solo x | parte prima

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Perché era così naturale accettare i problemi, le stranezze, gli sbagli altrui, ma si tendeva sempre a condannare i propri?
Andrea non era abituato a porsi questo genere di domande. Evitare l'autoanalisi e il confronto con se stesso era uno dei suoi talenti principali. Ma da settimane ormai questo pensiero lo dilaniava, lo torturava. Bruciava i suoi organi interni, correva e percorreva migliaia di giri tra i reparti del suo cervello, senza mai dargli un attimo di tregua o riposo. Senza mai dargli l'occasione di formulare una risposta che potesse appagarlo.
Perché una risposta, effettivamente, non c'era. Se solo avesse posto la domanda al suo gruppo di amici, probabilmente qualcuno come Jacopo, illuminato da un bagliore di coscienza, avrebbe detto: "perché la società ci impone di mostrarci compassionevoli nei confronti degli altri, ci suggerisce di accettare gli altri perché siamo tutti perfetti, ma dentro di noi sappiamo che in realtà si tratti solamente si perbenismo e falsità, perché se quei difetti li avessimo noi non li apprezzeremmo, ma li nasconderemmo, disgustati da essi."
A quel punto qualcun altro, vagamente identificabile con Pietro o Marco, avrebbe risposto con un classico: "la società ce lo impone? Ma quale società? La società siamo noi - io, tu e tutti loro - e nessuno impone niente a nessun altro."
Quindi, la morale qual è? L'accettazione non dipende da una formale conformazione all'ideologia di massa, ma dal puro e spontaneo sentimento di amore che ci permane e ci lega tra noi? Ma è applicabile a tutti?
Andrea non riusciva a trovarsi d'accordo con se stesso. Non trovava una spiegazione del suo stesso comportamento.
Lui riusciva ad accettare chiunque, amava chiunque. Non c'era niente di così strano o così sbagliato nelle persone che lo circondavano da provocargli odio o disprezzo nei loro confronti. Ma non poteva sopportare l'idea di essere a sua volta visto come un soggetto "problematico" da parte degli altri. Non poteva sapere cosa passasse per la loro mente, non aveva la certezza che, a parti inverse, lui sarebbe stato accettato da loro.
I suoi genitori, per esempio, cosa avrebbero pensato?
Lo avrebbero odiato così come si stava odiando da solo? O gli avrebbero fatto una carezza sulla testa - come quelle che lui faceva ad Akhen - e gli avrebbero detto: "non preoccuparti, figliolo, vai bene così come sei"?
"Così come sei". Suonava più come un: "avremmo preferito che tu fossi diverso da ciò che sei, ma purtroppo dovremmo accontentarci."
No, Andrea non avrebbe dato loro l'ennesima delusione. Ne avevano già avuto la loro buona dose quando aveva preso la decisione di lasciare l'università per dedicarsi alla musica. Loro non glielo avevano mai fatto pesare in modo esplicito, traspariva gentilezza dal loro tono di voce quando dicevano: "siamo felici che tu abbia deciso di intraprendere la strada che preferisci". Ma Andrea non aveva mai creduto alle loro parole. Nessuno avrebbe preferito un figlio rapper a un figlio contabile.
E nessuno avrebbe mai voluto un figlio con le sue stesse tendenze sessuali.
Era ciò che lo facesse imbestialire di più. Non era gay, non lo era mai stato, aveva avuto più donne che amici nel corso della sua vita. Perché proprio adesso? Perché era dovuto succedere quest'imprevisto?
Era stata tutta colpa di Duccio.
