°Capitolo1.1°

18 3 0
                                    

Mi guardavo allo specchio. Quanto ero cambiata. Non sapevo che il dolore cambiasse così tanto o che il cambiamento potesse essere notato così tanto dalla persona stessa.
Non ero poi un granché. Il fisico, il mio corpo, era dimagrito notevolmente nell'ultimo anno; avevo passato un periodo, dove l'unica cosa che volevo fare era morire, così finalmente avrei smesso di combattere. Poi avevo notato che c'erano cose e persone per cui valeva la pena vivere ancora. Anche se erano ben poche. Ed io non ero compresa

"Ogni giorno merita di essere combattuto."

Ero andata dal tatuatore quello stesso giorno, con il permesso scritto di mio padre, poi ho voluto sopportare da sola.
Mio padre avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vedermi vivere ancora un po', e così aveva acconsentito.
Quel dolore così fisico allievava un po' l'immenso dolore che avevo dentro e meno male; né avevo bisogno. Le lettere erano state scritte permanentemente sul mio costato sinistro, sotto il cuore, con un corsivo elegante e raffinato, ma ben calcato. Un po' com'ero io. Ero solo una ragazza di diciassette anni come tutte le altre, forse anche meno, ma quel tatuaggio mi rappresentava e mi distingueva. Esprimeva tutto il dolore che avevo provato, ma anche la fierezza di essere riuscita a combattere ogni giorno della mia vita.
Mi stavo ancora guardando allo specchio.
I riccioli biondi attiravano gli occhi di tutti quelli che mi guardavano passare, chiedendosi: <<Non sono suoi. Sembra che vengano da una fiaba per bambini.>> e m'incorniciavano il viso ovale per via del peso perso.
Né avevo troppi, ma per il resto erano una delle poche cose che mi piacevano del mio corpo. Erano uguali a quelli di mia madre; lei c'è li aveva solamente un po' più corti.
Poi spuntava lì in mezzo a tutto quell'oro, una ciocca azzurra, che mi ritingevo ogni volta che lavavo quella massa ribelle. Mi piaceva e mi rappresentava: ero ribelle, ma una di quelle persone che non vuole attirare l'attenzione, che si nasconde.
In mezzo al viso spiccavano solamente due cose: le guance fin troppo piene e rosee e gli occhi immensi. La gente gli scambiava sempre per occhi scuri per via della pupilla troppo dilatata, ma in verità erano di un verde strano, tendente all'azzurro scuro sotto una luce diversa.

Ed erano freddi.
Senza espressione, di vetro.

Il muro che mi ero costruita intorno, li rendeva così; l'avevo costruito per proteggermi e veniva giù solo quando cantavo perché, in quel momento, nessuno poteva ferirmi o distruggermi.
La ciocca verde acqua che avevo in mezzo ai ricci, riprendeva quasi il colore che i miei occhi avevano quando ridevo, piangevo, scherzavo, vivevo.
Ora, mi ero soltanto un po' irrigidita, tutto qua. Come forma di autodifesa.

Ancora con solo il reggiseno scuro addosso e il piccolo spunto di tatuaggio che s'intravedeva, guardavo nello specchio una me che sembrava non essere mai cambiata, ancora spensierata e un po' bambina, ma ora ero una persona diversa e forse sarei cambiata ancora.
Quello stesso week end avrei partecipato al talent show più popolare d'Europa. O almeno alle audizioni.
Già pensavo al palco, ai giudici, ai concorrenti ed ero persa nel mio mondo fatto di note e testi, dove io ero la vera me stessa e guerreggiavo tutti, vincendo, quando mi ricordai di una cosa.
Ero in ritardo. Grandissimo ritardo.

<<Merda.>>

Al volo m'infilai una maglietta nera con il disegno stampato di una vecchia boy band famosa, le maniche strappate e qualche borchia. Jeans neri, un po' strappati. Giubbotto di pelle nera. Sneakers nere, anche quelle con le borchie e trucco nero. Amavo il nero; era rockettaro e grintoso. Mi ci sentivo bene dentro.
Con lo zaino troppo consumato a spalla e le chiavi dello scooter, scesi le scale e presi una fetta di pane tostato e aiutai mio fratello Gabe ad allacciarsi le scarpe; Maria, la domestica, sarebbe passata a prenderlo dopo per portarlo a scuola. Era una piccola peste, ma gli volevo un bene dell'anima. Con quegli occhi un po' scuri e il carattere un po' ribelle, mi ricordava tanto la mamma.
Gli schioccai un bacio su una guancia paffuta e uscii di casa, saltai sullo scooter e partii.
Con qualche scorciatoia e una grande quantità di clacson che mi suonavano dietro, riuscii ad arrivare a scuola in tempo. M'incamminai verso il mio armadietto; quando feci scattare la serratura del lucchetto, una parete piena di poster ritagliati e spartiti scarabocchiati qua e là, si presentò davanti a me. In alto a destra, verso l'estremità, uno specchio era stato appeso: mi specchiai e notai subito che, i capelli erano sempre indomabili, ma il trucco era ancora intatto. La matita nera mi risaltava gli occhi e gli dava quel giusto tono un po' aggressivo, da tenere lontani dai miei muri anche i più curiosi. Presi i libri di anatomia e matematica, e chiusi l'anta dell'armadietto, interrompendo la visuale di me stessa all'interno di quel piccolo quadrato rilucente.

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 11, 2015 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

Così iniziò il Noi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora