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Perfino Jou aveva notato che Hidetada, pur seguendolo diligentemente come era solito fare, pareva distratto, distante.
Non che la cosa gli importasse poi molto; non avere quegli occhi curiosi e avidi puntati perennemente su di lui era una vera liberazione.
Fu perciò, più semplice del solito riuscire ad allontanarsi in silenzio e perdersi nella boscaglia.
A Jou quei pochi attimi di solitudine assoluta erano estremamente necessari, specialmente in quel momento: le parole di Yuki erano pian piano riuscite a insinuarsi nella sua coscienza, scavandovi nel profondo e ritornavano prepotenti ogni qual volta chiudesse gli occhi.
"Mandato da Tagashi... Che assurdità!" ripetette a sé stesso, cercando di scacciare quello scomodo pensiero assieme ai mille altri che vi erano concatenati.
Raggiunta la sua meta, si immerse nelle basse acque del fiume raggiungendo la cascata.
Prese posto su di un grande masso e lasciò che il suo corpo si unisse al potente flusso delle acque gelide che, precipitando dall'alto, colpivano la sua schiena nuda.
Avrebbe voluto fondersi col fiume e scivolare via nella corrente senza lasciare più traccia.
Chiuse gli occhi, unì i palmi delle mani; meditare: riconnettersi alla natura, abbandonare qualsiasi nesso con la materialità corporea del suo essere, dimenticare chi fosse e soprattutto chi fosse mai stato.
Ma meditare richiedeva concentrazione, quella stessa che aveva appena perduto per l'arrivo indesiderato di qualcuno.
«Vieni fuori, ragazzo. Credevi davvero che non mi sarei accorto della tua presenza?!» disse Jou con tono calmo ma ammonitore, senza nemmeno riaprire gli occhi.
Hidetada esitò, impietrito dall'essere stato ormai scoperto.
Lì, schermato dai cespugli, Hidetada era sicuro che Jou non avrebbe potuto notarlo, vista anche la particolare attenzione impiegata nel seguirlo.
L'immagine del samurai, specchiata nei riflessi dell'acqua, lo aveva come ipnotizzato. Osservò quel corpo imponente soffermandosi sul grande tatuaggio raffigurante un drago che ornava la spalla e il bicipite destro.
«Torna immediatamente indietro. Non gradisco che mi si spii né desidero compagnia» fece ancora Jou, con voce pacata.
Hidetada richiamò tutto il coraggio di cui disponeva, mosse un passo rendendosi finalmente visibile ed esclamò deciso: «No.»
Jou, questa volta, gli occhi li sgranò «ragazzo, la mia pazienza ha un limite. Ho detto va via.»
«No.»
Il Samurai, vedendo rigettato anche questo ultimo suo ordine, si rialzò di scatto e avanzò nella sua direzione con grandi falcate che incresparono l'acqua «non osare. È un ordine. Vai!»
«No. Non andrò via» la voce di Hidetada prendeva a mostrare sempre meno fermezza ma la sua volontà non vacillava.
I due si ritrovarono pericolosamente vicini. Jou lo afferrò per lo yukata, strattonandolo con forza verso di sé. Era furioso. Mai nessuno si era permesso di rispondergli a quel modo. Serrò il pugno già pronto a colpire il viso del ragazzo ma, nel momento stesso in cui incrociò quegli occhi così puri, spaventati e allo stesso tempo adoranti, ritornò in sé e lasciò la presa. Che senso avrebbe avuto, dopo tutto, prendersela con quel ragazzino... Sospirò profondamente massaggiandosi le tempie «e allora si può sapere cosa vuoi da me?»
«Voglio... io voglio che voi mi alleniate, Honda-sensei. Voglio diventare un samurai, un grande samurai, come voi, maestro. È il mio più grande desiderio» Hidetada si chinò al suolo inginocchiandosi ai piedi del samurai «la prego, Sensei, mi mostri la via del guerriero e io la seguirò, a costo di dare la mia vita.»
«Tu non sai quello che stai dicendo, ragazzo» disse piano Jou muovendo per andarsene.
«La supplico, Honda-sensei, faccia di me un Samurai.»
Jou, leggendo la caparbietà di quelle parole, non potette evitare alla rabbia di farsi largo in lui e in un minuto tutta la sua ritrovata calma si smaterializzò soppiantata da colleriche urla: «Un Samurai dici? Tu vuoi diventare un Samurai?!» sbottò «tu non hai idea di cosa sia la guerra e non hai idea di cosa significhi essere un Samurai. Credi che divenire un guerriero possa in qualche modo elevarti dalla tua condizione ma tu non sai cosa si prova a uccidere, a prendere talmente tante vite da non ricordare nemmeno più i volti delle tue stesse vittime. Vuoi sapere che cosa siamo noi samurai? Siamo soltanto gli ubbidienti cani dello Shogun, dei feroci assassini e nient'altro.»
Il ragazzo abbassò il capo e afferrò la caviglia del Samurai perpetuando ancora la sua supplica.
«Eppure, guardati: la guerra ti ha preso tutto, Hidetada, ti ha reso orfano, ti ha tolto una casa. Dovresti odiarla e invece... invece tu ti ostini a venerarla.»
«Io... io non venero la guerra... Io voglio diventare il più forte ed essere un grande guerriero, un Samurai senza paura per poter... Per poter riuscire proteggere da essa.»
Il Sensei, a quelle già note parole, trasalì. Non era quella la prima volta che udiva un ragionamento simile e nelle coincidenze aveva smesso di credere da tempo.
Quelle parole gli uscirono prepotenti dalle labbra «dimostramelo allora» Jou si avventò contro il ragazzo costringendolo a rimettersi in piedi «dimostrami che sei all'altezza di ciò che dici, ragazzo.»
Lo colpì ancora e ancora mentre Hidetada soccombeva inerme ai suoi colpi.
«Attacca, Hidetada. Reagisci. Rammenta, ragazzo: per proteggere bisogna combattere.»
Ad ogni colpo che macchiava le sue nocche di sangue, il passato affiorava prepotente alla memoria del Samurai. Un passato che raccontava di un'infanzia negata tra le mura del Dojo e con le mani strette ad una katana in legno.
Jou si rivide poco più che ragazzino mentre la sua arma veniva spezzata sulle esili spalle del suo avversario. Ricordava bene quell'incontro, lo avrebbe ricordato per sempre. Lui, Jou Honda, discendente dalla più grande dinastia di Samurai, lui, l'allievo più forte del Dojo, a combattere col nuovo arrivato, un certo Tagashi Yamamoto, un ragazzetto gracile e delicato che si trovava lì solo per volere del padre, un nobile che cercava prestigio per il suo secondo genito.
Nemmeno provava a difendersi...
«Prendi la tua katana e combatti!» urlò Jou al suo piccolo avversario.
«No. Io non combatterò. Non voglio.»
Un lampo di follia attraversò i suoi occhi e quella che Jou intese come la più grande delle offese, cioè il sottrarsi al duello, venne punita forse con più ferocia del dovuto. Negarsi allo scontro era un disonore per un Samurai e per quanto quel ragazzino volesse negarlo a sé stesso, nolente o dolente, lo sarebbe inevitabilmente divenuto.
I maestri del Dojo avevano affidato proprio a Jou il nobile Yamamoto, nella speranza che lui potesse divenire una sorta di punto di riferimento, un esempio da seguire ma nonostante i continui sforzi del futuro Samurai, Tagashi pareva covare un totale rifiuto per il combattimento e una spiccata avversione alle armi. In compenso il ragazzo era totalmente avvezzo agli studi e poteva vantare uno spiccato talento artistico tale da far chiudere un occhio ai maestri del Dojo che avevano alla fine deciso di dispensarlo dal passare inutili e improduttive ore in palestra.
Per Jou, ovviamente, la cosa era inammissibile. Quelle sue filosofie di non violenza, pace e armi bianche, proprio non riusciva a concepirle: cos'avrebbe fatto in battaglia, di fronte al nemico, enunciato un poema? Jou era cresciuto cibandosi dell'arte della guerra e per lui non esisteva altro. La vita poteva essere riassunta con la sola legge del più forte e ai vinti, ai deboli, non spettava che una misera disfatta. Era questo ciò che gli avevano insegnato i suoi maestri e suo padre prima di loro.
Quel Tagashi rappresentava il suo esatto opposto. Però non era come tutti gli altri allievi che facilmente la sua katana aveva sconfitto... lui non era un debole, non nello spirito almeno. Questo lo aveva compreso studiandolo attentamente, guardandolo come se con la sola pratica dell'osservazione avesse potuto estorcergli la risoluzione del mistero che per lui rappresentava. Ma Jou non si limitò solo a quello... frugò tra le sue poche cose, lesse i suoi appunti e ammirò i suoi dipinti, stupendosi che il soggetto ricorrente di quelle illustrazioni pareva essere proprio lui. Quella rivelazione ebbe forse più potenza del colpo più violento che avesse mai ricevuto.
Non riusciva a capirne la motivazione ma, da quel momento, sentì come un legame collegarlo a Tagashi.
Non ci volle molto perché Jou si accorgesse delle rituali sparizioni di Tagashi che avvenivano sempre dopo il pranzo e non duravano più di qualche ora.
Mosso più che da curiosità, da vera apprensione, Jou non poté fare altro che seguirlo.
Quando vide il suo compagno, del tutto ignaro che qualcuno lo stesse pedinando, raggiungere la sua misteriosa destinazione, si lasciò sopraffare dallo stupore svelando la sua presenza con un flebile rumore capace di richiamare l'attenzione di tutti i presenti, meno quella dei sensi poco allenati di Tagashi.
Una lupa, una lupa ferita e i suoi quattro cuccioli. Ecco dove si recava furtivamente quel giovane... a salvare quella famiglia da morte certa, curando la madre e sfamando i suoi lupacchiotti.
Solo a persone dotate di una grande sensibilità e pace interiore poteva riuscire tale impresa. Le belve, specialmente se ferite, non hanno altra difesa se non l'attacco mentre invece a Tagashi veniva concessa addirittura riconoscenza dagli occhi di quella lupa dal manto bianco come la neve.
Ammirato, Jou, non riuscì a trattenere un mezzo sorriso e compiaciuto fece per andarsene non volendo alterare quel mistico equilibrio. Si era già allontanato di qualche decina di passi quando e fu allora che captò quella minaccia imminente.
Corse verso il compagno, veloce, sempre più veloce, frapponendosi tra lui e il temibile predatore che gli si era scagliato contro.
Un lupo, questa volta maschio.
Jou scostò Tagashi dalla traiettoria delle sue fauci spalancate e mortali lasciando che raggiungessero la sua spalla azzannandola.
Non curante della ferita sanguinante, il giovane Samurai, affrontò coraggiosamente il lupo riuscendo, grazie alla potenza e all'aggressività che traspariva dai suoi occhi, a mettere in fuga l'animale imponendo la sua superiorità in uno scontro tra spiriti.
Tagashi, incredulo e tremante, si prostrò ai suoi piedi «Jou-sama, hai rischiato la tua vita per salvare la mia e di questo ti sarò debitore in eterno» la sua vita, da quel momento in poi, sarebbe appartenuta a Jou Honda «mi hai dimostrato una grande verità, una della quale io sono stato cieco fin ora: da oggi in avanti, la mia promessa sarà quella di dedicarmi alla via della spada, compagno mio, mi impegnerò per divenire più forte e anch'io... anch'io un giorno, riuscirò a proteggere i più deboli come tu hai fatto con me.»
«Tagashi, bada bene, per proteggere bisogna combattere.»
«E allora combatterò, combatterò anch'io per proteggere.»


Yuki, insospettita dalla prolungata assenza di entrambi gli uomini, decise di recarsi alla cascata, luogo che sapeva essere lo spirituale rifugio del Samurai.
