Scendeva dall'aereo indifferente del motivo per cui era tornato in quella terra. Guardava attorno gli occhi degli altri passeggeri, li guardava male, li odiava anche se non li conosceva e non gli avevano fatto niente. Controllava il telefono ogni due minuti, ma tanto in quel posto non c'era campo e non ce ne sarebbe stato, non poteva uscire dalla realtà con ciò che internet gli offriva. Quell'aeroporto minuscolo stava lì solo per pietà di quella gente, per fargli credere di essere al pari col mondo, ma non era così, questo lui pensava attraversandolo, dirigendosi verso il punto in cui si prendono i bus. Disprezzava ogni cosa: il motivo per cui era lì, quello che vedeva attorno, le persone che si abbracciavano e sorridevano, disprezzava le emozioni che in quell'aeroporto si rendevano traccia di un'umanità secondo lui più primitiva, che più concerneva con epoche passate, che coincideva con l'ignoranza della gente e con un'inferiorità culturale che lo rendeva superiore ad ogni essere umano gli si presentasse davanti. Per quel luogo lui era troppo. Così disprezzava ogni momento, perché nel fondo sapeva che lì il tempo per lui era solo perso.
- Non hanno neanche i soldi per accendere i lampioni?-
Poneva questa domanda ad alta voce senza rivolgersi a nessuna e quindi a tutte tra quelle persone che gli stavano intorno. E non gli importava degli sguardi indispettiti che riceveva, loro non erano niente in confronto a lui e lui doveva farglielo notare a tutti i costi. E quel buio, solo spezzato da una lucina sul cartello con sopra il nome dell'autobus che doveva raccogliere tutta quella gente, rendeva possibile la vista della via lattea, ma lui non la guardava, dava un colore al silenzio, di cui lui non capiva l'intimità e cullava lo sguardo, se solo lui l'avesse volto in lontananza e non su quello schermo che non dava risposta, in un infinito di forme che in quel buio potevano celarsi e svelare più di chi le guarda che di loro stesse.
- Ha tardato di dieci minuti, riceverà un reclamo.-
Così salutò l'autista del bus che nulla gli aveva risposto e sedutosi nel suo posto scrisse e tentò di inviare quel reclamo alla ditta di trasporti, ma non poteva, non aveva linea.
Nel tragitto vide la notte in diversi paesi, tutti ignoti perché immersi nel buio. Fermata dopo fermata la gente scendeva, affidandosi alla memoria per scegliere il posto giusto in cui scendere, nessuno sembrava dubbioso.
- Io devo scendere a Cremisi, ma con questo buio non si vedono i cartelli. Me lo dice lei quando arriviamo?-
Lo disse urlando dal suo posto in fondo, col bus ormai vuoto, all'autista che taceva e avrebbe continuato a tacere. Dopo un'altra mezz'ora il veicolo rallentò e si fermò.
- Sono arrivato? Devo scendere?-
Nessuna risposta dall'autista, però lui era il solo passeggero rimasto, quindi dedusse che fosse il suo momento di uscire dal bus. Si alzò, prese la valigia e si diresse verso la prima uscita del bus, per passare accanto all'autista.
- Conosce uno stello nelle vicinanze? Non so dove passare la notte, sono dovuto tornare in questo paese da un giorno all'altro.-
Nessuna risposta.
Il viaggiatore scese dal bus, l'autista fece per chiudere le porte del veicolo e lui subito bloccò con la valigia la porta da cui era appena uscito.
- Mi scusi, sarebbe molto gentile se lei si degnasse di rispondere alle domande che un passeggero le pone. Non è affatto professionale, dalla sua posizione, ignorare le domande di un fruitore del servizio che lei sta offrendo.-
- Sono in ritardo.-
Rispose così, forzando il pulsante che governa la chiusura delle porte, scaraventando fuori dal bus la valigia del viaggiatore, che non sapeva come reagire a quello che era appena successo. Andato via il bus, solo, lui era ora parte di quell'oscurità che avvolgeva tutto, lui era una forma tra le tante che si potevano celare in quel vuoto nero. Non vedeva confini, non vedeva case, porte, alberi, vedeva solo la via lattea incorniciata dalle ombre nere dei tetti che apparivano come delle geometrie bidimensionali dipinte di nero. Una chiazza nera che tutto avvolge e in alto tutte le stelle, erano anni che non viveva una realtà simile e ora la vedeva solo come un affronto alla sua persona, sentiva la mancanza delle luci artificiali che fanno diventare chiazza nera il cielo e tutto descrivono del suolo in cui si sta camminando.
E quella tanto desiderata luce artificiale si fece avanti: si accese un'insegna un po' più in là del punto nel vuoto in cui si trovava lui. "Stello del viaggiatore", lesse chiaramente nell'insegna quello che gli serviva e che più lo rappresentava. E come falena attratta da quella luce cercò salvezza nell'unica cosa che gli si mostrava.
In una casa non lontana dalla fermata del bus una ragazzina di quindici anni finiva di cucinare per il padre che tornava dal suo secondo lavoro.
Dieci minuti dopo il padre aveva in mano il dildo di silicone della figlia e glielo sbatteva in faccia. Un ottima umiliazione finale dopo un pestaggio durato poco più di sei minuti, preceduto ancora da una totale rasatura della testa. Pelata, o meglio dire con chiazze di capelli irregolari sulla testa, piena di lividi e sangue e con il padre che con le gambe la bloccava sul pavimento, giudice ed esecutore del martirio che stava subendo, la figlia accettò in quel momento tutto ciò che stava accadendo come meritata conseguenza di quello che spesso il padre le ripeteva di avere commesso. Non poteva sapere che il genitore le controllava ogni giorno tutti i cassetti della stanza e che avesse trovato, proprio quel giorno, quel particolare regalo di compleanno che un'amica la mattina le aveva dato, un po' per ridere un po' per crescere. A venti minuti esatti l'uomo si alzò da terra, riconsegnando il gioco sessuale alla figlia, che distesa e scarlatta guardava in alto, il soffitto era bianco e lei lo stava vedendo: era ancora viva, era sopravvissuta, quella sera. C'era ancora la musica blues che metteva lei quando cucinava, e su un capo di quel tavolo lungo e schizzato di lei, sedeva l'uomo che affamato divorava con le mani la bistecca. Con mani sporche di due sangui diversi, leccava le dita noncurante, tanto di ferro sapeva il tutto, e l'odore già lo sentiva. Quindi che senso aveva non gustarne anche il sapore? Stanca di riposare a terra la figlia si alzò, gocciolante diede la buonanotte al padre e lasciando mollichine rosse da lì fino alla camera, fu felice di riuscire a camminare ancora. "Grazie del regalo" rispondeva al messaggio dell'amica, non vedeva l'ora di usare quel dildo, ma qualcosa la turbava. Accettava le conseguenze del danno che aveva causato al padre, era giusto che lui la picchiasse, che le facesse provare quello che lui aveva provato, ma si sentiva sempre più debole di giorno in giorno e ogni volta che il padre le faceva violenza era sempre più intenso, sempre più lungo l'atto. Si affacciò sul balcone, pensierosa. Quel buio immenso dato da un inesistente rete di lampioni le permetteva di vedere la via lattea e ogni sera che il padre la picchiava lei si affacciava, curando le ferite e guardando in alto, sentendosi parte, nel dolore, di qualcosa di più grande.
- Lo sento quindi sono. Esisto, lo provo. Il mio sangue è la mia vita; se non la vedo come faccio a sapere che scorre dentro me?-
Lo diceva ogni volta, ci credeva ogni volta, lo sapeva, che era falsa con se stessa.
- Buona sera, so che è molto tardi ma vorrei sapere se avete camere disponibili per stanotte. Ovviamente voglio dormire da solo, non esiste che mi si venga messo in stanza qualche barbone.-
La stanza d'ingresso di quello stello era semplice e la luce gialla invecchiava e addolciva l'ambiente. Dall'altro lato del bancone una donna bionda con dei boccoli e un abito da inserviente azzurrino sorrideva al viaggiatore mostrando tutti i denti che era anatomicamente possibile mostrare.
