che da certe cose non ne esci, che non puoi dimenticare chi ti ha fatto assaggiare la libertà. Seppur finendo per farsi male, seppur raggiungendo il peggior scenario possibile.

Presi la penna sul comodino, interrompendo quel flusso di ricordi immersa in un mare di lenzuoli e cuscini nella mia camera.
Anche se non mi hai mai voluta davvero, anche se è stata una scappatella adolescenziale, anche se tutto ciò potrebbe non aver avuto un senso, il prossimo fine settimana tornerò in quella città. Nella città che spero abbia ancora il tuo sapore.
Ovunque tu sia.
Sempre se ti ricordi ancora di me.

Tua, invincibile, Deva

Se fosse sbagliato rivolgermi ancora a lui, dopo quattro anni, come se stessi scrivendo delle lettere personali, se fosse sbagliato pensare a un incosciente, un ragazzo che avrebbe potuto rovinarmi la vita ancor di più di quanto non lo abbia già fatto, ancora non lo sapevo.
Ma una cosa la so. Nonostante la mia vita piatta, il mio seguire le regole, la mia accondiscendenza in tutto, non ho mai amato i punti interrogativi.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 10 ⏰

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