Lo spettacolo che le si parò dinanzi avrebbe fatto rabbrividire chiunque, chiunque ma non lei: quante volte aveva medicato ferite ben più profonde, squarci nella carne rossa come marchi invisibili d'una vita di guerriero da preservare.
Uno sguardo di monito verso Jou, la preghiera di arrestarsi. Si chinò su Hidetada pesto in terra.
Il sensei lasciò l'allievo alla donna, ricambiando con un ghigno beffardo il nuovo sguardo interrogativo ti lei che, lesto, si distese in un candido sorriso.
«Hidetada, gioisci. Questo è il giorno che finalmente ti vede divenire allievo del grande Jou Honda.»
No, non ci era andato per nulla leggero, Jou, nel testare le abilità di combattimento del giovane ma, Hidetada, contando quei marchi rossi sulla pelle ne fece come medaglie al valore e quasi non riusciva a sentire più alcun dolore tanto era grande la sua felicità.

Quelle erbe medicinali avevano un odore acre.
Le dita di Yuki correvano leggere sulla sua schiena. Le bende legate strette sul busto gli impedivano qualsiasi libertà di movimento.
«Davvero, Yuki-sama, sto benissimo... non ho bisogno di queste fasciature, non fanno altro che impacciarmi e non posso certo permettermelo: domani Honda-sensei vorrà iniziare gli allenamenti e io devo essere pronto.»
«Adagio, ragazzo...» ridacchiò Yuki «ho paura che dovrai pazientare ancora un po' per i tuoi allenamenti... A giudicare dalle tue condizioni, direi almeno qualche giorno.»
«Cosa?! Sono perfettamente in grado di combattere, potrei anche adesso se solo volessi!»
La donna portò una mano a nascondere un malcelato sorriso e scosse il capo aggiungendo: «Non ne dubito, Hidetada. Ora però cerca di non muoverti e lascia che io finisca il mio lavoro.»
Il ragazzo non poté che arrendersi a quel tocco delicato. Era piacevole sentire quelle mani di velluto sulla pelle, il suo respiro caldo, la sua apprensione per lui.
Yuki era come la primavera.
Si perse a osservarla in silenzio. Quella pelle, quegli occhi e quel lieve sorriso gentile che a volte, solo a volte, si perdeva in un velo di malinconia... cosa si nascondeva dietro quelle iridi di infinita e nera dolcezza?
Yuki continuava a stendere i suoi unguenti guaritivi spandendoli con movimenti lenti sul petto del giovane. Hidetada, con lo spirito ormai infiammato, si chiese cosa si provasse a possedere una donna così... lui no, non ne sarebbe mai stato degno: il solo pensiero di sfiorare quella pelle d'alabastro, di scartarla dall'involucro delle sue vesti era un sogno così irreale da non essere nemmeno immaginabile.
La cara Yuki era stata, in quelle lunghe giornate tediose, il suo unico faro, la sua guida. S'era presa cura di lui come mai nessuno prima, l'aveva fatto sentire parte di qualcosa, parte del suo mondo di enormi tomi, poesia e grazia.
E non ci riuscì, Hidetada, a frenare quelle parole che uscirono incontrollate dalle sue labbra «Yuki-sama perché... perché fate tutto questo per me, io che non sono degno nemmeno di respirare la vostra stessa aria... e per Honda-sensei... Perché lei vive qui, sola a prendervi cura di due uomini, in questa casa dimenticata nel bosco, come se voi... come se voi foste...»
«Una Oiran» Yuki terminò la frase con una naturalezza spiazzante.
«Io... Mi perdoni Yuki-sama... Non avrei mai voluto insinuare...»
«Non scusarti per un'osservazione più che sensata.»
«Io non posso credere che lei... lei sia...» Hidetada non poteva capacitarsi di ciò che udiva. Come poteva Yuki, la gentile, raffinata e adorabile Yuki, essere lì per adempiere a tali mansioni? Niente di lei gli aveva mai fatto pensare a una cosa simile, nemmeno averla saputa in piena notte nel letto del suo maestro.