Lo aveva innegabilmente affascinato. C'era qualcosa di magnetico nel suo sguardo verdastro e triste, nelle sue lunghe dita che stringono una matita 5B e navigano tra le pagine di un bloc notes, nelle linee confuse dei tatuaggi sul suo braccio destro. Andrea si era reso conto di essere sempre più ipnotizzato da lui, giorno dopo giorno. Di quel ragazzo piccolo e fragile che andava ogni giorno a rintanarsi nel suo angolo di bunker ad aspettare il suo turno. Parlava poco, ma sapeva sempre riservare un sorriso o una parola di incoraggiamento a tutti. Andrea pensava di essere migliorato da quando Duccio aveva cominciato ad assistere alle sue performance, abbandonando il suo materiale da disegno sul pavimento per poter fermarsi a guardarlo. E si era reso conto di essere fottuto, di trovarsi in trappola, di essere caduto dentro a un buco nero nell'esatto momento in cui aveva realizzato di star impugnando il microfono nella speranza di ricevere, una volta concluso, un complimento da Duccio. Di star bramando ferocemente un semplice: "bravo, Andrea, mi sei piaciuto molto oggi" da parte sua.
Andrea odiava Duccio. Odiava l'effetto che quel ragazzo faceva su di lui. Era talmente stupido, talmente insensato questo sentimento che Andrea non riusciva a spiegarselo e continuava a chiedersi: "perché? Perché lui? E perché è successo proprio a me?"
Non aveva mai avuto avvisaglie prima, mai. Non c'era mai stato prima d'allora un ragazzo che gli avesse fatto sorgere dei dubbi sul proprio orientamento. Non aveva mai guardato un ragazzo e pensato: "è bello quanto il sole" prima di conoscere Duccio. Non aveva mai desiderato così tanto poter passare le dita tra i capelli di qualcuno, o poter sfiorare il suo stomaco scoperto dal crop top che indossava.
Andrea non meritava di provare questi sentimenti proprio adesso. Lo facevano sentire fuori luogo. Non riusciva a smettere di chiedersi: "questo lato di me è sempre esistito o sono impazzito improvvisamente?" Di conseguenza, era colpa di Duccio, o era colpa sua?
«Andrea.»
La sua voce che lo chiamava lo fece trasalire. Andrea era innamorato della sua voce, così melodiosa anche quando non cantava. Avrebbe ascoltato Duccio per ore. Non a caso il suo Spotify da un po' di tempo riproduceva solamente Amaranto.
«Dimmi.»
«Ti stai addormentando? Sei così assorto.»
Il fumo della sua Personal si propagava attraverso il piccolo spazio che divideva i loro due corpi, distesi sul telo mare che Duccio aveva portato. Di fronte a loro, si distendeva la nera immensità del mare, che Andrea distingueva dal cielo solo grazie alla presenza di un faro in lontananza.
Tra le tante cose che non riuscisse a spiegarsi, andava annoverata anche la scelta di organizzare quest'amichevole uscita così ambiguamente romantica insieme alla fonte di tutti i suoi disagi, in un luogo talmente silenzioso da rendere impossibile ogni tentativo di distogliere l'attenzione dal suono del suo respiro o delle sue esalazioni di fumo.
Tra l'altro, la calma tutt'attorno non faceva altro che esaltare il loro isolamento dal resto del mondo. Erano solo loro due, nel nulla. Solo Andrea e le sue tentazioni.
«No, mi stavo solo godendo il silenzio, per una volta in cui mi trovo lontano dal bunker.»
Duccio sorrise.
«Già. A volte sento davvero la necessità di isolarmi da loro.»
Nel suo "loro" Duccio non comprendeva anche lui?
«Eppure sei qui insieme a me.»
«Tu non sei come gli altri.»
Autocontrollo. Dignità. Avventarsi sulle sue labbra non era un'opzione contemplabile.
«Che intendi dire?»
Dalla bocca di Duccio uscì l'ennesima nube di fumo. Si prese qualche istante di tempo per rispondere.
«Io li amo, ma spesso ho bisogno di stare sulle mie. Loro me lo impediscono, mi stanno intorno, mi spronano a parlare. Sai che non sono fatto per socializzare a lungo. E tu sei diverso, mi permetti di essere me stesso. Potrei restare zitto tutto il tempo e non ti stancheresti. Sei l'unica persona da cui non mi sono mai sentito giudicato.»