- Si, si certo. Come vuole lei.-
Disse questa frase sempre sorridendo, non chiuse mai le labbra, né gli occhi, che azzurri ftalo e fissi sul cliente sembravano assenti e violenti. Il viaggiatore si soffermò per un attimo sulla pelle della donna: quasi sembrava le sue rughe formassero la forma di squame proprie di altre specie, ma subito rimproverò la sua maliziosità e non disse nulla a quella, che intanto continuava a sorridere guardando ora il computer, bloccata, senza digitare nulla, quasi fosse una persona con un IA al posto del cervello, che aveva bisogno dei suoi tempi per calibrare le risposte e controllare i posti disponibili. Il viaggiatore si sentì preso in giro vedendo la donna ferma e sorridente da diversi minuti quasi bloccata in standby.
- Scusi, ha intenzione di accompagnarmi alla stanza?-
- Si, si certo. Come vuole lei.-
finalmente il suo sorriso si placò e contemporaneamente iniziò a camminare, superando il bancone della reception, noncurante del fatto che il viaggiatore la seguisse o meno. Salendo due rampe di scale, attraversarono un corridoio lungo e tutto illuminato sempre da luci gialle molto calde, arrivarono davanti una porta, la stanza non aveva numero. Riapparve quel sorriso.
- Sarebbe questa la mia stanza? Posso entrare?-
- Si, si certo. Come vuole lei.- e aprì la porta al posto dell'uomo. - Per qualsiasi cosa le dovesse servire, io sono Luce, può chiamarmi in qualsiasi momento.-
- Dubito che avrò bisogno di qualcosa da una dipendente di uno stello, certo a meno che non ci siano dei problemi in stanza, in quel caso non tarderò a chiamarla.-
Il viaggiatore entrò nella stanza e chiuse subito la porta, liberandosi di quella strana donna che non gli sembrava neanche degna di essere rimorchiata.
Si tolse le costose scarpe, poggiò il portafogli con tutte le carte sul comodino e si sedette sul letto buttando via un lungo respiro, che teneva da tutta la sera per lo stress che quel luogo gli causava.
Gli passò davanti un coniglio nero, che saltellante odorava in giro e curioso si fermava ogni tanto guardandolo con gli occhi lucidi di un bambino.
- Ma che cazzo ci fa un coniglio nella mia stanza! Luce! Luce!- a passo furioso si diresse verso la porta e con tutta l'arroganza che aveva in corpo prese la maniglia e abbassandola tirò per aprirla e..
- Oh madonna!-
Luce era proprio lì davanti a lui, eppure non aveva sentito i passi di lei arrivare, con il sorriso fisso e gli occhi ftalo spalancati la donna era immobile in attesa di ordini. Al viaggiatore sembrò di notare, sta volta più di prima, che le rughe della donna sembrassero squame e quasi un ombra verdognola si intravedeva nel colore della sua pelle.
- Ehm, c'è un coniglio nella mia stanza.- lo spavento lo aveva reso quieto e un po' intontito dalla scena prese il coniglio nero, che per nulla si oppose, e lo passò a Luce, che ora muoveva i suoi occhi guardando l'animale e lo prendeva nelle mani, appoggiandolo al suo petto, come si fa con i bambini.
- Si, si certo. Come vuo...-
Richiuse la porta prima che lei potesse finire e si rimise a letto, decidendo di non riflettere troppo sull'accaduto, certo aveva visto cose strane e quella donna non gli piaceva per niente, ma aveva chiuso a chiave la porta. E poi lui era un uomo. Cosa mai gli sarebbe potuto capitare? Gli squillò il telefono, la scritta "Padre" gli fece sostituire i pensieri che nella testa gli si stavano formando su quello stello con degli altri pieni di risentimento e rabbia, il suo disprezzo per quell'uomo era tanto quanto quello che aveva per quella terra e rispose quindi con lo stesso odio che gli dedicava ogni volta.
- Ti ho detto che non ci dormo in quella tua casa da poveraccio! Ci vediamo direttamente domani al funerale! E se continui a chiamare forse domani ce ne saranno due di casse da portare!-
- Si, si certo. Come vuole lei-
Un balzo d'impulso lo colse e lo alzò da quel letto. La voce, le parole, il nome sul telefono che ora recitava "Luce". Ma che stava succedendo? Aveva giurato di aver visto la dicitura "Padre" e poi lui non aveva lasciato il numero di telefono a quella donna, né aveva salvato quello di lei in rubrica. Chiuse subito la chiamata e decise definitivamente di uscire da quello stello, aveva paura ora. Rimise le costose scarpe, prese il portafogli con tutte le carte, valigia alla mano e aprì la porta. Quel momento fu il più lungo di tutta la sua vita. Davanti alla sua porta, per il tempo che ci vuole a sbattere le palpebre, lui vide, in una vecchiaia che non aveva conosciuto, sua madre che lo fissava con gli occhi ftalo e il sorriso fisso di Luce. I capelli arancioni erano ingrigiti rispetto a quando se ne era andato, la pelle era quella di una vecchia, ma nessun figlio è mai troppo distante da non riconoscere sua madre quando la vede. Poi chiuse e riaprì gli occhi e quella visione tornò a ad essere la donna che lo aveva accolto in quello stello. Ora, innegabilmente, la sua pelle era di un disgustoso verde ed era attraversata da squame lucide, quasi unte e i suoi denti erano più piccoli e appuntiti, oltre che più numerosi, unica costante: quei boccoli biondi e quegli occhi ftalo.
- Posso esserle utile in qualche modo?-
-No!- e chiuse la porta immediatamente. Aveva la tachicardia e gli tremavano le mai. Fece due giri di chiave alla porta, come se potesse isolarsi da ogni pericolo in quello scrigno che era la sua stanza. Cercò dell'acqua da qualche parte e vagando barcollante notò di nuovo una presenza animale. Stavolta erano in due i conigli che giocherellavano nella sua stanza.
Con le garze sporche di sangue si potevano fare dei bei disegni. Lo aveva imparato nel tempo, su quel balcone, ogni volta che capitava l'occasione di sperimentare con quel colore naturale. Quella sera prese un grande foglio e con le garze ancora fresche si mise a disegnare una casa, una casa per figlie scontente, in cui potersi rifugiare. Aveva capito che forse avrebbe fatto un favore al padre se se ne fosse andata, visto che lo deludeva così spesso e visto che nessuno sfogo violento poteva placare il risentimento per quello che lei aveva fatto. Si, doveva andarsene, era meglio così. Ma dove? Non esiste un posto in cui le figlie scontente possono davvero rifugiarsi, liberandosi dagli abusi, dai traumi che i padri causano, maturando da quell'odio che a gocce viene inserito nelle menti degli adolescenti, che dà luogo a un processo autodistruttivo, che macchia le coscienze e fa credere di essere inutili, sbagliate, cattive, insignificanti. Dall'odio per se stesse non c'è rifugio, alla violenza degli altri non c'è rimedio, di questo era convinta, di questo ragionamento lei era figlia. Conscio dei pensieri di quella ragazzina, il buio attorno le tese una mano, un po' per pietà delle tante volte che l'aveva vista su quel balcone. Ecco che un insegna luminosa come le stelle, un po' più in là da quel balcone, si accese ed era evidente la scritta "Stello delle Figlie scontente". Come poteva ignorare un tale caso? Nella sua testa subito balenarono una serie di pensieri: era sicura di andarsene da quella casa? Quello stello la avrebbe accolta anche se lei non aveva denaro con se? E per quanto tempo?
Era un grande rischio che non sapeva se valeva la pena correre. Sentiva che era meglio andare via da quella casa. Ma che sicurezze poteva sperare in quello stello? L'unica cosa che la attirava e le dava speranza era il nome che aveva letto: era esattamente quello che le serviva, quello che desiderava, era estremamente specifico, quasi sembrava che qualcuno l'avesse sentita nei suoi pensieri. Ma visto che questo le pareva impossibile, decise di cogliere quella casualità che appariva così causata e tentare, scappare da quella casa. Voleva un'ultima volta vedere il padre, non gli avrebbe detto nulla, ma voleva in un certo senso salutarlo. Uscì silenziosa dalla sua stanza e a passo lento e a testa bassa si diresse in cucina, dove prima si era consumata la sua punizione. Quasi arrivata davanti al tavolo iniziò ad alzare lo sguardo e a pronunciare le prime parole di scusa.
- Ehi pa.. Ah!- terrore e disgusto come i pugni prima dati dal padre le percossero gli occhi e poi il cervello.
Il padre, per terra inginocchiato sul sangue che da lei prima era colato, con gli occhi chiusi e la bocca spalancata, si masturbava frenetico sporco di rosso e quasi giunto al suo orgasmo, notata la presenza della figlia, aprì gli occhi senza smettere di procurarsi piacere, allungando la mano libera dalla fatica verso di lei. Disse parole semplici, richieste lecite.
- Aspetta! Aspetta! Non devi vedere!-
la figlia urlante correva via verso la sua stanza, con gli occhi in lacrime dallo stupore, dallo spavento, dalla confusione. Con ancora il padre che urlava prese lo zaino e mise alla rinfusa tutto quello che le capitava, caddero anche le sue lacrime dentro quello, che acquerellavano le macchie di sangue rappreso che le caratterizzavano il volto. Disperata e in delirio, con forse una crisi d'ansia in corpo di quel balcone fece rampa e si lanciò nel mondo, assaporando dal primo attimo la libera aria che veloce le asciugava l'acqua salata dal volto. C'era solo un piano a separarla dal suolo, cadde non bene, aggiungendo due lividi al conto e come anestetizzata dal dolore si mise a correre, verso quell'unica luce che le dava speranza, quell'insegna che quella notte aveva avuto il compito di salvarla.
- Ok, ok, calmati, tu sei un grande uomo, un genio del marketing, non sarà una notte in uno stello un po' strana a farti perdere il controllo.-
Ripeteva questa o altre frasi simili facendo avanti e indietro da un punto all'altro della stanza, con i conigli che lo seguivano presi come da un gioco e saltellavano felici tra i suoi piedi, buttandosi talvolta a terra, leccandosi a vicenda.
- E questi maledetti conigli. Perché continuate a spuntare?- finita questa domanda diede un forte calcio a uno di quei due amorevoli esseri, scaraventandolo contro la parete, spaventando a morte l'altro che subito si nascose sotto al letto, seguito poi anche da quello offeso che, dopo un attimo passato a terra per riprendersi dal colpo, si mise anche lui a correre raggiungendo il suo piccolo compagno.
- Oddio, sto impazzendo. Come faccio? Come faccio ad andare via da qui? A scappare da quella donna che mi tiene chiuso in trappola?-
Uno dei due conigli tirò fuori la testolina da sotto il letto, curioso di cosa stesse facendo il viaggiatore e allora lui, preso dalla collera implacabile e da una impulsiva voglia di sfogare la rabbia derivata da quel sentimento di impotenza, prese di furia quel coniglio tirandolo dalle orecchie e mentre il dolce essere si dimenava, aprì la finestra e lo lanciò, regalandolo a quella macchia immensa di buio che inghiottì l'animale senza restituire neanche un suono che indicasse l'arrivo a terra di quell'essere.
- E adesso tocca anche all'altro!- fece per girarsi lasciando aperta la finestra e subito notò una novità che lo infastidì: il numero di conigli era salito a tre e ora i due nuovi arrivati, con quello di prima saltellavano giocherellando e odorando, in una tacita felice indifferenza. Prese l'inconveniente come scusa e ricominciò a sfogare la sua rabbia su quegli esseri. Ne prese due e li fece volare fuori dalla finestra, ma una volta girato lo sguardo verso la stanza, i coniglie erano ancora aumentati, ora erano in cinque gli animali che giocherellavano. Il viaggiatore andò su tutte le furie, sentendosi umiliato da quegli animali che come un idra moltiplicavano le loro teste e cominciò ad urlare rincorrendoli e, quando riusciva a prenderli, a gettarli con rabbia fuori dalla finestra. Cosi i conigli diventarono da cinque a otto, da otto a tredici, da tredici a ventuno, da ventuno a trentaquattro e infine cinquantacinque. Il viaggiatore smise di lanciarne via altri dalla finestra, non che non avesse capito prima che più ne buttava, più ne comparivano, ma voleva dimostrare a se stesso che quella potenza arrogante, "virile", violenta che aveva da sempre contraddistinto le sue scelte di vita potesse vincere anche adesso, era l'unica reazione ai problemi che conosceva: sopraffare, distruggere, sminuire l'altro e vincere su di lui. Questa volta non aveva funzionato e lui era ora seduto sul pavimento con le lacrime che stavano per uscire mentre lui con tutta la sua forza le bloccava, per non sentirsi umiliato da se stesso. Nel mentre quei conigli ormai in preda al panico correvano in tutte le direzioni nella stanza, ignari di aver sconfitto il loro assalitore. Cinquantacinque conigli creavano un vortice pieno di rumori incontrollabili e disarmonici, in quella stanza piccola che da rifugio era diventata nido di un caos incontrollabile. Il momento di riposo dalla sua ira trovò la fine quando vide poco davanti a sé uno di quei conigli, fermo, attorno tutti gli altri che correvano in preda al panico, con la sua carta di credito in bocca.
- Ehi. Come hai fatto tu a prendere quella? Vieni qui piccolo bastardo!-
la coniglia era una femmina, ma lui non lo sapeva. Il viaggiatore si alzò in piedi, inconsciamente contento di avere una nuova sfida in cui dimostrare la sua forza e si mise a correre verso la coniglietta, che subito balzò via. I due si rincorsero per un minuto nella stanza insieme al turbine degli altri conigli, fino a che la coniglietta ladra non pensò bene di attraversare la porta della stanza. Passo attraverso quella come nell'immaginario comune riescono a fare i fantasmi e lasciando sbigottito il viaggiatore, che non sapeva più cosa aspettarsi da quella notte e che ora doveva decidere se uscire dalla stanza per rincorrere la ladra o dire addio alla sua carta di credito.
- S..salve? C'è nessuno?-
La ragazzina pelata, in pantaloncini e canottiera, a piedi nudi e con la pelle a pois rossi e viola entrava nell'ingresso di quello stello che le aveva dato speranza, non vedendo nessuno dietro il bancone dell'accoglienza.
-Salve, desidera una stanza per la notte?-
Da sotto il bancone era spuntata una signora dai boccoli biondi e gli occhi ftalo, che con un sorriso smagliante e qualche rughetta un po' strana si era rivolta alla ragazzina. - Si, vorrei alloggiare qui, ma... io non ho soldi, non so. Posso comunque passare qui la notte?-
- Si, si certo. Come vuole lei.- lo disse sempre sorridendo, senza notare nulla di strano in quella ragazzina tumefatta che aveva davanti.
- Oh, meraviglioso! Vi ripagherò quando potrò, lo giuro! Allora, prendo una stanza, una qualsiasi va bene.-
- Si, si certo. Come vuole lei.- finita la ripetuta frase la receptionist uscì da dietro il bancone, andando verso la stanza da destinare alla nuova cliente, che la seguì senza porsi domande né dire niente. Salite le scale, arrivati davanti a una porta senza numero la receptionist si fermò e con quel sorriso implacabile guardò la ragazza e disse: - questa è la sua stanza. Per qualsiasi cosa le dovesse servire può chiamarmi in qualsiasi momento, io sono...-
- Luce! Ah ah, c'è scritto nella targhetta attaccata al suo petto.- Luce sempre con i denti bloccati in un sorriso abbassò la testa guardando la sua targhetta e la rialzò lentamente.
- Allora grazie! Buona notte Luce- disse così entrando nella stanza e chiudendosi alle spalle la porta.