Quelle rare volte in cui il giovane aveva potuto osservare quelle donne spiandole di nascosto tra i vie della strada del piacere di Edo, aveva potuto notare un loro preciso codice d'abbigliamento con l'obi legato sul davanti, un trucco particolarmente pesante e delle pettinature elaborate ed eleganti. Yuki, invece, se ne stava placida come se nulla potesse scalfire la sua calma, le vesti sobriamente distinte, il volto immacolato, i lunghi capelli sciolti sulle spalle... E comunque, quello di servirsi di un lusso del genere e per così tanto tempo, per quanto Jou Honda potesse essere influente, non era cosa a lui economicamente accessibile.
«Sì, sono una Oiran... O meglio, lo ero.»
«Cosa significa, io... Io non riesco a comprendere Yuki-sama, è impossibile, voi non potete...»
«Sono una Oiran liberata, Hidetada. Non ho più padroni né costrizioni che mi leghino ad adempiere determinati doveri» rispose cercando di tranquillizzare il giovane visibilmente sbigottito da tale rivelazione.
«E dunque, non riesco a comprendere la motivazione della vostra presenza in questa casa. Non capisco, voi siete è una donna bellissima, dalla grazia infinita. Ci sarebbero decine di nobili ricchissimi disposti a sposarla, potreste aspirare a vivere nel lusso anziché in un posto misero come questo.»
Yuki sorrise «quella di vivere qui è una mia scelta. Questa è l'unica casa che io abbia mai avuto e Jou-sama è l'unica famiglia che io abbia mai conosciuto... Lui e Tagashi-sama.»
Tagashi... ancora quel misterioso nome.
Hidetada sentiva che era ora di abbandonare ogni sua remora. Doveva sapere, doveva sapere ogni cosa.
Non poté frenarsi dal chiederlo: «Yuki-sama, ma chi è Tagashi Yamamoto?»
La donna non fu sorpresa di sentire quella domanda; più volte lo aveva citato in calce a troppi testi, più volte lo aveva nominato con occhi fin troppo liquidi.
«Tagashi Yamamoto è colui che mi ha liberata, ma ovviamente è molto più di questo... »
Yuki, pacatamente, prese a raccontare di una lontana giornata di neve di ben nove anni prima. Le immagini le si avvicendavano nella mente e il suo interlocutore non pareva neanche più essere quello dinanzi a lei...
L'unica sensazione che Yuki sembrava ricordare di quel giorno lontano era il freddo, così penetrante da raggelare qualsiasi altro pensiero, qualsiasi recondito terrore. Freddo e null'altro.
Non ricordava il volto dei suoi genitori, non più. Venne venduta ancora bambina e indirizzata alle mansioni di Oiran.
Crescendo divenne una delle più richieste dai clienti proprio grazie alla sua rara bellezza. Bellezza che una volta sbocciata, non poté essere ignorata nemmeno dallo Shogun in persona che ne fece presto una delle sue favorite e volle che ella prendesse a vivere nel suo castello poiché come spesso soleva dirle "la sua sola presenza gli alleggeriva lo spirito".
Lo Shogun pareva venerare la sua grazia e pretese solo a lui fosse concessa l'esclusiva della sua intima compagnia ma in quella monogamia non v'era traccia di alcun romantico sentimento: per lo Shogun la ragazza non era altro che un lussuoso privilegio come lo era possedere quelle carni che non rappresentavano altro che un involucro seppur bellissimo.
Yuki non aveva scelto quella vita né quel suo esclusivo amante, ma aveva imparato a convivere con la sua condizione, ad accettare ciò che il destino le aveva serbato o semplicemente, aveva imparato a estraniarsi dal momento e a sdoppiare lo spirito dal corpo. In quel castello, lì, nelle sue stanze eleganti, forse, un po' di pace avrebbe anche potuto trovarla... l'unico prezzo era quello di abbandonare ogni speranza.
Tokugawa con lei mostrava gentilezza e alla fine, Yuki si convinse che forse quell'uomo, se solo avesse voluto, avrebbe potuto rappresentare la sua stabilità. Non poteva sapere quanto volubili fossero i desideri di un uomo di potere...
Era pratica comune gratificare i Samurai che si fossero particolarmente distinti per onore e abilità, lasciando che questi passassero la notte con delle Oiran inviate loro come premio. Così, lo Shogun, decise di premiare con il più prezioso fiore del suo giardino quei due valorosi e testardi Samurai che si ostinavano a voler vivere relegati nel bosco. Non se ne capacitava Tokugawa Ieyasu; avrebbe desiderato averli lì a godere delle ricchezze della vittoria e credeva che dare loro un "assaggio" di quella vita di sfarzi, avrebbe potuto farli ricredere. Jou Honda, il Dragone di Fuoco nonché il Samurai più forte e temibile del suo esercito, lo Shogun, sarebbe anche riuscito a convincerlo ma non lui, non Tagashi Yamamoto. Il nobile Yamamoto era un Samurai dalle tecnica insuperabile, pareva danzare tanta la grazie che metteva nel combattimento ma Yamamoto non era solo un Samurai: si era meritato un posto tra i suoi consiglieri più fidati grazie alle sua mente geniale. Il legame che legava Ieyasu a Tagashi e l'ammirazione che egli provava per il Samurai, erano tali da aver fatto pensare più volte allo Shogun che quel guerriero fosse l'unico degno di succedergli al potere, considerandolo molto più meritevole del sangue del suo sangue.
Alla Oiran venne comunicato l'ordine dello Shogun nel cuore della notte. L'indomani mattina venne messa su una carrozza e fu costretta a seguire il nobile Yamamoto presso la sua dimora. La donna ricordava ancora perfettamente la sensazione di smarrimento che la accompagnò nel lasciare quel posto che chiamava casa, una sorta di prigione d'orata di cui s'era quasi convinta amare il suo carceriere.
«E questa chi sarebbe?!» erano state quelle le prime sgarbate parole che Jou aveva pronunciato vedendola scendere dalla carrozza assieme a Tagashi, parole che lei non avrebbe mai più dimenticato.
«Lei è Mineko Yoshida. sarà nostro onore ospitarla nella nostra umile dimora» rispose affabile Tagashi, appellandosi alla donna con il nome con il quale le era stata presentata dallo Shogun.
«Non ci posso credere... una Oiran. Cos'è questa, l'ultima trovata dello Shogun per averci al castello?» fece Jou.
«Yoshida-sama, vi prego di perdonare i modi rudi di questo Samurai: è talmente concentrato sulla guerra che pare abbia dimenticato le buone maniere» affermò Tagashi strappando un sorriso alla giovane ed un ringhio al compagno «voglio che voi qui vi sentiate come a casa vostra e permettetemi di chiarire che non dovete sentirvi in obbligo di alcunché... Voi siete mia ospite» continuò con più fermezza.
Da principio la donna, fu scettica a quelle parole: conosceva bene gli uomini, ne aveva esplorato perfino il loro lato più oscuro. Ogni notte attendeva nervosamente la visita di uno dei due. L'idea di giacere con un uomo sconosciuto, forse più violento dello Shogun, il solo amante a cui oramai era abituata, la intimoriva non poco ma al contempo non riusciva a non scoprire il suo corpo accendersi al pensiero di quei due corpi giovani e scolpiti da cui era stata irrimediabilmente attratta fin da subito. Yuki la carne non poteva temerla, non era quello che la terrorizzava: conosceva i moti del piacere, sapeva bene come convogliarli nell'estasi, ne era maestra; ciò che non sopportava era che, ogni volta, un piccolo pezzo della sua anima le veniva strappato via dall'amplesso e il suo cuore, senza nessuno che potesse prendersene cura, tornava a sanguinare nella solitudine di letto abbandonato troppo velocemente dal suo amante.