Quella confessione fece esplodere di gioia il cuore di Andrea. Sapere che Duccio si sentisse a suo agio insieme a lui era la sua massima realizzazione personale. Da un po' di tempo ormai aveva capito di star ponendo la felicità di Duccio al di sopra di qualunque altra aspirazione egoistica avesse mai avuto, nonostante gli piacesse negare tale verità.
Duccio era il suo pensiero costante, qualunque cosa lui facesse. Non c'era niente di più importante al mondo del suo benessere, e Andrea ce la metteva tutta, ogni giorno, per contribuire a esso.
«Non mi stancherei mai di te, Du.»
Non sapeva perché la sua replica fosse stata proprio questa. Aveva a disposizione un arsenale di ottime risposte, ma aveva scelto una delle più imbarazzanti e fraintendibili. Più il tempo passava, più Andrea si accorgeva di star diventando stupido. Odiava sentirsi così tanto impacciato di fronte a qualcun'altro, e odiava sentirsi in difficoltà e non riuscire neppure a esprimere correttamente ciò che avrebbe voluto solamente a causa degli occhi di Duccio su di sé. Odiava la sensazione di disagio che provava ogni qual volta avesse l'impressione di aver detto qualcosa di ridicolo, e l'apnea che precedeva una risposta da parte del suo interlocutore.
Odiava Duccio per averlo indotto a odiare se stesso. Aveva smesso di sentirsi abbastanza da quando era impazzito per lui, e sapeva che non sarebbe mai riuscito a liberarsi da questo disprezzo per i suoi sentimenti, qualunque cosa facesse Duccio.
Se fosse stato rifiutato da lui, o se Duccio si fosse messo con un'altra persona, Andrea sarebbe morto dal dolore. Ma se fosse stato ricambiato, la situazione sarebbe stata migliore?
Andrea conosceva la risposta. No, non lo sarebbe stata, anzi. Vivere un vero e proprio amore con un uomo lo avrebbe costretto a far fronte a qualcosa di più grande di lui. Non sarebbe più potuto scappare, non avrebbe più potuto negare il fatto che la sua intoccabile eterosessualità fosse solo una farsa.
Probabilmente, se Andrea fosse stato semplicemente gay, si sarebbe accettato più volentieri. Si sarebbe rassegnato. Ma il fatto che, nonostante l'ossessione per Duccio, fosse ancora parzialmente attratto dalle donne lo frenava. Gli dava una speranza.
Magari, un giorno, sarebbe guarito.
Perciò non valeva la pena rischiare.
«Grazie, Andrea.»
Duccio appoggiò la testa sulla sua spalla. Era il contatto più intimo che avesse potuto sperare da parte sua.
«Mi canti una canzone?» gli chiese.
Andrea era sorpreso dalla richiesta.
«Certo, quale vuoi?»
«Pensavo a Solo X.»
Duccio stava mostrando interesse nei confronti delle sue canzoni da solista. Forse era una cosa scontata, ma per Andrea significava tanto.
Cantò quella canzone per lui. Essendo a cappella, Andrea poté renderla acoustic, più lenta di come fosse in realtà. Era innegabile il suo disagio nel rompere il silenzio della spiaggia intonando una strofa così tanto personale, avendo ancora la testa di Duccio su di lui e i suoi capelli a solleticargli il collo.
«Grazie» mormorò Duccio alla fine. «Questa canzone significa molto per me.»
«Veramente?»
«Sì. Mi rispecchia abbastanza, credo.» A quel punto Duccio si risollevò. I loro occhi ripresero a riflettersi gli uni negli altri.
«Non capisco però come possa rispecchiare te» ammise.
Andrea distolse lo sguardo. Si sentiva impotente di fronte alle parole di Duccio. Era alle spalle al muro, intrappolato. Il suo amico si aspettava di ricevere la verità, e probabilmente se la meritava.