È in quel momento che iniziarono ad arrivare le domande. Distesa nel letto il suo cervello lavorava: dove vado ora? Dopo stanotte cosa faccio? Come mi mantengo? Cosa mangio?
Era stanca, esausta e le faceva ancora male tutto il corpo. Frugò nel suo zaino cercando qualcosa da mangiare, trovò uno specchio e non resistette a guardarsi in faccia, non lo aveva ancora fatto quella sera. Ai suoi connotati malformati dai gonfiori delle botte c'era abituata, ma la sua testa. Vedeva per la prima volta il contorno del suo cranio, le chiazze di capelli creavano un chiaroscuro irregolare che le schiariva e scuriva il colore della pelle della testa, c'era ancora qualche ciuffetto di capelli lunghi che nella frenesia il padre non aveva fatto attenzione a tagliare. Mai l'aveva punita con simile supplizio, eppure quella sera l'aveva meritato. Poggiò lo specchio, placata la curiosità di vedersi in quelle condizioni, si chiese come mai la receptionist non le aveva detto nulla, magari era abituata a vedere ragazzine che scappavano di casa, magari aveva visto qualcuno anche in condizioni peggiori delle sue, magari era per questo che non aveva preteso soldi per ospitarla quella notte. Entrò nel bagno che scoprì avere incluso in camera, si tolse i vestiti e quel corpo estremamente esile si infilò nella vasca, aprendo l'acqua e iniziando a lavarsi. Passò l'acqua su una ferita sul braccio e accarezzandola con la mano notò assurdamente che la ferita gli si rimarginò, scomparve dal nulla, non aveva neanche più il dolore, neanche più il livido. Fu stupita con piacere che dovunque l'acqua la toccasse, non solo la puliva dal sangue, ma curava immediatamente le sue ferite. Si convinse di star sognando e si colpì forte al volto, per svegliarsi da quel sogno. Nulla, era reale, non aveva più i segni del martirio. Infilò infine la faccia nell'acqua e anche i gonfiori e i tagli del volto andarono via. Non sentiva più dolore, il suo corpo era pulito dai segni, anche le cicatrici delle vecchie torture scomparvero curate dall'acqua limpida. E come se l'acqua le fosse pure entrata dentro, toccandole l'anima, si sentì pure psichicamente purificata. Non aveva più timori, tutte le domande che si faceva prima si volatilizzarono, tutte le paure e l'angoscia causati dal padre non avevano più effetto: era serena, tranquilla. Fu lì che le venne voglia di provare piacere, di causarsi piacere. Uscì dalla vasca e felice e sorridente si diresse, gocciolando, verso il suo zaino, per prendere il dildo che nella foga aveva infilato nello zaino prima di scappare. Si infilò di nuovo in quella calda e piacevole acqua della vasca, che ora le permetteva un'immersione totale e incominciò a toccarsi come altre volte aveva fatto nella sua stanza. Passò dieci minuti così, godendo e rilassandosi con le sue dita, quando infine decise di provarlo. Prese quel fallo finto e lo adagiò lentamente sulle labbra del suo organo, moriva dalla voglia di provarlo, la sua amica le aveva descritto quanto fosse bello usare un giocattolo per adulti come quello e le aveva consigliato, una volta accompagnato delicatamente dentro di lei, di spingere forte l'oggetto più in dentro, infilandolo tutto in un colpo solo. La ragazzina nella vasca non sapeva che l'amica le aveva detto questa cosa per farle rompere l'imene, per farle un "dispetto", per prenderla in giro, vista la sua verginità e la sua ignoranza su cosa accade al corpo di una ragazza in una situazione del genere. E allora lei lo fece, tutto d'un colpo spinse il fallo finto dentro di se e subito se ne pentì, visto il dolore provato. Tolse l'oggetto dal suo corpo e notò un filo di sangue uscire. Capì che aveva rotto qualcosa dentro di lei, non conosceva cosa, ma era tranquilla, l'acqua, come prima, avrebbe curato il suo corpo e così fu. Se non fosse che oltre che l'imene, la ragazza si accorse che anche il suo organo femminile iniziò a richiudersi e a nulla servì uscire subito dall'acqua della vasca. La ragazza era ora in panico, continuava a toccarsi ma non trovava più nulla, tra le gambe vi era ora pelle liscia e niente più. Come poteva l'acqua rigeneratrice essersi confusa? Perché non le aveva riparato solo quello che lei aveva rotto dentro se? Ora lei non era più una donna, non aveva più un sesso e ciò le faceva paura, una paura matta, non capiva come una cosa del genere era possibile. Corse subito fuori dal bagno, nuda frugò tra le cose del suo zaino e vi trovò il coltellino che anni fa suo padre le aveva tirato contro, era ancora sporco del sangue, ora asciutto, di quella volta. Lei lo aveva conservato in quello zaino per ogni evenienza, non sapeva quale, ma ora le serviva. Mise in atto la sua idea allora. Si infilò nella vasca, in ginocchio dentro essa, con l'acqua che la copriva perfettamente fino alla vita, prese il coltellino e senza esitare troppo si incise un taglio lì, dove prima aveva un'apertura naturale. Prima che l'acqua potesse risistemare tutto posò il coltello e con le mani una da un lato e una dall'altro del taglio, tirò la pelle attorno alla ferita per aprirla il più possibile e costringere l'acqua miracolosa a cicatrizzare in quel modo, lasciando quindi un incavo nel mezzo. Nella sua testa questo le avrebbe ridato il suo organo, avrebbe riportato tutto alla normalità e quando non sentì più dolore nel punto che aveva tagliato si alzò e prese il suo specchio, lo puntò verso la zona prima squartata e vide quello che aveva fatto. Il suo sforzo non le aveva ridato niente, solo una ferita rimarginata dalla forma alquanto bizzarra. Era visibile la violenza che aveva fatto al suo corpo allargando la ferita, di fatto non solo non aveva più il suo organo, ma neppure era liscia la superficie di pelle che ne occupava il posto. Aveva maltrattato il suo corpo nel tentativo di salvarlo e ora in preda al panico si rivestiva, non riuscendosi a spiegare nulla di quello che le stava accadendo.
All'entrata dello stello, una mendicante alzava gli occhi verso l'insegna luminosa. "Stello dei barboni", assurdo che lei non lo avesse mai notato prima, in quel piccolo paese non c'era nulla che le avesse mai fatto sperare in un tetto sopra la testa. La stracciona entrò nello stello, trascinandosi con se il suo carrello pieno di oggetti più o meno utili e con aspettative estremamente basse, ma tanto il peggio che le poteva capitare era che la buttassero fuori e la facessero ritornare per strada, quindi valeva la pena tentare e chiedere una stanza.
In quel piccolo luogo per il ricevimento degli ospiti, dietro il bancone sedeva un'ammaliante donna dai boccoli biondi e gli occhi ftalo, che, vista la nuova ospite, mostro di riflesso i suoi splendidi denti in un sorriso, colto sensuale dall'ospite, che non tardò a ricambiare con altrettanti denti, non altrettanto lucidi e smaglianti. Le due rimasero così, una decina di minuti a guardarsi negli occhi e a sorridersi e mentre una lo faceva perché in una sorta di standby in attesa di un interazione alla quale dedicare una risposta apposita, l'altra seguiva il flusso, credendo che con quella bella donna bionda si stesse creando un certo feeling. E non voleva mica interrompere quel primo momento di conoscenza! Lo scambio di sorrisi fu interrotto da una lattina che dal carrello della mendicante cadde per terra, generando una reazione a catena che, uno dopo l'altro, fece cadere tutti gli oggetti aggettanti dal carrello di lei.
- Oh, mi scusi. Ehm ora raccolgo tutto.- goffa, un po' imbranata, la mendicante si affrettava a raccogliere tutte quelle cianfrusaglie, che più lei incastrava nel carrello, più le continuavano a cadere e nel mentre la bella receptionist seguiva col collo la postura della mendicante, tenendo sempre il suo sorriso saldo al quale ogni tanto l'altra rispondeva con un sorrisetto accennato, seguito sempre dal rumore di uno dei suoi oggetti che incontrava il pavimento. Dopo un po' la mendicante si arrese, infatti non tutte quelle cose riuscivano più a entrare nel carrello e con aria un po' dispiaciuta e un po' ironica fece spallucce agitando le mani verso la receptionist, a intendere: "guarda, io ci ho provato".
- Beh comunque, speravo in una stanza- lo disse appoggiandosi al bancone, mimando una sorta di stile seducente.
- Si, si certo. Come vuole lei.- quella risposta di default sorprese la mendicante che pensava avrebbe dovuto insistere un po' di più per ottenere quello che voleva. Si convinse che quel feeling che lei sospettava, allora, fosse totalmente ricambiato. Seguì allora quella bella donna che le stava offrendo la stanza, stavano per salire le scale, ma la mendicante subito si fermò. - Io non posso salire il mio carrello per le scale. Non ci sarebbero stanze a piano terra?-
- Si, si certo. Come vuole lei.-
la bionda receptionist allora condusse l'ultima ospite in una stanza un po' piccolina, ma considerata perfetta da quella, che era abituata alle panchine della piazzetta comunale.
In quel momento la mendicante decise di provare a spingersi un po' più oltre, vedendo la disponibilità dell'ospitante.
- Senta, ma no scusa, diamoci del tu! Senti cara...- lesse velocemente il nome sulla targhetta attaccata al petto dell'altra- ..Luce, potresti, magari, portarmi anche da mangiare?-
- Si, si certo. Come vuole lei-
- Oh, grazie cara, ma ti ho detto che puoi darmi del tu, non fare la sciocca- Luce allora mostrò subito il suo sorriso e replicò:
- Si, si certo. Come vuoi tu. Arrivo con ogni pietanza tu possa desiderare- quest'ultima frase suonò un po' strana alle orecchie della mendicante, ma lasciò correre, quella bella donna sarebbe tornata, era questo l'importante. La ragazza intanto si sistemò nella sua stanza. Tolse le giacche, le scarpe, e sentì la voglia matta di farsi una doccia, senza rifletterci troppo allora si denudò e si infilò nella vasca. Si lavò a fondo, erano anni che non aveva la possibilità di usare dello shampoo o del sapone, quella doccia fu per lei rigenerante in tutti i sensi, anche le sue vecchie cicatrici infatti scomparvero, ma lei non ci fece caso. Finì di lavarsi e in una coltre di vapore usciva dal bagno con solo la tovaglia a coprirle il corpo nudo e davanti al letto trovò la donna che stava aspettando, con quel sorriso che l'aveva conquistata da subito e un carrello su cui era poggiato un vassoio con un coperchio per coprire le pietanze, uno di quei classici vassoi da albergo.
- Ehi bella bionda, non si bussa più? Tranquilla sto scherzando, ovviamente tu non hai bisogno di bussare.-
- Si, si certo. Come vuoi tu-
- Si, si certo. Come se anche tu non lo volessi. Non fare tanto l'ingenua, ti ho capita io, mia bella inserviente. Cosa mi hai portato da mangiare?-
- Dimmi cosa desideri e te lo darò-
- Ma non hai già il cibo lì sotto il coperchio? Oh, ho capito! Vuoi vedere se hai indovinato i miei gusti. Mi piace, sei coraggiosa.-
- Si, si certo. Come vuoi tu-
- Smettila di assecondarmi, mi stai facendo eccitare. Allora, vediamo, io vorrei tanto mangiare salsiccia di maiale nero con patate al forno-
Nell'istante successivo Luce alzò il coperchio e nel vassoio vi era proprio quello che la donna aveva detto di desiderare, glielo porse dandole anche le posate e un bicchiere d'acqua.
- Ma come hai fatto? È esattamente quello che più preferisco mangiare. Ci sai proprio fare tu eh?-
Mangiò quel piatto prelibato non lasciandone neanche una goccia, lo finì in qualche minuto, tanto era affamata. Luce allora le tolse il piatto, lo poggiò sul vassoio e rimise il coperchio sopra a coprire tutto.
- Era delizioso! Complimenti a chi ha cucinato. Ora ci starebbe proprio bene un po' di pane con formaggio abbrustolito sopra! Ah ah- lo disse scherzando, per cercare un dialogo con quella bella donna, che sembrava starci alle sue avances, ma che non sprecava mai parole più del necessario. Invece che una risposta, Luce alzò di nuovo il coperchio del vassoio e su quel piatto fino a qualche momento prima sporco della salsiccia, apparvero due fette di pane abbrustolito, con sopra il formaggio più buono sciolto sopra ancora bollente, che fece tornare l'acquolina in bocca alla mendicante. Non sapeva come spiegarsi razionalmente quello che era appena successo, ma non voleva sputare sul piatto su cui mangiava, letteralmente. Iniziò così un lungo succedersi di pietanze: ogni volta che finiva una portata, Luce rimetteva tutto sotto il coperchio, l'ospite esprimeva ciò che voleva ancora mangiare e Luce alzava il coperchio, servendole il piatto appena prima richiesto. Secondi, primi piatti, dolci, antipasti, paste, pasticcini, cibo in scatola e salumi. La fortunata barbona gustò di tutto quella sera, riempendosi la pancia quasi fino a sentirsi male. Quando si sentì soddisfatta, ringraziò Luce e decise di concretizzare l'approccio nei suoi confronti.
- Sai, cara Luce, sarebbe bello se tu restassi qui in stanza, magari, non lo so. Ti piacerebbe darmi una spuntatina ai capelli?-
- Si, si certo. Come vuoi tu. Devo uscire un attimo, torno subito-.
Sicura del suo ritorno, la mendicante già fantasticava sulla notte che prospettava di passare con quella bella ragazza dello stello.
Due piani più su la giovane ragazzina ancora piangeva disperata per quello che le era successo e aveva provato un centinaio di volte a chiamare il padre, che ovviamente non le aveva mai risposto. Non sapeva cosa fare, era sola e non sapeva chi chiamare. Poi d'un tratto pensò a quella receptionist, era l'unica persona che forse, anche solo per umanità poteva darle un aiuto, poteva portarla in ospedale. Si asciugò le lacrime e si fece forza, respirò profondamente, era andata avanti in situazioni orribili, aveva subito violenze per anni, quindi aveva deciso che avrebbe affrontato anche quell'assurdità che le era appena successa, non sapeva come, ma se anche Luce non avesse saputo aiutarla, lei era ora determinata e sicura che anche da sola avrebbe trovato una soluzione. Camminò quindi verso la porta della sua stanza, prese la maniglia, l'abbassò e tirò delicatamente la porta. Si spaventò di colpo, vedendo la donna che stava per chiamare proprio davanti a lei col suo sorriso tipico.
- Luce, mi hai spaventata! Che ci facevi dietro la mia porta? Comunque cercavo proprio te, volevo chiederti aiuto per una cosa, non so proprio a chi chiedere, non ho nessuno- disse la frase con il suo solito sguardo puntato verso il pavimento, sentendosi anche lì in colpa.
- Certo che non hai nessuno, mia cara. Tu non meriti niente-. Sentite queste parole la figlia alzò lo sguardo di getto verso la sua interlocutrice e iniziò a spaventarsi.