Mai nessuno dei due Samurai si introdusse nelle sue stanze e scansando via un ingiustificato sentimento di delusione, Yuki prese a fidarsi sempre più dei due uomini. Li aveva osservati a lungo studiandoli nella loro diversità che ai suoi occhi pareva complementare. Tagashi riempiva le sue giornate di arte, poesia e meditazione, perfino i suoi allenamenti con la spada erano permeatiti di qualcosa di mistico. La natura rispondeva a ogni suo tocco ed era impossibile non venire travolti dall'aura di serenità e pace interiore che trametteva al suo prossimo. Anche Jou, in sua vicinanza, non poteva far altro che distendersi in un espressione simile a un sorriso. Dragone di foco, lo chiamavano e per i più, questa denominazione avrebbe potuto calzare perfettamente sul Samurai, ma per Yuki non era così. Non aveva mai letto malvagità in lui. Era innegabilmente fortissimo, un po' rude e quella sua fisicità imponente e fiera poteva trarre in inganno. Lo spirito di Jou era solo un po' offuscato da quella potenza ma non per questo meno puro.
Libera, si sentiva libera in quella casa e la cosa non faceva che atterrirla. Sapeva bene Yuki che, una volta assaggiato un frutto dal sapore dolcissimo, quanto più questo fosse delizioso, tanto più amara sarebbe stata la sua rinuncia.
Oramai si era creato un certo legame tra i tre e si andava via via addensando.
Tagashi, gentile e premuroso, l'aveva ricoperta di disinteressate attenzioni fin da subito. L'aveva introdotta ai suoi studi, sottraendola al tedio delle sue giornate. Era un maestro eccellente, Tagashi, un pensatore che precorreva i tempi e quelle sue filosofie nuove e interessanti la affascinavano in modo irresistibile; perfino Jou, di tanto in tanto, abbandonava le katane e si univa loro perdendosi nel parlare forbito del Samurai. Tra lei e Tagashi nacque una confidenza quasi istintuale, un unione.
Con Jou fu diverso, non per questo meno intenso ma diverso: c'erano conversazioni silenziose fatte di sguardi e parole non dette, c'erano piccole gesti.
In quella casa Yuki aveva trovato qualcosa che da sempre le era stato negato...

«Tagashi, non ho alcuna intenzione di rispedirla al mittente.» Jou osservava Yuki intenta a leggere sotto all'ombra dei ciliegi in fiore. Erano ormai trascorsi quattro lunghi anni dal giorno del suo arrivo.
«Non temere, Jou» Tagashi strinse la mano sulla forte spalla del compagno «vedrai, cercherò di inventarmi qualcosa.»
Tagashi e Jou, con una scusa o con un'altra avevano rimandato per troppe volte il ritorno al castello di Mineko.
Loro tre, in quegli anni, erano divenuti una famiglia dove ognuno si prendeva cura dell'altro. L'unica vita che conoscevano era tenuta insieme da una simbiosi della quale nessuno dei tre avrebbe potuto fare più a meno.
Ma i due Samurai sapevano che, inevitabile, il giorno dell'addio si faceva sempre più vicino. Lo Shogun li aveva già chiamati alle armi. Presto si sarebbe combattuta una battaglia dalla quale non v'era certezza di ritorno: Sekigahara stava per spalancare i suoi cancelli di morte.
E Tagashi qualcosa s'inventò davvero.
La sua visita a palazzo, quel giorno, fu più lunga del solito. Questo, secondo un Jou più intrattabile del solito, non poteva che deporre male.
«Jou, stamani sei molto silenzioso... » Yuki scivolò alle spalle del Samurai carezzandogli piano la schiena nuda «non vuoi dirmi cosa ti turba?» chiese la donna appiattendosi su di lui. Jou lasciò che le sue carezze si trasformassero in un massaggio e poi in qualcosa di più...
Quante volte si erano uniti sull'erba appena umida con la natura a fare da silenzioso spettatore a quella passione dirompente: Jou era una roccia alla quale aggrapparsi al limite del baratro.
«Non ti lascerò mai andare, Mineko.»
«Lo so, Jou, lo so.»
Restarono in silenzio in quell'abbraccio che sapeva di infinito.
Lei gli sussurrò: «Jou, guarda Tagashi è di ritorno.»