«Non sono ciò che mostro a voi. Vorrei poterlo essere veramente» confessò, infine. «Cerco di convincere me stesso che lo sono, e per questo evito di affrontarmi. Se lo facessi, scoppierebbe una guerra dentro di me. A volte mi odio veramente perché non riesco a capire cosa voglio, e a volte mi odio perché lo capisco e mi rendo conto che ciò che voglio non equivale a ciò che gli altri si aspettano da me. So che a nessuno piacerebbe l'Andrea che sono veramente, e io non voglio deludervi, davvero. Non voglio rimanere da solo. Quando sono da solo, tiro fuori solo il peggio di me. Vivere così mi fa male, ma mi farebbe ancor più male vivere sapendo di essere disprezzato da chi credeva di amare qualcuno che non ero io.»
Le ultime parole uscirono spezzate dalla sua gola. Gettò la testa all'indietro, tenendo gli occhi spalancati. Le sue ciglia stavano trattenendo con tutta la loro forza le lacrime che minacciavano di uscire. Non avrebbero mai avuto il permesso di farlo, non davanti a qualcuno. Non davanti a Duccio.
«Andrea, parlami. Non avere paura di me.»
E invece Andrea aveva paura di lui, dell'effetto che gli faceva, di ciò che provava nei suoi confronti. Ne era terrorizzato.
Non disse nulla, sapeva che se avesse parlato avrebbe rischiato di scoppiare in un pianto nervoso. Trasse profondi respiri per cercare di calmarsi, cercando di isolare la propria mente e costringerla a non rendersi conto del fatto che Duccio lo stesse fissando, preoccupato per lui.
«Andrea, guardami.»
Duccio prese il suo viso tra le mani. Andrea avrebbe voluto che si allontanasse. Stava solamente peggiorando la situazione.
«Odiarti non serve a niente, e neanche scappare dalla realtà. Qualunque cosa tu nasconda, chiunque tu sia, non cambierà mai ciò che gli altri provano per te. Tu non rimarrai mai da solo. Siamo una famiglia. 44 è per sempre, ricordi?»
Andrea annuì con poca convizione. Avere il suo volto a una così breve distanza dal suo gli dava alla testa. Aveva una paura fottuta di non riuscire più a mantenere il controllo sulle sue azioni.
«Io non ti lascerò solo. Io sono qui, con te, e lo sarò sempre. Mi capisci? Morirei piuttosto che lasciarti.»
Andrea annuì di nuovo, interdetto. Poi, d'improvviso, Duccio lo baciò. Sentiva la pressione dei suoi polpastrelli sulle sue guance. Sentiva il suo respiro caldo addosso. Sentiva le sue labbra su di sé.
Andrea temeva che, prima o poi, si sarebbe staccato. Avrebbe dovuto trattenerlo. Stringergli i fianchi. Far scivolare la lingua sulla sua finché non sarebbero rimasti entrambi senza fiato, e a quel punto fermarsi a contemplarlo per un attimo, per poi affondare i denti sul suo labbro inferiore e ricominciare, ancora e ancora.
Ma Andrea rimase immobile. Duccio si allontanò da lui, fece ricadere le sue mani dal suo viso, e nei suoi occhi c'era paura. Paura di aver commesso un grande sbaglio che gli sarebbe costato più di quanto credesse.
Andrea capiva quella paura, la provava ogni giorno, ogni volta in cui le guance di Duccio diventavano rosse, o si portava una mano alla bocca per nascondere la sua risata, o cantava delle strofe d'amore sulle basi di Jacopo.
Non gli sarebbe bastata una vita intera per poter contare le volte in cui avrebbe voluto afferrarlo e baciarlo, ma alla fine si fosse sempre trattenuto per paura. Di lui, dei loro amici, dei suoi genitori, di se stesso.
«Scusami, non avrei dovuto. Non fraintendermi, non c'era nessun secondo fine.»
