Nessuno è così tanto stupido come noi esseri umani. Trascorriamo un tempo infinito a lamentarci, a lagnarci, a concentrarci esclusivamente su ciò che vorremmo avere, senza nemmeno renderci conto di ciò che già abbiamo.
Sempre in cerca di qualcosa: bellezza, ammirazione, denaro, amore.
Sempre alla ricerca della vita perfetta.
Beh, io l'avevo.
Una vita perfetta, una vita straordinaria, la mia vita.
Fino all'età di 24 anni.
Fino a quel maledetto giorno.
Da allora, nulla fu più come prima.
Mi chiamo Abigail, Abigail Peterson e questa è la mia storia.
6.30 del mattino. Un lampo di luce squarciò il cielo e un boato fragoroso fece tremare le pareti della casa.
"Un'altra bella giornata!" esclamai con tono sarcastico, guardando le gocce di pioggia che scendevano lungo le grandi vetrate del soggiorno.
Non sembrava affatto marzo.
Eppure, un clima del genere era del tutto normale in Pennsylvania. Quella mattina però il tempo sembrava dare il meglio di sé.
Il cielo grigio terso faceva da sfondo all'intero paesaggio come una vecchia foto in bianco e nero. La pioggia era incessante. Con il suo scroscio deciso e irruente pareva volesse scandire il tempo, il quale si inchinava di fronte al ritmo dispotico delle singole gocce. Tutto proseguiva a rilento. I minuti, le parole, i gesti. Ogni cosa si piegava alla circostanza, appisolandosi nel proprio ozio, in attesa che un audace raggio di sole facesse capolino da qualche lembo di nuvola.
Ed io stavo lì, ferma, in piedi accanto al divano a fissare l'esterno. Non mi era mai piaciuta la pioggia. Detestavo perfino quell'odore di erba bagnata che impregnava l'aria per giorni. Eppure, per quanto non amassi quel tipo di clima, non potevo negare di esserne affascinata. Fissavo i rami dell'acero rosso, al centro del giardino, tremare insieme alle foglie che, per la forza del vento, sembravano potersi staccare da un momento all'altro. Qualcosa caratterizzava quegli istanti. Qualcosa che nemmeno io riuscivo a spiegarmi. L'insistenza della pioggia, il boato dei tuoni. Era come se la natura avesse deciso di prendersi una pausa, un momento di pura libertà prima di tornare alla vita di sempre."Abigail muoviti altrimenti farai tardi!".
Odiavo quel nome. Chiunque mi conoscesse era solito chiamarmi Abby. Nessuno pronunciava il mio nome per intero. Nessuno tranne mia madre quando voleva rimproverarmi.
"Siii eccomi, adesso arrivooo" risposi, alzando gli occhi al cielo.
"Sei sempre in ritardo! Lo sai che il treno non ti aspetta vero?!".
Non aveva tutti i torti: la puntualità non era di certo il mio forte.
Indossai il cappotto e gli stivali neri, presi la borsa, le chiavi dell'auto e mi accinsi ad uscire.
"Non dimenticare l'ombrello!"
"Tranquilla mamma, è nella borsa" risposi mentre mi accingevo ad uscire.
Appena fuori casa, una folata di vento mi scompigliò i capelli, facendomi rabbrividire.
Pensai al mio letto, alle morbide coperte e a quanto avrei voluto tornare a sdraiarmi al caldo sotto di esse. Ma avevo degli impegni da sbrigare e non potevo di certo tardare.
La cittadina di Claysburg distava soltanto 18,5 miglia dalla stazione ferroviaria di Altoona.
In effetti sarebbe stato più corretto definirlo paesino dal momento che la popolazione complessiva si aggirava intorno ai 1600 abitanti.
Ed è qui che vivevo, insieme alla mia famiglia: mia madre Natalie, mio padre Lawrence e un volpino di taglia media di nome Billy.
Mi era stato regalato dai miei genitori all'età di 12 anni e, da allora, non me ne ero mai separata. Tranne ovviamente quando dovevo recarmi all'università.
A questo proposito, avevo optato per la Penn State, dove mi ero iscritta alla facoltà di Lingue e Letterature straniere.
Dal momento che i risparmi di famiglia non bastavano a coprire i costi di un alloggio all'interno del campus, mi alzavo ogni mattina presto per raggiungere la sede universitaria.
Guidavo per circa mezz'ora fino alla stazione ferroviaria, dove mi aspettava un viaggio di circa un'ora e mezza.Mi piacevano i viaggi in treno. Mi consentivano di ripassare prima di un esame importante oppure semplicemente di liberare la mente da ogni tipo di pensiero.
Mi sedevo sempre accanto al finestrino, appoggiavo la testa sullo schienale e lasciavo che una serie di immagini mi scorressero davanti agli occhi come un cortometraggio.
Altre volte, invece, mi divertivo ad osservare i passeggeri, cercando di carpire indizi sulle loro vite o sulla destinazione prescelta.
Quella mattina ero parecchio assonnata e preferii chiudere gli occhi in quello che sembrò un momento. Fui svegliata da una signora sulla sessantina che mi ricordava di dover scendere essendo giunti al capolinea.
Ancora abbastanza frastornata, mi ricomposi, presi le mie cose e mi diressi verso gli scalini.
