18.

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Erano passati due giorni.

Quarantotto ore, e io mi sentivo morire.

Gli occhi mi pizzicavano, nonostante avessi smesso di piangere la notte seguente all'accaduto, e mi ero chiusa in camera di Rune a sfogare tutto sul mio quaderno. Avevo finito le pagine.

Ero uscita da quella stanza per pranzare e cenare, e dati gli orari sbalzati di tutti i coinquilini, mi ero ritrovata a pranzare due volte con Aaron, che per tirarmi su il morale mi propose di vedere un cartone animato, e a cenare con Megan, che mi aveva parlato per tutto il tempo di una chitarra che aveva ordinato su un sito pirata, o qualcosa del genere. Non avevo posto molta attenzione. Fortunatamente, nessuno si era posto il problema di ospitarmi: forse sapendo della mia situazione, nessuno avrebbe avuto il coraggio di mandarmi fuori con un calcio nel sedere. Ma, di sicuro, esistevano persone che lo avrebbero fatto veramente, quindi li ringraziavo per avermi accolta.

Stando a come gestire la mia vita, ero in balia di un senso di depressione che mi negava di pianificare qualcosa. Di certo, non sarei rimasta lì a lungo: non mi andava di infastidire, e in più non mi conoscevo abbastanza per prendere la briga di mettermi sotto il loro stesso tetto.

Avrei dovuto gestirmela un passo alla volta: primo punto, riprendere le mie cose. Sarei stata costretta smantellare quella che era stata la mia camera da quando io e la mia famiglia avevamo messo piede in California, e rifarmene un'altra in qualche appartamento mi stringeva il cuore.

La camera di papà... anche quella doveva essere salutata per sempre.

Mentre scorrevo tra le soluzioni di appartamenti che internet mi offriva, guardai il mio avambraccio tatuato. Un ammasso nero e informe, che, differentemente da quanto si potesse pensare, era stata la mia valvola di sfogo. La mia stessa pelle macchiata dal dolore che avevo e stavo provando.

Mi mancava mamma. Mi mancava papà. E mi sentivo una bambina stupida che aveva distrutto l'intero castello di carta.

Lontani da me a distanze inimmaginabili, mi sentivo come una foglia in balia del vento, staccata dal ramo a cui ero ancorata.

Era arrivato il momento di alzarsi, per andare a mettere qualcosa nello stomaco e cercare di darsi una sistemata. Poco alla volta, ne sarei uscita.

Infilai le ciabatte che, fortunatamente avevo nel borsone, e mi arrogai il diritto – non gli avrebbe dato fastidio – di frugare nell'armadio di Rune per rubarmi una felpa. Ciò che mi ero portata a Denver l'avevo già indossato nei giorni prima, ed era anche per quello che avrei avuto bisogno di fare un salto a casa.

Mentre passavo il rassetta tutte le grucce, gli abiti strusciavano su una scatola di scarpe che apparentemente sembrava innocua. Se non che, sopra era stato appiccicato del nastro carta con su scritto i nomi dei fratelli. Freja e Axel.

Di una cosa era certa: tutte le sue caratteristiche dispregiative erano direttamente proporzionali alla quantità di amore infinito che Rune riponeva in loro due. Ed erano tanti i suoi difetti.

Con il passare del tempo mi lasciavo sempre più andare alle onde Andersen, un po' perché mi sentivo sola, e un po' perché mi trasmetteva un senso di sicurezza che mi faceva sentire intoccabile. Era difficile da spiegare, ma per una ragazza bisognosa di attenzione anche una margherita poteva diventare un bouquet. Avrebbe potuto rivelarsi in qualcosa di pericoloso, certo, ma era più interessante il rischio che una noiosa vita passata a diffidare.

Mi diressi al primo piano e, stranamente, nonostante fossero le dieci di mattina, erano già tutti alle prese con qualcosa intorno all'isola della cucina.

<<Fa schifo questa strofa>> si lamentò Jay, mentre schiumava il suo cappuccino. Intanto Aaron, rovistava qualcosa in frigo, e Rune e Megan prendevano posto agli sgabelli con un quaderno davanti e sigarette fumanti.

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