Duccio si stava arrampicando sugli specchi. Era perso. Era distrutto da ciò che aveva appena fatto. Era consapevole di aver sprecato una potenziale amicizia eterna per una manciata di secondi in preda all'istinto. Sapeva che la sua coscienza sarebbe stata divorata dal senso di colpa e dall'odio più nero verso sé per tutte le notti a seguire.
Andrea immaginava come si sentisse Duccio, e lo capiva.
Per questo avrebbe dovuto rassicurarlo. Sorridergli, accarezzargli il viso. Dirgli che non avesse fatto assolutamente nulla di sbagliato, perché era follemente innamorato di lui. Farlo distendere sul telo per poter fare l'amore con lui tutta la notte, sotto le stelle, con la sabbia a grattare la loro pelle. Dirgli che sarebbe andato tutto bene, perché si amavano, e non c'era nulla di sbagliato in ciò.
Ma Andrea non lo fece. Gli disse: «Non preoccuparti, non fa niente.» Poteva vedere il senso di colpa e la delusione fucilare il corpo di Duccio. Per un attimo, forse, ci aveva sperato. Anche Andrea, in realtà.
Restarono in silenzio, per minuti che parvero interminabili. Non avevano il coraggio di guardarsi. La Personal di Duccio era stata gettata sulla sabbia, la quale era diventata nera per la cenere tutt'attorno, e si era spenta. Il suo IPhone giaceva lì vicino. Arrivò una notifica e il display si accese, rivelando l'orario. Spontaneamente, entrambi si volsero a guardarlo.
«È quasi l'una» mormorò Duccio. «Andiamo?»
«Sì» rispose Andrea, alzandosi, grato di quel pretesto per poter scappare. Duccio lo imitò, e in pochi minuti raccolsero tutto ciò che avessero portato. Camminarono fino ad arrivare sulla strada, dov'era parcheggiata la moto blu di Andrea - la quale aveva deliberatamente ispirato l'omonima canzone. Era nata per scherzo, ma era sempre stata una delle sue preferite. Ascoltarla o cantarla gli faceva pensare a tutti i giri fatti su di essa insieme a Duccio. Come sempre, ogni cosa, compresa l'aria che respirava, era riconducibile a lui.
Indossarono i caschi e salirono. Fortunatamente, Duccio era sempre stato abituato a reggersi sui sostegni e non aveva mai provato a stringersi a lui. In caso contrario, avere le sue braccia avvolte attorno alla schiena sarebbe stata la sua fine.
Lo accompagnò a casa. Si fermò davanti al cancello senza neanche spegnere il motore. Non poteva fermarsi, non avrebbe saputo cosa dire.
Duccio gli restituì il casco.
«Grazie.»
«Figurati.»
La freddezza del loro dialogo era come un coltello che vivisezionava il cuore di Andrea. Gli faceva male. Tanto male.
«Allora, buonanotte» disse Duccio. Teneva la testa bassa. Probabilmente quella notte l'avrebbe passata insonne, a piangere, maledicendosi. Pensando che fosse tutta colpa sua.
Andrea avrebbe voluto scendere dal suo mezzo, sfilarsi il casco dalla testa, affondare le dita tra i riccioli rossi di Duccio. Sussurrargli all'orecchio che andava tutto bene e che avrebbe dovuto dirglielo prima, in spiaggia. Che non fosse sua intenzione fargli credere di aver sbagliato, perché non aveva sbagliato veramente niente. Chiedergli di poter rimanere da lui, per quella notte.
Cosa sarebbe successo se lo avesse fatto?
Andrea credeva di saperlo. Con pochissimo sforzo poteva immaginare come sarebbe stato, l'indomani mattina, svegliarsi con il corpo di Duccio tra le braccia. Era uno dei suoi sogni a occhi aperti più ricorrenti.
Era ciò che desiderava più al mondo, e probabilmente valeva lo stesso anche per Duccio.
Ma non poteva cedere, non adesso. Se avesse toccato il fondo, non sarebbe più potuto tornare a galla.
«Buonanotte. A domani.»
Andrea ripartì.

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