Cavalcava sorridente verso casa stringendo in mano un pezzo di carta che portava il vessillo dello Shogun. Smontò da cavallo lasciandosi abbracciare dalla ragazza corsagli incontro nel vederlo arrivare. Anche Jou gli si avvicinò lentamente, scrutandolo con attenzione. Tagashi gli porse ciò che stringeva nel pugno. Jou, leggendone il contenuto, riportò immediatamente lo sguardo basito sul compagno «per tutti i kami, tu, maledetta canaglia che non sei altro... Ci sei riuscito davvero!»
«Riuscito a fare cosa?» chiese lei incuriosita mentre carezzava il cavallo sul muso.
Tagashi la sollevò per i fianchi prendendola alla sprovvista «ragazza mia, da questo momento in poi, tu sei libera. Non sei più una Oiran, ho ottenuto il tuo completo riscatto.»
Libera; lei era libera.
Jou sapeva che Tagashi era un uomo di parola e grazie alla sua influenza sullo Shogun sarebbe riuscito ad ottenere quella grazia ma, ciò che non poteva sapere, era ciò che egli aveva dovuto cedere in cambio. Lo tacque consapevolmente Tagashi, quel suo accordo: la libertà di una prostituta per la sua presenza a castello.
«Mineko...» Jou riuscì solo a dire questo vedendosi stringere tra le braccia l'esile ragazza che riportando i piedi a terra gli si era buttata addosso.
«No, Jou, non chiamarla più con quel nome» disse sorridendo Tagashi «quello era il suo nome di Oiran. Spetta a lei decidere chi vorrà essere d'ora in avanti. Scegli un nuovo nome e comincia la tua nuova vita da donna libera.»
In lacrime, ancora appiattita al petto di Jou, la ragazza sibilò: «Yuki, voglio chiamarmi Yuki, come la neve che cadeva il giorno che sono arrivata qui» afferrò la mano di Tagashi e la strinse forte: Tagashi era come l'acqua che lavava via purificando ogni cosa.

«Ma l'altra notte, voi e Honda-sensei... Insieme nella sua stanza, vi ho visti... Non siete sposati, questo significa che vivete qui ancora come Oiran.» Hidetada spezzò i ricordi della donna riportandola alla realtà.
Yuki pareva aver del tutto perso quella sua irraggiungibile dimensione. Lo guardò con gli occhi lucidi di memoria e disse: «Ero lì per mia volontà, ragazzo. Essendo incapace di sanare l'anima di Jou-sama, cerco umilmente di dare giovamento al suo corpo. Sono pur sempre stata una prostituta e le uniche abilità di cui dispongo non sono che quelle derivate dall'arte d'amare. La verità, Hidedata, è che il sentimento che mi lega a lui è così profondo, che pur essendo libera, ho deciso di appartenere per sempre a lui» si strinse nel kimono ritrovandosi inerme «vedi Hidetada, mi è impossibile rispondere alla tua domanda iniziale. Chi è Tagashi Yamamoto, chi sono io e chi è Jou Honda, non può essere spiegato se non mettendoci in relazione gli uni con gli altri. In particolare, non si può dire che sia Tagashi-sama senza Jou-sama e viceversa. Loro non sono che un'unica essenza scomposta di due corpi differenti, un unico nucleo generante due universi concatenati.»
Yuki abbandonò lo sguardo verso la cascata ripercorrendo i meandri lenti del piccolo torrente «ecco, guarda: loro due sono come questo torrente. Ho sempre pensato che Tagashi-sama fosse come l'acqua del fiume: in apparenza trasparente e placido ma, in realtà, così potente e impetuoso da modellare al suo volere anche la pietra più dura; Jou-sama, invece... Sì, Jou è come la roccia che si lascia plasmare dall'acqua ma restando tuttavia, irremovibile e fiera nella sua potenza monolitica. E per quanto l'acqua possa generare una grande energia, quest'ultima avrà sempre bisogno della roccia che la incanali nel letto di un fiume dandovi forma e dimensione.»

Oiran: erano cortigiane in Giappone, considerate "donne di piacere" o prostitute.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 21, 2015 ⏰

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