Chapter eleven

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"Diventai il caldo, piccolo centro del mondo.
Ero il maestro Zen"

Edward Norton - Fight Club (1999)



Il rapporto tra me e la Francia si era sempre manifestato in condizioni favorevoli.
Ci ero stato molte volte, ma avevo fatto pochissimi concerti lì.
Ero solito andarci per sfilate di moda sia come spettatore che come protagonista.
Era un po' come il quadrilatero della moda Milanese.
Numerosi shooting e interviste occupavano il mio tempo durante i soggiorni in quella nazione.
I monumenti simbolici e i luoghi artistici erano caratterizzati da una bellezza davvero disarmante.
Tra le cose ancora in programma da fare però, c'era portare una mia ipotetica fidanzata davanti alla Torre Eiffel e baciarla sotto il chiaro di luna.
Mi piacevano le smancerie romantiche quando avevo il controllo di me stesso.
Mi piaceva l'idea di fare stare bene qualcuno.
Ma spesso il caos si faceva strada dentro di me come il traffico sulla rue degli Champs Élysées.
Pensavo a questo mentre Amélie se ne stava seduta per terra a gambe incrociate con in braccio una chitarra acustica.
Chissà quante volte aveva sbagliato imparando a suonarla.
Ero curioso di sapere da che città della Francia provenisse.
Avevo ancora così tante domande da farle che ogni volta che i miei pensieri volgevano a quello, ci sprofondavo all'interno come fossero delle sabbie mobili.
In mattinata avevamo finito le riprese del videoclip e l'avevo invitata a casa mia.
Era stato tutto quanto così veloce che ancora non avevo avuto il tempo di realizzare.
Era accaduto tutto troppo in fretta, come un torrente impetuoso che scorre giù dalla montagna o il gelato che si scioglie sotto il sole di luglio.
Prima io e lei sul set, poi per le strade della città e infine a casa mia.
Non sapevo nemmeno come fosse successo ad essere sincero, ma non volevo stare troppo a interrogarmi al riguardo.
Piuttosto volevo godermi ogni attimo prima che potesse diventare l'ultimo.
Trovai strano il suo assenso al mio invito, lo confesso.
Mi chiesi che tipo di rapporto avesse con quello che avevo battezzato come il suo sciocco fidanzato.
Probabilmente erano una coppia di nome ma slegata di fatto.
Tornai ad osservarla, anzi ammirarla.
Ci avrei scommesso tutto che parevo così infantile e imbambolato come quando guardi affascinato un trucco di magia.
Ero totalmente rapito e se avessi avuto la possibilità di osservarmi dall'esterno avrei sicuramente riso come un folle.
Non poteva essere vero, solo i matti si comportano in quel modo.
Matti d'amore o matti e basta, questo non lo sapevo ma nemmeno me lo chiedevo.
Sotto di lei era adagiato un antico kilim rosso di manifattura orientale dai motivi mandala.
Il suo corpo vi aderiva perfettamente e anche il mio sguardo su di esso.
Quella vista mi poneva di fronte a due mondi opposti, Oriente e Occidente come mescolati in un tutt'uno.
Era una specie di estasi visiva.
I miei occhi che puntavano soltanto a quella immagine che già soltanto l'istante successivo sarebbe stata diversa.
Avrei voluto fotografarla con una polaroid o una macchinetta vintage da ogni angolazione, per poi cambiare il rullino dopo dieci miseri secondi.
Volevo tappezzare la stanza con i suoi fotogrammi.
Era da un po' che in casa mia non fosse ospite una ragazza.
Mamma aveva sempre qualcosa da dire su ogni persona, ma le trattava bene alla fine.
Su di lei non avrebbe avuto da dire, come me d'altronde.
I suoi vent'anni mi facevano ricordare i miei.
Soltanto che lei era molto meglio di me, o almeno la pensavo così.
Le sue magre dita contornate da lunghe unghie dipinte di bianco, creavano un connubio perfetto con le corde della mia chitarra.
Me l'aveva regalata un amico molti anni prima, ma non avevo mai avuto la costanza di imparare a suonarla.
Non sapevo se fosse realmente così difficile oppure le troppe cose a cui pensare nella testa magari me lo rendevano tale.
Lei era tutto il contrario di me.
Aveva talento e quasi ne ero invidioso.
Il mio egocentrismo tuttavia non mi lasciava il permesso di ammetterlo a voce alta.
Faceva scorrere su e giù quel plettro come se fosse un'azione abituale.
Non mi aveva fatto presente il fatto che fosse in grado di suonare, mi aveva soltanto informato che scrivesse libri.
Anche lei in un certo senso lo era, e volevo leggerla tutta dall'inizio alla fine.
Scoprendola pian piano e sorseggiandola lentamente come un tè marocchino bollente versato dall'alto.
Ero seduto sul bordo del mio letto e guardavo sulle pareti vecchie foto o dischi d'oro incorniciati.
I regali dei fan non ci stavano più, straripavano da tutte le parti.
Tra disegni e collane avevo esaurito lo spazio disponibile.
Lei sembrò non accorgersene o forse ignorò volutamente tutto quel casino.
Mi concentrai sulla sua voce.
Era chiara e limpida come la neve.
Stava cantando una vecchia canzone francese che non avevo mai sentito.
Un giorno forse ne avrebbe cantata una delle mie.
Sorrisi senza pensarci asserendo a quelle congetture e di quello se ne accorse, ma non smise di fare ciò che la teneva impegnata.
Quel suono dolce mi cullava come una soave melodia.
Come quelle mamme che in ospedale cantano la Ninna Nanna ai loro neonati.
Un'estasi uditiva.
Di belle sensazioni ne stavo sperimentando parecchie quel giorno, me ne sarebbero mancate solo poche per raggiungere il benessere ma anche la confusione totale.
Era una cosa a cui non ero abituato e mi faceva sentire inaspettatamente appagato.
Fissai le sue labbra muoversi con scioltezza.
Ero desideroso di assaporarle per dare uno scopo alle mie papille gustative.
I suoi capelli castani erano raccolti minuziosamente in una grande treccia laterale che le ricadeva sul collo.
Immaginai di scioglierli e accarezzarli, così anche il senso del tatto avrebbe avuto sfogo.
Quegli occhi verdi dalle sfumature marroni mi facevano perdere il controllo, soprattutto se mi guardavano innocentemente.
Tutto quanto era irresistibile ma dovevo provare a non cedere agli istinti che volevano manifestarsi.
Finì di cantare e posò delicatamente lo strumento sul supporto di fianco a lei.
Non avevo idea di che ore fossero e sinceramente speravo che tutto ciò che stessi vivendo sarebbe durato in eterno.
Mi vibrò il telefono che era appoggiato sul letto ma decisi di ignorare chiunque fosse.
Nessuno meritava più attenzioni della ragazza davanti a me.
Si alzò in piedi sistemandosi i vestiti.
Aveva l'aria di una ragazza poco sicura di sé nonostante chiunque la vedesse bella.
Come se si sminuisse nella sua testa e mi sarebbe piaciuto fare in modo che potesse guardarsi con i miei occhi.
Avrebbero indicato tutt'altro che mancanza di autostima.
Mi fermai a riflettere sul perché le persone migliori tendano a sottovalutarsi.
Forse mi estraniai così bene dalla realtà che lo capì.

OGGI PIOVERÀ A GOGÒ - Ghali fanfiction Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora