.Ichi

71 6 5
                                    

Richiuse con rituale lentezza la porta alle sue spalle custodendone, ancora una volta, il mistico segreto gelosamente racchiuso in quello scrigno di carta di riso e legno.
Il morbido frusciare della stoffa del kimono e il ticchettio legnoso di passi forzatamente ravvicinati, si confusero con lo scalpitio scomposto degli zoccoli di alcuni cavalli e un vociare confuso così estraneo alla silenziosa solennità di quella casa.
S'affrettò all'ingresso, scorgendo le sagome di quattro samurai a cavallo; solo una di queste le era familiare.
Sedette inginocchiandosi in terra sul portico, dispose elegantemente le mani sul ventre lasciando che la lunga chioma corvina assecondasse i fluttui del vento.
"A quanto pare, quest'anno, i fiori di ciliegio hanno portato novità" pensò, modellando le sue labbra in un lieve sorriso.
I quattro visitatori, nell'avvicinarsi, non poterono che abbandonarsi alla bellezza del luogo, gradualmente svelato loro dal lento diradarsi delle fronde degli alberi. Completamente immersa nel verde, quella casa di carta e bambù, non sembrava nemmeno artificio dell'uomo tanto era in armonia nella sua austera semplicità, con quella natura delicata e altresì potente.
Particolarmente rapito da quell'aurea d'equilibrio e serenità, al più giovane del gruppo, persino la cascata che si ergeva alle spalle dell'abitazione parve irrealmente silenziosa.
«Arai-sensei, a cosa devo l'onore?» il padrone di casa raggiunse i cavalieri, sorpreso e al contempo allarmato da quella visita inattesa. Il samurai più anziano scese da cavallo, tralasciando ogni formalità, si avvicinò sorridente all'uomo ponendogli pesantemente una mano sulla spalla «Anch'io sono felice di vederti, figliolo!»
Era ormai trascorso un lustro dal ventuno ottobre del milleseicento, data della cruenta battaglia di Sekigahara e il Giappone, da secoli straziato dalle guerre civili, viveva in pace. L'ascesa al potere dello Shogun Tokugawa Ieyasu segnava l'inizio di una nuova e fiorente era che verrà ricordata dalla storia come Periodo Edo.
La casta dei Samurai venne insignita di privilegi e onorificenze, consacrando coloro che vi appartenessero come eroi. Ed erano eroi i due uomini che ora si fronteggiavano: entrambi condividevano il privilegio d'aver fatto ritorno dall'inenarrabile inferno in terra che fu Sekigahara.
Il più anziano dei due, altri non era che Hakuseki Arai, il consigliere capo dello Shogun, famoso per la sua attitudine alla guerra e grande abilità nelle arti marziali. Si vociferava che la schiacciante vittoria dei Tokugawa si dovesse proprio alle sue spiccate doti di stratega.
Dinanzi a lui, proprietario di quell'oasi di pace poco distante da Edo, vi era Jou Honda, samurai che, più di tutti, si era distinto nello scontro diventando emblema della potenza e della superiorità militare dello shogunato, per questo soprannominato Dragone di fuoco.

Le sottili pareti del Benjo riuscivano malamente a trattenere le voci dei due uomini.
La donna, con movimenti leggiadri e controllati, servì loro del sake.
I due ne bevvero un sorso per poi riprendere la loro conversazione.
«Jou, quel giovane... » l'anziano samurai diresse lo sguardo verso l'esterno, in direzione dei suoi uomini occupati a rifocillare i cavalli «sai già perché l'ho condotto qui, vero?»
L'uomo annuì con disappunto «Sensei, non credevo fosse necessario ma mi trovo costretto a esprimere nuovamente la mia volontà di non prendere nessun allievo sotto la mia responsabilità per via di motivazioni che vi sono ben note e non sto qui a ripetere.»
Hakuseki, maestro di Jou, conosceva bene l'indole inflessibile dell'uomo. Ricordava bene come questi non si fosse mai piegato a nulla, nemmeno al destino.
«Suvvia, da quando in qua hai preso a parlarmi con tono così ufficiale?»
«E da quando, sensei, venite in casa mia a darmi ordini?»
L'uomo sorrise divertito, no, fortunatamente quel suo smalto riottoso non l'aveva ancora perso.
«Quello lì, lo vedi? Quel ragazzo è l'allievo migliore del Dojo. Da semplice vestitore si è meritato l'onore di accedere agli insegnamenti per divenire Samurai distinguendosi per dedizione e coraggio. Presto raggiungerà la maggiore età e ha bisogno di una guida» fece Hakuseki ignorando il ringhio sommesso che ricevette per risposta. Jou scrutò distrattamente la figura del suo aspirante allievo «cos'avrà... diciassette anni?» borbottò.
«Diciotto» lo corresse repentinamente il maestro «il suo nome è Hidetada. Il suo clan è stato distrutto durante la guerra, lasciandolo orfano. Ha vissuto tra le mura del Dojo e ora è tempo che trovi la sua strada.»
«Un altro figlio della guerra... » sospirò Jou, sempre meno propenso ad accogliere una proposta che sapeva di non poter rifiutare.
«Jou, figliolo» lo richiamò il consigliere «lo sai, fosse dipeso da me non avrei mai portato qui quel giovane. Ma mi è stato ordinato e dallo Shogun in persona. L'ha visto combattere e vuole assolutamente che sia il grande Jou Honda a prendersene cura... d'altro canto, sei sempre stato il mio allievo migliore.»
«Non sono mai stato il migliore» Jou espirò profondamente «il più forte, ma non il migliore.»
Hakuseki, ben conscio del significato di quelle parole, cercò di persuaderlo alla meglio «Posso garantire che il ragazzo è davvero meritevole, non ti darà più noie del dovuto. Anzi, avere una distrazione non potrebbe che giovare al tuo umore.»
«Maestro» Lo sguardo di Jou si fece distante, come se schermato in un alone di dolore e rabbia «e sia. Il ragazzo resterà qui, in casa mia ma, sia ben chiara una cosa, io non ho nulla da insegnargli.»
L'anziano vuotò il contenuto alcolico della sua ciotola e scosse rassegnato il capo «non posso certo costringerti... Me la farò stare bene così. Sai, ho esaurito ogni tipo di scusa con lo Shogun: desidera la tua presenza a palazzo e io non so più cosa inventare.»
Si alzò e raggiunse il suo ex allievo ritto accanto alla porta scorrevole lasciata aperta sul giardino interno. Un sorriso accentuò i segni del tempo sul suo volto, sorriso che nacque capendo ciò di cui Jou aveva pieno gli occhi
«Yuki diventa ogni giorno più bella e saggia. Sono sicuro che riuscirà a prendersi buona cura di entrambi.»

Il giovane si osservava attorno ancora stranito. Quando Hakuseki Arai gli aveva annunciato che sarebbe stato l'allievo del grande Jou Honda, il suo corpo era stato irrorato d'un brivido di paura e al contempo di eccitazione. Honda era l'eroe a cui da sempre, ogni allievo del Dojo si era ispirato e il solo fatto di poter fare la sua conoscenza, per lui orfano di guerra, era un privilegio che non credeva nemmeno di meritare.
La sua mente aveva incessantemente fantasticato sulle fattezze di quell'uomo divenuto ormai leggenda: tutto aveva potuto figurarsi, ma mai ciò che ora gli si trovava dinanzi.
Quella piccola casetta in mezzo al bosco, abitata probabilmente da due o tre persone, era ben distante dall'immenso castello circondato da un fossato di lava a cui guardia v'erano feroci belve mitologiche e uno stuolo di fedeli servitori orbi.
Si biasimò per aver dato tanto credito alle dicerie della gente ma, non poté fare a meno di provare come un senso di delusione nel costatare la loro totale incongruenza con la realtà.
Dopo la magnifica parata militare tenutasi in onore della vittoria di Sekigahara, Jou Honda non aveva fatto più ritorno a Edo.
In quell'occasione, la sua immagine fu talmente tanto terrificante da divenire memorabile: l'armatura da principio nera, era divenuta rossa tanto si era impregnata del sangue nemico; Il conto delle teste tagliate dalla sua katana non pareva avere fine né essere calcolabile. L'assenza del samurai nella città, invece che limitarne la fama, non fece che aumentarla a dismisura e molte furono le storie, anche parecchio inverosimili, che si vociferavano attorno al suo nome. Una delle più popolari vedeva l'eroe di guerra impossibilitato a mostrarsi in pubblico poiché, a seguito di un combattimento con un drago, ne avesse assunto le ibride sembianze e da quel momento, chiunque ne incrociasse lo sguardo, sarebbe morto arso vivo dalle sue iridi di fuoco.
Non che Hidetada avesse davvero creduto a quelle storie ma, lui che aveva impresso in mente l'immagine del guerriero dall'armatura scarlatta intravisto a stento attraverso le fessure che la gente lasciava libere durante la parata, quasi stentò a riconoscere il grande Honda in quell'uomo sulla trentina, vestito di abiti semplici e completamente disarmato. Ciò nonostante, egli emanava una potenza palpabile, tale da negargli l'ardire di guardarlo in quegli occhi più profondi e gelidi del vuoto.
Soggezione, ammirazione, rispetto; scorse la figura imponente e massiccia di Jou, soffermandosi su alcune cicatrici che lo yukataaperto lasciava intravedere su di un petto scolpito nel marmo. Studiò la sua espressione fiera e contratta e misurò i suoi lineamenti. In quel samurai c'era qualcosa, qualcosa che non riusciva a decifrare in parole ma che al suo spirito pareva ben chiaro.

Il consigliere e la sua scorta erano andati via da parecchio tempo, probabilmente avevano già raggiunto la città. A Hidetada non erano state date molte spiegazioni ma, se in quel momento si trovava lì, poteva solo significare che la richiesta di Hakuseki Arai era stata accolta e Honda era divenuto il suo sensei.
Una donna lo aveva scortato in quella che sarebbe divenuta la sua stanza.
«Per qualsiasi cosa, rivolgiti pure a me.» gli disse con fare gentile mentre stendeva in terra il futon per la notte. Hidetada guardò i suoi movimenti aggraziati e ne fu come rapito; non sapeva nemmeno più quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che una donna gli avesse rivolto la parola ed era certo che non poteva essere tanto bella. La sua infanzia carezzata da mani di pesca era oramai, solo un ricordo sbiadito.
«Anche voi vivete qui, in questa casa, Iwasaki-sama?»
La donna che non dimostrava di avere più di venticinque anni, gli sorrise annuendo.
«Certo... scusate la domanda.» Il giovane prese a sedere cercando di tenere a freno la sua insoddisfatta curiosità. Nascevano nella sua testa le domande più improbabili, avrebbe voluto chiederle di Honda, sapere tutto di lui e sapere anche tutto di lei.
«Qui viviamo solamente io e Jou ma da oggi, pare saremmo nuovamente in tre.»
Fulminea alla memoria del ragazzo rinvenne un'immagine, quella di tre nomi incisi sull'ingresso dell'abitazione: a chi appartenesse il terzo, lo avrebbe scoperto solo in seguito.
«Puoi chiamarmi semplicemente Yuki... e no» aggiunse la donna precedendolo «se te lo stessi chiedendo, io non sono né sua moglie, né una serva.»


Le giornate assolate di una primavera ancora acerba fluivano inarrestabili nel loro monotono susseguirsi.
Le abitudini giornaliere del samurai non avevano subito alcuna modifica dall'arrivo di Hidetada, se non quella d'avere uno spettatore d'eccezione.
Hidetada, divenuto l'ombra del suo maestro, ne seguiva meticolosamente ogni movimento, anche il più trascurabile. Si era convinto che, osservare la quotidianità del samurai, fosse una sorta di esercizio preliminare all'allenamento vero e proprio che ne sarebbe seguito. In effetti, quella sua convinzione, era stata più volte fomentata dalle parole d'incoraggiamento di Yuki che, eterea ed enigmatica, lo spronava a perseguire su quella strada e aspettare pazientemente un cenno del suo sensei.
Jou, dal canto suo, lo lasciava fare: semplicemente, lo ignorava.
Certo, dovette scendere a patti con la sua impazienza prima di poter accettare quel tacito compromesso. Ogni fibra del suo essere non attendeva altro che apprendere le più segrete tecniche di combattimento e dimostrare il suo valore al disinteressato Sensei. Ma, con il passare dei giorni, seppure la foga dell'agire non sembrava scemare, prese ad apprezzare anche la sola pratica dell'osservazione. Era un onore, un onore immenso anche solo poter essere in presenza di un uomo di quel calibro e Hidetada iniziava a percepirla distintamente tutta la forza e la potenza dello spirito del samurai, tanto da sentirsene sopraffatto.
Non seppe dire se si trattasse di suggestione o realtà ma, il giovane era sicuro d'aver visto dei fili d'erba piegarsi prima del passaggio di Jou e l'aria fendersi tra le sue dita. Eppure tutta quella potenza era visibilmente trattenuta, come assopita; se mai questa si fosse fusa alla rabbia malcelata dal suo sguardo, non avrebbe potuto che generare distruzione.
Era il silenzio assoluto a governare quelle ore scandite da meditazione, pesca ed esercizio fisico, silenzio e indecifrabilità. L'allievo cercava diligentemente di non perdere mai di vista il maestro ma, al tramonto questi puntualmente s'eclissava, evaporando silenziosamente nelle ombre allungate del bosco.
Era merito di Yuki se quell'improbabile equilibrio definitosi tra i due restava stabile: instillava metodicamente pazienza in Jou e speranza in Hidetada.
Il ragazzo, tuttavia, pareva perdersi sempre più d'animo e se ne stava abbandonato per lunghe e solitarie ore, alla noia. Così Yuki decise di coinvolgerlo nei suoi studi nutrendo il suo spirito.
Rassegnato, Hidetada, si lasciava cullare dalla melodiosa voce di Yuki, intenta a recitare poesie o a discutere di trattati filosofici scintoisti. La fame della sua cultura era grande ma mai quanto quella della sua curiosità: l'autore di tutti quei saggi e componimenti, nonché dipinti e sculture, portava lo stesso nome di cui non aveva ancora osato chiedere, quel nome inciso sull' ingresso di casa e che non apparteneva a nessuno dei suoi abitanti: Tagashi Yamamoto.
«Cosa c'è? ti vedo pensieroso, Hidetada.»
«Yuki-sama, no... è solo che mi stavo chiedendo che senso abbia la mia presenza qui... Ormai mi è ben chiaro che Honda-sensei non mi ritenga all'altezza e che non abbia alcuna intenzione di iniziare ad allenarmi. Forse dovrei... credo sia giunto il momento di andare via e tornarmene al Dojo.»
La donna ripose un tomo riponendolo sul tavolo e poi chiese lui: «Dimmi, Hidetada, Jou-sama ti ha mai intimato di lasciare casa sua?»
«No, non lo ha mai fatto. Ma...»
«E dimmi, ti ha mai detto di non voler essere tuo maestro?»
«No, non ha detto neanche questo. A dire il vero, non mi ha rivolto parola quindi è molto difficile rispondere affermativamente alle vostre domande.»
Yuki sorrise scuotendo il capo «ti prego, Hidetada, cerca di avere fiducia. Sono sicura che la tua pazienza verrà ripagata.»
«Lo dite come se ne foste certa. Honda-sensei a mala pena sopporta la mia presenza.»
«Oh ragazzo, lascia al tempo il compito di riallineare gli eventi. Al tempo e... a me.»
Sorrise lui ancora una volta.
Quella nuova presenza in casa era, anche se impercettibilmente, una piacevole distrazione, sia per lei che per Jou, costretto a sottrarsi alla solitudine delle sue giornate. Yuki aveva preso a cuore quel ragazzotto dai grandi occhi vispi e dal cuore terso come il cielo di primavera. Lei conosceva bene la motivazione per quale Jou negava i suoi insegnamenti all'allievo, la stessa motivazione che lo aveva spinto ad allontanarsi dalla vita agiata e di immense ricchezze che lo attendeva a Edo ma sperava che formare quel giovane alla via della spada, avrebbe potuto dispensare almeno un po' di sollievo al Samurai. In quei lunghi anni di convivenza, osservandolo con occhi attenti, aveva potuto scorgere i mutamenti del suo spirito, lo aveva visto essere pervaso dall'ira, dallo sgomento, dal dolore; lo aveva visto rinnegare sé stesso e dannarsi nell' inconcludenza di una belva in gabbia. E inconcludente s'era sentita anche lei, incapace di sottrarre Jou allo sgretolarsi del suo cuore.
Se l'era chiesto più volte Yuki, persa a rimirarlo meditare, che significato avesse la pace per un guerriero.
Hidetada si lasciò ricadere supino sul futon non distogliendo lo sguardo fisso sulle candide mani di Yuki. Quella donna era colta, saggia, intelligente, fin troppo per una nobile; era raffinata, elegante, bella, fin troppo per una Geisha. Cosa ci faceva in quella casa, con la sola sconveniente compagnia d'un Samurai taciturno e scostante, ancora non riusciva a spiegarselo, Hidetada.
Decise ancora una volta di darle ascolto e seguire il suo consiglio: sarebbe rimasto. Non che avrebbe potuto agire diversamente. Quell'uomo era riuscito a imporre su di lui una sorta di magnetismo irresistibile capace di imbrigliare ogni sua energia a consumarsi nella sua contemplazione.
Hidetada, sprofondato nei suoi pensieri, venne risucchiato in un vortice di dubbi riguardanti il medesimo soggetto. Una sola cosa gli era chiara: doveva fare in modo che il suo maestro prendesse a curarsi di lui, ne andava del suo onore.