Esattamente di fronte alla stazione ferroviaria, era parcheggiato un vecchio autobus giallo scolorito. Sembrava uno di quelli che apparivano nelle sit-com americane. Anche l'autista pareva uscire da un cartone animato.
"Ehi Ralph, come va?".
"Abby! Come al solito, sempre qui a lavorare! D'altronde cosa potrei fare?" rispose ironicamente l'omaccione sterzando il volante.
Risi. Ralph era una di quelle persone che riusciva sempre a strapparti un sorriso.
A prima vista poteva incutere un po' di timore considerando la sua robusta corporatura ma in realtà era la persona più buona del mondo. Borbottava sempre di come la sua ex moglie, una certa Francis, lo avesse tradito con un agente immobiliare, ripulendogli il conto in banca e costringendolo a lavorare come autista per tirare avanti. Il tutto ovviamente non privo di battute e frecciatine verso la sua adorata ex coniuge.
Così, per ben 10 minuti di tragitto, rallegrava gli studenti facendo loro scordare, anche solo per un attimo, i successivi impegni, prima di condurli a destinazione: il Penn State Smeal College of Business.Fondato nel 1953, la sua sede, il Business Building, appariva come un'enorme struttura di circa 210 mila piedi quadrati situata all'estremità orientale del campus.
La caratteristica principale dell'edificio era l'immensa presenza di grandi vetrate che rivestivano ogni singola parete. Sembrava un vero e proprio palazzo di cristallo.
In alcuni particolari momenti, quando il sole decideva di fare capolino tra le siepi, si poteva assistere a uno spettacolo a dir poco magico. I raggi, attirati dalla limpida lucentezza, rimbalzavano sulle finestre, dando vita a una danza di colori emozionanti. Quello che a prima vista sembrava impercettibile, quasi spento, appariva vestito di luce, di nuova vita. Il chiarore accarezzava dolcemente gli alberi, le siepi, l'erba umida, il legno delle scrivanie, i volti delle persone. Ero rimasta impressionata la prima volta che avevo assistito a quello spettacolo. Adoravo stare in mezzo alla natura e, per mia fortuna, il campus in cui mi recavo ogni giorno, il Penn State University Park, rappresentava l'area verde più estesa dell'intera accademia.
Sfortunatamente, quel giorno il clima era totalmente l'opposto.
Salutato Ralph e scesa dall'autobus, entrai nell'edificio. Nonostante avessi l'ombrello, ero bagnata fradicia. Le raffiche di vento erano talmente forti che qualunque oggetto utilizzato come riparo pareva inutile. Cercai di sistemarmi i capelli arruffati e mi diressi verso la scalinata interna.
Quella mattina la lezione si teneva nell'aula B210 al secondo piano. Salii velocemente i gradini quando sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla.
"Ehi Abby!!" disse una voce alquanto squillante.
"Clairee! È da un sacco che non ti vedo!" risposi, abbracciandola.
"Eeeh lo so, da quando ho cambiato facoltà non abbiamo molto tempo per vederci ma ogni tanto riusciamo ancora a incontrarci. Ora però devo scappare altrimenti farò tardi di nuovo! Ci si vede in girooo!".
Scoppiai a ridere. Ci eravamo conosciute al primo anno di università in quanto iscritte agli stessi corsi ma poi, sostenuti alcuni esami, Claire aveva capito che non facevano al caso suo e aveva optato per un'altra facoltà.
Tuttavia, continuavamo a vederci di tanto in tanto. Quando ciò succedeva il luogo prescelto non poteva che essere uno soltanto: il Berkery Creamery.
A pochi minuti a piedi dalla nostra sede, si ergeva probabilmente la più grande gelateria di tutto il campus. Era incredibile come riuscisse a essere affollata a ogni ora del giorno e talvolta perfino della sera. Al suo interno gruppi interi di studenti, professori e assistenti si muovevano freneticamente come colonie di formiche alla ricerca del perfetto gusto di gelato o della migliore miscela di caffè.
Adoravo quel posto. Qualche pomeriggio, dopo le lezioni, io e Claire eravamo solite sederci a uno dei tanti tavolini all'aperto, tempo permettendo.
Tra risate e tazze di cioccolata, passavamo ore intere a chiaccherare. Claire era una persona squisita. Impossibile non ridere con lei persino se quel giorno avevi la luna storta.
"Eccola! È questa la troia di cui ti parlavo!! Ti rendi conto?! Tradirmi con una che ha una faccia del genere!" urlò una volta, mostrandomi la fotografia di una ragazza.
"Claire non urlare cavolo, ti guardano tutti!" la rimproverai subito, avendo notato la reazione alquanto scioccata di un'inserviente.
Claire era fatta così. Spontanea, energica, fuori dagli schemi, una vera e propria scarica di adrenalina. Ovunque andasse attirava gli sguardi della gente per qualche parolaccia di troppo o alcuni suoi comportamenti bizzarri. E il bello è che a lei non importava.Ripenso spesso ai quei momenti. Studio, esami, ragazzi, per un attimo mi fanno dimenticare ogni cosa.
Entrai in aula e mi sedetti in terza fila, ignara di quello che di lì a poco sarebbe accaduto.
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L'altra me
General FictionAbigail è una ragazza come tante. Introversa, timida, sensibile con una vita assolutamente normale. Ma ancora non sa che tutto sta per cambiare. Qualcosa di terribile sta per accaderle. Qualcosa che non avrebbe mai immaginato nemmeno nei suoi pegg...