"Ma solo ieri c'eri, nei giorni neri
Quelli che piove troppo forte per stare in piedi"
Bruno riconosce Ricciardi, dall'alto, prim'ancora di vederlo in volto, dall'andatura svelta che lo contraddistingue e dall'accompagno costante delle falde del soprabito che gli frustano le ginocchia.
Inverte la rotta, prima diretta verso il suo ufficio, e ridiscende le scale trattenendo un'imprecazione a ogni gradino. Gli si fa incontro a passo claudicante, lottando contro le fitte che gli risalgono la caviglia e vanno a stritolargli la testa del femore. Lui, però, non lo vede né rallenta, diretto al reparto degenze, costringendolo a stargli appresso.
Attraversa sulle sue orme l'androne dell'ospedale avvolto in una penombra bluastra, per arrestarsi a qualche passo da lui quando anche lui si ferma brevemente nella sala d'attesa, ai piedi dell'altra rampa di scale. Ha un lieve fiatone e ancora non l'ha visto, lo sguardo perso altrove, distratto come non lo è mai. Ha il completo stropicciato, il soprabito umido di pioggia o forse di mare, i capelli scuri sfuggiti alla brillantina in ciuffi disordinati che gli ricadono sul volto cereo.
«Luigi.»
Ricciardi, a quel suono estraneo, uno sparo nel niente sebbene sia un richiamo sommesso, sobbalza e si volta di scatto, le mani nervose nascoste come sempre nelle tasche del soprabito. Si rilassa per una frazione di secondo nel riconoscerlo, per poi strizzare di nuovo i lineamenti in un'accozzaglia contratta d'emozioni.
Bruno glielo legge in faccia, che ha capito. Non lo chiama mai per nome: a stento lo chiama per cognome intero, e solo quando c'è da ristabilire un equilibrio. Ché spesso, tra loro due, i ruoli professionali vanno a farsi benedire e sembrano solo due scugnizzi in vena di scherzi, pure nei momenti meno indicati. Vorrebbe fosse una di quelle volte.
Non si pente di non aver addolcito la pillola in alcun modo, anche se l'altro pare una statua di sale pronta a sbriciolarsi, in quella penombra soffusa, ricolma di persone rannicchiate sulle panche, in piedi, in eterno via vai lungo i muri. In attesa.
Dove sei stato? gli vorrebbe chiedere, ma sa che non riuscirebbe a mascherare il rimprovero d'aver lasciato sola Rosa nei suoi ultimi momenti. Perciò, tace e riduce la breve distanza tra loro. Lo prende per il gomito, esercitando la stessa delicatezza che adopererebbe su un paziente fragile.
Lui sobbalza, come se avesse appena avuto un'assenza fugace. Spiccica parola con voce arrochita:
«Rosa è...?»
«Mi dispiace,» risponde soltanto Bruno. Le stesse parole che userebbe in un qualsiasi altro giorno nelle vesti di medico. Un poco si odia, per quell'asetticità, ma sa che Ricciardi non gli perdonerebbe alcun pietismo. «Ho fatto il possibile.»
Ricciardi annuisce, scattosamente, ma sa che non ha capito. Lo vede accadere spesso. Quel simulacro di comprensione, nell'apprendere la notizia, che, poi, si dissolve nel vedere un proprio caro esanime. A volte, non capiscono nemmeno allora. Ci vuole la camera ardente, o il funerale, o anni di fiori su una lapide.
Serra un poco le dita sul suo braccio, a riscuoterlo.
«Vuoi vederla?»
Ricciardi, alla sua lieve pressione, pianta tutto il peso nei piedi, sui talloni, un mulo recalcitrante, gli occhi sbarrati come di fronte a un baratro invisibile. Gli afferra di rimando il polso, con una forza che mai si sarebbe aspettato da lui. Sembra lottare contro la sua stessa voce. Le sue pupille scattano qua e là, bizzose. Impaurite.
«Ti accompagno, se vuoi,» aggiunge Bruno, pacato, e sente la sua presa rilassarsi impercettibilmente.
Annuisce di nuovo, muto. Forse, sussurra anche un grazie, ma è quasi inudibile, un fruscio di corde vocali tirate. Stavolta, cede alla sua stretta e ne asseconda la guida, un passo esitante alla volta.
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Dimmi cosa temi, in che cosa credi (la mia risposta sei tu)
FanfictionNapoli, 1934. Quando Rosa si spegne, Bruno si trova a dover dare la cattiva notizia a Ricciardi e a offrirgli tutto il conforto di cui è capace, tentando di rimanere in bilico sulle labili linee su cui ha continuato a camminare finora il loro rappor...