Calma e leggiadra, Yuki scivolava morbidamente nelle ombre del corridoio per poi celarsi tra le pareti di una stanza non sua. Era una di quelle notti in cui nemmeno il vento di primavera riusciva a portar via con sé i fantasmi del passato, una notte di quelle in cui le stelle rimpiangono la presenza della luna.
Le sue vesti scivolarono setose in terra svelando la sua pelle di perla. Raggiunse la figura celata nel buio di quella notte e prese a sciogliergli il nodo dell'obi, a spogliarlo lentamente. Il Samurai restava immobile ma i suoi muscoli cedevano rilassati sotto il suo morbido tocco. Carezze leggere smossero il suo corpo al desiderio. Jou socchiuse gli occhi accogliendo l'intimo bacio lenitivo delle labbra di Yuki.
Ne aveva bisogno Jou, aveva bisogno del calore di un corpo che, per quanto fragile, era l'unico ad avere il potere di scalzarlo dalla sua atarassia, di riportarlo, anche per un solo estatico istante, alla vita.
Quella notte, come altre mille notti, Yuki lo avrebbe amato, concedendosi nella sua disarmante nudità nel tentativo di alleviare ciò che logorava l'uomo dall'interno. Dispensava le sue cure ignara dell'effetto che esse avessero, cercando in quell'unione una riconnessione con l'universo. Eppure nel curare, essa stessa trovava guarigione poiché le spalle di Jou, forti e larghe, erano comunque capaci di sorreggere entrambi, schiavi delle stesse pene, schiacciati dagli stessi affanni.

Hidetada scalciò violentemente via le coperte. Erano ormai diverse notti che non riusciva a prendere sonno. Per quanto Yuki cercasse di rincuorarlo a nulla erano valse le sue parole di conforto. Nella mente di Hidetada si rincorrevano frenetici sempre gli stessi pensieri così potenti da forargli lo stomaco.
Si era dato anima e corpo alla via del guerriero, in quegli anni passati al Dojo aveva dato tutto pur di riuscire a diventare un Samurai. Quello non era il capriccio di un giovane orfano che voleva diventare qualcuno, trovare il suo posto al mondo, ma una vera e propria promessa scritta col sangue, quello della sua famiglia.
E lui lo sapeva, sapeva di essere come minimo eccellente, il migliore. Nessuno era riuscito a batterlo; mai. Eppure per Honda-sensei non era abbastanza, lui non era abbastanza. Nemmeno alla prova lo aveva messo.
Hidetada riusciva a sentirle le fitte lanciananti che percorrevano il suo corpo quando il Samurai posava il suo sguardo truce su di lui. Avrebbe voluto leggerci disprezzo, rassegnazione, pietà, qualunque sentimento, invece, non riusciva che a vederci il vuoto, vuoto che scompariva solo a tratti e sempre in presenza di lei. Hidetada si era chiesto più volte cosa si provasse a essere guardati a quel modo dal suo Sensei.
Tuttavia, ciò che lo teneva sveglio la notte non era solo il bisogno di dimostrare il suo valore al maestro, c'era comunque dell'altro...
Tutto era iniziato quando aveva posato per la prima volta gli occhi sul grande Jou Honda o forse, ancora prima. Da principio, la sua, la credette solo ammirazione.
Si era più volte ritrovato a pensare alle storie narrate a voce bassa negli spogliatoi del Dojo, storie di Wakushudo che volevano un legame indissolubile tra allievo e Sensei tale da implicare anche rapporti carnali.
Cosa si era mai aspettato... di trovare una famiglia in quell'uomo? Di trovare qualcuno a cui appartenere, da cui dipendere?
Con la mente persa e il coraggio vacillante uscì dalla sua stanza in cerca d'aria. La camera del Samurai in fondo al corridoio sembrò chiamarlo.
Poi quella nota voce di donna svelò presto cosa le ombre deformate dalla fioca luce della lampada a olio, filtranti attraverso le pareti di carta, descrivessero. Osservò quei corpi compenetrarsi nel chiaro scuro della fiammella e tanto bastò a edificare quella certezza.
Non riuscì ad andare via, cosa che la sua coscienza gli stava imponendo, non riuscì nemmeno a muoversi. Guardò la penombra spezzarsi ritmicamente, sentì le voci farsi più ansanti e desiderò fortemente di essere con loro, lì dentro quella stanza.