- Tu pagherai le conseguenze di quello che hai fatto a tua madre. Tu proverai quello che ha provato lei. Questo ti meriti!- - No, no io. Io non ho..- la luce della stanza iniziò a tentennare e si sentirono i rumori simili a quelli di un terremoto. La figlia si bloccò un attimo, impaurita da questi turbamenti dell'ambiente e Luce chiuse la porta, sbattendola con forza. La figlia allora provò una voglia di rivalsa, e con una rabbia di sfogo iniziò a piangere e correre verso quella porta, determinata ad aprirla e a rincorrere Luce, per sapere cosa sapesse della sua storia, di quello che lei aveva fatto a sua madre. La corsa fu inutile. Quasi arrivata a toccare la maniglia della porta la stanza rivelò il motivo di quei turbamenti e iniziò a inclinarsi e gradualmente, anche se abbastanza in fretta, la parete speculare alla porta prese il posto del pavimento e la figlia, come anche tutti i mobili della stanza, fu quindi tirata dalla gravità dal lato opposto di quell'uscita. La stanza era ruotata di novanta gradi e lei, cadendo su di essa, ruppe la finestra che ora era parte del suo nuovo pavimento. I frammenti di vetro le fecero dei tagli e quel sangue, come le volte prima nel suo balcone, le ricordò che era ancora viva, lei sentiva, quindi era, esisteva e per questo non si arrese e si tirò su, spostandosi da quella finestra, che dava su un vuoto nero e immenso. La stanza iniziò di nuovo a ruotare e tutti i mobili seguirono il flusso, schiacciando la ragazza che continuava quindi a subire percosse. Il movimento di rotazione non si interruppe e continuò a una velocità costante. La figlia era ora costretta a stare attenta a tutto ciò che poteva schiacciarla, oltre che a calcolare gli spostamenti giusti, per non farsi sballottare dalla gravità. Si dimostrò tanto brava nell'adattarsi a quella situazione che riuscì ad aggrapparsi alla maniglia della porta e proprio quando quella parete, nella corsa della rotazione, prendeva il posto del soffitto, la ragazza, appesa, abbassò la maniglia, aprendo la porta che per effetto della gravità si spalancò brusca, bloccando la rotazione della stanza. E come avesse tolto il tappo a una bottiglia capovolta, dalla porta ora aperta inizio a cadere una cascata di acqua. La figlia urlò dallo spavento, aveva sperato fosse finita, aveva pensato che sarebbe potuta uscire da quella porta e buttarsi nel corridoio, sperando fosse solo la sua stanza a ruotare senza una logica reale. Invece la sua stanza si stava ora riempendo di acqua. L'acqua entrava a una pressione spaventosa dalla porta e defluiva nell'oscurità all'esterno grazie alla finestra rotta. Quello scarico non era abbastanza però, l'acqua che entrava era molta di più rispetto a quella che usciva e non ci volle molto prima che la stanza iniziasse a riempirsi e i mobili a galleggiare, salendo di quota, avvicinandosi sempre di più a quella ragazza appesa.
- Maledetto coniglio, se ti trovo ti distruggo-
Il viaggiatore furibondo corse tra la moltitudine di conigli agitatissimi, aprì la porta e uscì nel corridoio guardandosi a destra, poi a sinistra. Vide la coniglia alla fine del corridoio lunghissimo alla sua sinistra che spariva con la sua carta di credito in bocca, entrando in un altro corridoio. Il viaggiatore corse subito verso quella direzione, arrivando alla fine del corridoio, per vedere appena la coniglia che si infilava, correndo, in un altro corridoio, corse di nuovo determinato a raggiungerla. Ogni volta che arrivava alla fine di un corridoio vedeva la coniglietta nera che si infilava in un altro e nella foga non si accorse che tutti quei corridoi uguali componevano un labirinto in cui lui si stava perdendo. Correva, correva, arrabbiato con quell'animale per lo sgarbo che gli stava facendo. Vedeva quel sedere sparire alla fine di ogni corridoio in cui lui lo seguiva. Si sentì presto preso in giro da qualcosa, non era solo la coniglia, era anche quello stello. Quanto era grande? Da quanto stava correndo? Quanti corridoi aveva cambiato? Si fermò e si accorse ora dell'assurdità che stava vivendo, si rese anche conto che non sapeva più dove fosse, come tornare alla sua stanza per prendere le sue cose e andare via, o come semplicemente trovare l'uscita. Non sapeva come raggiungere le scale che lo avevano portato a quel piano, non vedeva nessuna finestra, iniziò a vagare per quei corridoi disperato, lamentando versi di delirio e finalmente facendo scendere delle lacrime da quegli occhi che non ne potevano più di contenere. Arreso si sedette a terra nel mezzo di uno di quei corridoi, piangente, con la testa calata nel mezzo delle sue ginocchia, disperato e urlante, convinto che quello stello assurdo ce l'avesse con lui. E poi d'un tratto la vide. Quella coniglia con la sua carta tra i dentini e le orecchie alzate che lo guardava, fece un giro su se stessa, quasi a dire: "dai seguimi". Così lui si alzò, senza smettere di piangere camminò verso quella piccola e lei, senza correre girò l'angolo, conducendo il viaggiatore davanti la sua stanza.
- Era seriamente dietro l'angolo? O hai voluto tu che lo fosse adesso?- domanda lecita a cui la coniglia non poté rispondere. Davanti alla porta della stanza la piccola si sedette e aspettò che il viaggiatore abbassasse la maniglia. Così accadde e i due entrarono, notando come ancora gli altri conigli correvano in un vortice che aveva ormai distrutto tutti i soprammobili. Nel mezzo di quel vortice la coniglia nera e il viaggiatore si guardarono, la coniglietta poggiò ai piedi dell'uomo la carta di credito e lui la prese e se la mise in tasca, poi si calò per guardare la piccola e la accarezzò. Quel gesto intimo creava un'intesa lenta tra i due che si contrapponeva all'immenso rumore creato dalle corse degli altri animali attorno.
- Che pensi bimbo? Che non pagherai le conseguenze delle tue azioni?- prese allora la coniglia con violenza dal collo, strozzando l'animale che si dimenava impotente ora nella sua mano. Con l'altra mano le prese il mento e ruotò.
Crack.
Tutti i conigli si fermarono in quell'istante. Un silenzio fu più tagliente di tutto il rumore che prima aveva caratterizzato quella stanza. Rimasero tutti fermi a guardare il viaggiatore e la loro madre, uccisa in quell'attimo da quello, che era ignaro di ciò che aveva fatto. Durò due secondi al massimo questa quiete. Tutti i conigli, mossi da una motivazione istintiva e contemporanea si avventarono sul viaggiatore, ringhiando con quel suono che somiglia più a un ruggito incapace di fare paura. Cinquantaquattro piccolini che il viaggiatore tentava di scalciare e picchiare, prima di esserne sopraffatto, di cadere a terra, ricoperto da loro che a un preciso obbiettivo miravano. Mentre quello si dimenava, infatti, quanti più conigli, tutti quelli che fisicamente entravano in quell'area di spazio, iniziarono a rosicchiare freneticamente la toppa dei suoi pantaloni e lui se ne accorse, sentendosi sempre più nudo in quello specifico punto che inconsciamente vedeva come simbolo della sua "virile" forza. A nulla servirono i tentativi di rialzarsi, di portare le mani a difesa di quella sua zona preziosa: i conigli lo facevano scivolare a terra e ce n'erano alcuni che gli mordevano i bulbi oculari, solo per confondere le sue mani, altri che proprio alle dita si attaccavano, così da rendere impossibile l'uso degli arti. Il viaggiatore tentava di urlare, ma anche nella bocca percepiva la morbidezza di quelle carni, che come spillatrici gli ricoprivano il corpo di segni. Intanto quelli addetti all'obbiettivo principale continuavano il loro lavoro e, macinato il tessuto che copriva quella zona, iniziarono ad attaccare il membro virile, che impotente si vedeva tirato da tutti i lati da quei dentini. Il viaggiatore ancora più si dimenava, inutile ogni suo sforzo. Le bocche di quei piccoli si macchiavano sempre più di sangue e di brandelli di carne mentre sbranavano quell'appendice tanto preziosa. Quel pene fu prima privato della sua punta, poi, pezzo per pezzo, fu mangiato anche il corpo fino alla sua base e infine toccò anche alle gonadi, sempre morso per morso consumate. E mentre l'elargitore di quel pasto aveva spasmi di dolore e di panico, incapace di urlare e ormai anche di vedere, i conigli completavano la loro opera e finito di consumare si fermarono tutti un attimo, prima di sparire, correndo via e come fantasmi attraversando la porta della stanza, lasciando quello nel silenzio. Ora immobile, con un costante respiro affannato, ricoperto di piccole fessure nel corpo, con i bulbi oculari trafitti, un buco nei pantaloni, privato del suo sesso e con il cadavere di quella piccola mamma steso accanto a lui, il viaggiatore non provava più rabbia, non provava più niente, accettava passivamente quello che gli era successo, non poteva fare altro.
Il livello dell'acqua era arrivato a toccarle i piedi, non poteva restare lì, ebbe un idea per salvarsi. Lasciò la presa della maniglia, cadendo sul letto che ora galleggiava sulla superficie dell'acqua, ispirò profondamente, chiudendo gli occhi, li aprì buttando tutta l'aria, l'acqua intanto stava per riempire tutta quella stanza ruotata, prese quanta più aria i suoi polmoni potevano contenere e da quel letto si getto nell'acqua. Immersa nel fluido le si rimarginarono i tagli precedentemente fatti, ma neanche se ne accorse, era determinata a salvarsi la pelle. Nuotò quindi verso il basso, verso quella finestra con un'apertura fin troppo piccola. La stanza immersa in quel liquido trasparente appariva tutta offuscata, i contorni degli oggetti, dei disegni della carta da parati, delle cornici della porta del bagno o della finestra erano opachi, sfumati con ciò che li attorniava. Riuscì a raggiungere la finestra e con diversi calci riuscì a frantumare quel vetro, dotando quella stanza di uno scarico più degno. Si rilanciò quindi verso l'alto, finendo quasi l'ossigeno in corpo, nuotò con tutte le sue forze e quasi nel momento di perdere i sensi riusci a toccare con la bocca la parete in alto, raccogliendo quel poco di aria che le bastò per una boccata. Ora l'immissione di nuova acqua da parte della porta era minore della fuoriuscita di quella accumulata e pian piano il livello dell'acqua scendeva e pian piano la figlia respirava, ce l'aveva fatta, era salva. La nuova acqua che entrava aveva iniziato a riversarsi a una pressione minore di prima e gradualmente la pressione diminuiva, diminuiva anche la quantità di acqua che entrava dalla porta. La figlia sorrise. Galleggiava sul livello di quell'acqua, che più passavano i secondi più scendeva, ora dalla porta aveva smesso di entrare nuova acqua e lei si sentì salva da quell'inferno che rischiava di annegarla. L'acqua si riversò tutta fuori nel buio oltre la finestra e la figlia poggiava ora i suoi piedi su quella parete , insieme ai mobili ormai tutti zuppi e addossati l'uno all'altro. D'un tratto la stanza ruotò, riportando le pareti nella loro posizione iniziale, poi si placò. Con quest'ultima rotazione la porta della stanza si chiuse da sola e la figlia fu sballottata sul pavimento, subendo ancora un colpo da parte del comodino che le vomitò i cassetti addosso, prima di cadere lui stesso su di lei. La figlia si alzò in piedi, si spogliò dei vestiti zuppi che le davano fastidio al corpo e cercò degli asciugamani puliti in bagno, rendendosi conto che tutto quanto era stracolmo d'acqua. Infreddolita allora si distese sul pavimento della stanza, per calmarsi un attimo, per respirare per bene prima di decidere cosa fare, dove andare. Allungò una mano, ancora, verso il luogo in cui prima si leggeva il suo sesso, toccò quella pelle bozzosa, amorfa, chiusa, innaturale. Si sentì frustrata, triste, impotente. Perché quell'acqua magica le aveva rimarginato qualcosa che non aveva senso rimarginare? Perché quello stello era dotato di qualità assurde e irreali? Perché era capitata lì? Come avrebbe fatto a riottenere il suo corpo? Come avrebbe fatto a uscirne?
- Capisci gioia? Per questo motivo sono finita per strada. Sono vittima di un'ingiustizia, sono anni che vivo di stenti e penso: chissà quando troverò la mia stella. La mia luce che mi salvi. Non capisci? Ti ho trovata, oh mia Luce. Questa sera mi hai salvata e so che mi cambierai la vita.- e mentre la mendicante le raccontava tutta la sua vita, Luce, con sorriso fisso e occhi spalancati le spuntava i capelli bagnati. La mendicante era seduta di fronte al grande specchio del bagno, con una tovaglia sulle spalle e, con occhi assorti verso l'alto, ogni tanto guardava nello specchio, per osservare la bellezza di quella receptionist che tanto si stava dimostrando disponibile a darle una sistemata al taglio.
- Sai, forse è un po' presto per dirlo, ma io credo che tutta la mia storia, tutta la mia vita, sia motivata dal far capitare questa notte meravigliosa. L'universo voleva ci conoscessimo e ora, mi sento bene come mai in tutta la mia vita.- intanto in sottofondo, come un robot Luce continuava a spuntarle i capelli bagnati – Basta, non giriamoci più attorno: Luce, mostrami la tua vera natura! Scontriamoci come animali!- dettò ciò si alzò dalla sedia, lasciandosi scivolare di dosso le tovaglie che coprivano il suo corpo ancora nudo causa doccia. E ora lì, spoglia dalle vesti, mostrava il suo corpo in segno voluttuoso di unione, sicura di un responso positivo.
E lo ebbe, nei fatti.
Luce sentita la frase si distaccò da chi stava servendo, fece due passi indietro e col solito meraviglioso sorriso, con i guanti e le forbici nere nelle mani e quei boccoli dorati che ora erano un po' bagnaticci per lo sfregamento con i capelli della mendicante disse:
- Si, si certo. Come vuoi tu.-
Fu tanto imminente quanto naturale. La pelle da rosea tornò verde, le rughette si mostrarono come squame quali erano, e quei denti tanto perfetti si moltiplicarono, affilarono e rimpicciolirono. L'espressione di Luce rimase la stessa che aveva avuto durante tutta quella notte, perfino mentre la mendicante, totalmente nuda, sobbalzò dallo spavento e urlando corse via dal bagno e, mossa da un'impulsività tanto naturale quanto insensata, goffeggiando e inciampando, cadendo anche un paio di volte, si diresse verso la finestra della sua stanza e la aprì con forza, lanciandosi in quell'oblio buio, credendo di toccare la strada, essendo la stanza a piano terra. Neanche di lei si sentì il suono d'arrivo al suolo. Luce, impassibile, attendeva comandi. Dopo dieci minuti buoni, non ricevendo nessuna richiesta, di default tolse i guanti, poggiò le forbici e uscì da quella stanza, dirigendosi nella sua, personale stanza. Arrivata a letto, si tolse i vestiti, mise il pigiama e così chiuse gli occhi.
Dopo un bel po' di tempo passato ad accettare la sua condizione, spinto da una sorta di idea di comportamento convenzionale da seguire quando si è ricoperti di ferite, il viaggiatore si mise in piedi e si diresse nel bagno della sua stanza, tutto logorante e colto da un piagnucolio lieve, scoraggiato, proprio di chi ha deluso l'ideale di sé che si era creato.
Arrivato davanti al lavandino con lo sguardo rivolto a terra, per necessità sollevò gli occhi e, cieco da uno, vide la sua immagine. Cominciò a piangere a dirotto, a urlare, a sbavare dall'incontrollata tensione che lo assaliva nel vedere quello che era successo. È questo che si prova durante e dopo uno stupro? Questa la violazione a cui si ci sente sottoposti? Fino a quel momento non gli era mai servito chiederselo, non gli era mai passato per la mente, infatti, ora che se lo chiedeva, non sapeva dare una risposta. Perché gli erano successe quelle cose? Continuava a ripeterlo come se chiederselo o dimostrare a se stesso una certa insensatezza di fondo gli potesse ridare il pene. Ancora delirando aprì l'acqua per sciacquarsi. Smise allora di piangere: l'acqua gli aveva rimarginato tutte le ferite delle mani. Per un attimo credette di essere vittima di allucinazioni, aveva senso, visto quello che aveva passato. Eppure tutte le fessure di quei dentini non c'erano più e neppure il sangue e neppure il dolore.
- Ma si. Ma che mi frega se me lo sto immaginando.-
Si spogliò nudo il più veloce possibile, con gli occhi spalancati e la bava alla bocca, stavolta per la foga, si lanciò, scivolandoci dentro, nella vasca. Subito aprì il rubinetto e prese il doccino facendolo aderire con ferocia sul suo corpo. Appena trenta secondi e si rese conto che stava ignorando la parte più importante, puntò allora il getto d'acqua lì, dove prima era leggibile il suo sesso, ancora col volto pieno di ferite e cieco da un occhio, visto che non ancora aveva graziato con l'acqua quella zona. La carne gli si rimarginò, ma non potette ricreare carne ormai tolta. Vedendo come l'acqua aveva agito, il viaggiatore iniziò a urlare e a dimenarsi, picchiando fortemente col doccino il pavimento della vasca. Con la rabbia e le urla di una scimmia, annaffiò tutto il bagno e casualmente un po' di acqua continuò a bagnare anche lui. Finì per rompere il doccino. Dopo aver rovinato la vasca e lasciando l'acqua aperta, la scimmia, stanca della sua lotta, uscì dal bagno, noncurante ormai dell'occhio trafitto e si distese sul pavimento. In un'apatia generale, senza riuscire più a pensare, senza provare alcuna emozione, si rese conto che non era ancora finita.
Iniziò infatti a formarsi un gonfiore nel suo corpo, nel punto in cui le donne normalmente hanno la placenta.
Ancora distesa sul pavimento, la figlia guardava il soffitto della stanza, finalmente tornato al suo posto e si chiedeva adesso che cosa avrebbe fatto. Era giunta alla conclusione che niente le era andato bene, che da quando era nata il mondo l'aveva odiata, martirizzata e che anche quella sera era successa la stessa cosa. E allora? Sarebbe rimasta lì ferma, colta in una volontaria indifferenza, in un'apatia generale che non le permetteva di pensare? Basta. Aveva deciso di dire basta. Il mondo le aveva fatto male e probabilmente avrebbe continuato a trattarla così, tanto valeva costruirsi qualcosa di suo, reagire. Voleva uscire da quello stello e cercare una soluzione, una qualsiasi, per quella notte, poi avrebbe pensato al domani. Che cosa aveva da perdere? Non aveva più il suo corpo integro, non aveva una famiglia, non aveva degli amici veri, niente, non c'era niente che la bloccasse dal buttarsi e provare a sopravvivere. Le venne voglia di dipingere, forse era quello che voleva fare nella vita, nei fatti era quello che le veniva in mente ogni volta che stava male, era quello che davvero curava le sue ferite, che dava al suo sangue, unico colore delle sue pitture, una dimensione in cui esistere, un mondo lontano dal motivo per cui fuoriusciva dal suo corpo. Ora era diverso, aveva voglia di dipingere in un momento in cui non aveva bisogno di curarsi, bensì in un momento in cui si sentiva sicura di sé, voleva dipingere per imprimere la sua rivalsa nei confronti di quell'idea di sé di cui l'avevano convinta. Non fece in tempo per alzarsi da terra per prendere un foglio nello zaino che sentì un fastidio nel ventre, un gonfiore lì, dove si situa la placenta.
Rimase a terra, non volle muoversi troppo, quel gonfiore aumentava e lei non sapeva cosa fosse, capì però che quello stello con lei non aveva finito.
Il ventre cresceva e il viaggiatore, non capendo che genere di stranezza gli stesse capitando stavolta, iniziò di nuovo a urlare e piangere.
Comprese la natura di quello che le stava accadendo.
- No, no, no! Per favore no. Non è stata colpa mia! Come fa ad essere colpa mia?!- lo urlò contro chi o cosa stava controllando le sue sfortune di quella sera. Ma qualcuno le stava controllando?
- No! Basta, per favore io non lo merito!- anche il viaggiatore si riferì al medesimo interlocutore, pur non capendo ancora cosa fosse quel gonfiore inarrestabile.
Gonfiore che intanto si faceva sempre più visibile e doloroso. Il ventre raggiunse la dimensione che lo caratterizza al quinto mese di gestazione.
La figlia arrabbiata decise di provare un metodo per salvarsi e si alzò in piedi, nuda camminando, con fitte di dolore e i calci del feto che infierivano su di lei.
Il viaggiatore disperato decise di suicidarsi non potendone più e si alzò in piedi, nudo camminando, con fitte di dolore e i calci del feto che infierivano su di lui. Arrivò allo zaino e veloce estrasse il coltellino che prima aveva usato per provare a ripristinare la sua vagina.
Arrivò alla sua valigia e veloce estrasse tutto ciò che conteneva, cercando una lama per porre fine alla sua vita e quindi a quella nottata.
Intanto il feto raggiungeva il settimo mese e il ventre era quindi, a vista d'occhio, ingrossato ancora.
Noncurante dei dolori corse verso il bagno, col coltellino in mano, cadde nella foga su quel pancione che le si schiacciò come si preme su un brufolo, provocandole un male che la fece urlare dal dolore.
Non trovando niente per potersi ammazzare il viaggiatore continuò a disperare e nulla riuscì a pensare o a fare per potersi stroncare.
Il feto era ora arrivato al nono mese di gestazione e pretendeva di uscire. C'era un problema di fondo: la zona che normalmente era interessata da un canale di fuga ora era bloccata. E quel bambino ormai completamente formato non sapeva spiegarsi perché il passaggio a lui dedicato fosse inesistente, poco importa se non ci fosse di base o se c'era ed è stato tappato. Quella superficie bozzosa priva di sesso veniva ora spinta dall'interno e provocava un lancinante dolore a chi stava ospitando quel nascituro, che non aveva smesso di crescere nel frattempo; era quindi passato al decimo, poi al dodicesimo mese di gestazione e ancora non vedeva la luce. La figlia allora in preda ad un infuocante dolore e con un ventre innaturalmente grande anche per una donna incinta, voleva tentarlo lì quel cesario, sicura che, arrivando poi in bagno, l'acqua avrebbe richiuso anche la peggiore delle ferite. Ma, cadendo, il coltellino le era scivolato dalle mani e ora distava da lei poco più di trenta centimetri.
Il viaggiatore era ormai privo di pensieri, la sua mente era un urlo di dolore continuo. Non aveva ancora capito cosa gli stesse accadendo e questo rendeva tutto ancora più assurdo, più doloroso. Non aveva neanche la forza di cercare altro per uccidersi, rimaneva sul pavimento su cui era ricaduto, inerme e in preda al dolore più paradossale.
Il sole ricoprì di soggetti e di dettagli tutto quel buio anonimo, in quel paesino. Il cartello luminoso dello stello del paese si spense e la naturale illuminazione della nostra stella permetteva di leggere ora la scritta dell'insegna: "Stello Cremisi". La luce entrò dalle sue finestre, schiarendo tutti i colori che toccava. La proprietaria, Lucia, si alzava dal suo letto, nella stanza che personale aveva reso tra quelle della sua attività e, come ogni mattina, si apprestò a prendere le pillole che il suo medico le aveva prescritto causa l'enorme stanchezza patita, nonostante le adeguate ore di sonno. Sbadigliando si diresse in cucina, notando come le scorte di cibo erano totalmente esaurite, come se qualcuno avesse mangiato tutto durante la notte. Eppure la porta della cucina era chiusa a chiave e non c'erano segni di scasso, quindi gli ospiti dello stello, venuti il pomeriggio prima, non potevano aver derubato nulla.
- È successo di nuovo! Ma perché periodicamente il cibo scompare? Questo stello mi prende forse in giro?!-
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Stello Cremisi
Short StoryUn racconto che vi permetterà di entrare in punta di piedi dentro il libero flusso della mia inquietante immaginazione. La storia è colma di simboli, ogni cosa che racconto è traboccante di significato. A volte ho paura di quello che liberamente la...