L'alba sorprendeva i due amanti ancora sconnessamente avvinghiati nelle coperte trasudanti di passione.
«Sei già sveglio?» Sussurrò Yuki baciando piano una spalla dell'uomo.
Questi la strinse ancor più a sé. Era sveglio come lo era stato tutta la notte solo per guardarla dormire tra le sue braccia e assicurarsi che quello non fosse solo un sogno che lei non era un'illusione che al mattino si sarebbe disciolta al sole.
«Torna a dormire Yuki, è ancora presto.» fece Jou.
«Jou» Yuki approfittò di quel raro momento di tranquillità, forse l'unico in cui Jou avrebbe lasciato che gli parlasse di tale argomento «dovrei parlati del tuo giovane allievo.»
Il Samurai sbuffò indispettito passandosi una mano tra i capelli neri «Cosa ha combinato? Dimmi che hai una scusa per rimandarlo da dove è venuto.»
«Di quali crimini si è macchiato da risultarti così ostile?»
«Ma se gli permetto perfino di assistermi nelle mie giornate.»
«In silenzio.»
«Sì, in silenzio.»
«Sai, è poco cortese il fatto che tu abbia deciso di negagli la parola» disse divertita «la sua compagnia è molto piacevole, perché non provi a...»
«Credo d'avergli concesso più pazienza di quanta non ne disponga. Pensi sia semplice averlo perennemente alle costole?! È indisciplinato, rumoroso e invadente.»
«E non ti ricorda nessuno? Sembra tu stia descrivendo il te stesso di qualche anno fa.»
Del passato però non bisognava parlarne, mai e Yuki ne era consapevole.
Immediatamente il silenzio si fece pesante e le mani della donna s'intrecciarono a quelle del guerriero.
«Tutto accade per un motivo, Jou e anche quel giovane è qui per un motivo, solo che ancora non ci è dato sapere quale. Dovresti prendere ad allenarlo... Credo che... sia giunto qui per volontà di Tagashi-sama.»

Sensei: suffisso onorifico con significato "professore", "maestro" . Propriamente non è un suffisso, ma in alcuni casi il suo utilizzo associato a un nome lo rende analogo, seppur spesso sia utilizzato anche da solo. La battaglia di Sekigahara ebbe luogo nella , nella zona meridionale dell'odierna . Prese il nome dal piccolo villaggio presso il quale fu combattuta. Fu una battaglia decisiva nella .Periodo Edo (1603-1868) indica quella fase della storia del Giappone in cui la famiglia Tokugawa detenne il massimo potere politico e militare nel paese. Tale fase storica prende il nome dalla capitale Edo, sede dello Shogun, ribattezzata Tokyo nel 1869. Benjo: locale della casa in cui si intrattenevano gli affari Dojo: termine giapponese che indica il luogo ove si svolgono gli allenamenti alle arti marziali. Maggiore età: In Giappone è la si raggiunge a 20 anni. Yukata: Abito tradizionale Giapponese. Indumento estivo e informale, generalmente sfoderato e in cotone. Wakushudo: pratica comune trai samurai di prendere un ragazzo nella propria vita sessuale e istruirlo alle arti marziali.

Nevi purpureeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora