SPECCHI

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Specchi. Sono circondato da specchi… e li odio tutti. Non sopporto più di vedere la mia immagine riflessa. Da quando, quel maledetto giorno, le fiamme hanno devastato il mio volto, il solo pensiero di guardarmi in faccia mi ripugna e mi fa imbestialire. A uno a uno inizio a distruggerli. In bagno, in ingresso, in camera da letto. Migliaia di vetri, tutti in frantumi. Basta. È ora che io dimentichi, dimentichi tutto. La mia vita passata, gli anni di onorato servizio nel corpo dei pompieri, il mio bell’aspetto. Ora tutto è svanito. Congedato con onore, costretto in un letto di ospedale per un intero anno. E adesso che mi hanno riportato a casa sono solo un mostro senza volto che deambula per casa come un animale impazzito. Non ho più labbra, non ho più zigomi. Il contorno degli occhi si fonde con i bulbi oculari e il naso è un ammasso informe. A ben poco sono valsi i vari interventi di chirurgia estetica che ho subito. Almeno finché ero ricoverato mi pareva tutto un sogno, o meglio un incubo. Ma ora sono fuori. Sono tornato. Libero da tutto e da tutti ma non da me stesso. Non so nemmeno che fare, sono solo al mondo. I miei mille amici ormai non mi cercano più, complice, lo ammetto, il mio stato d’animo funesto. Suicidarmi? È un alternativa, ma non riesco a metterla in pratica. Io che non ho mai temuto la morte per mano del fato, non riesco ad impormela per mano mia. E dunque che altro fare? Da dove ripartire? Mentre sono sul mio divano preso dallo sconforto il telefono suona. È lei, la causa della mia disgrazia! Quella dannata vecchia che, inconsapevole persino di stare al mondo, mi ha gettato in questa situazione. Ancora ricordo quella sera. Mi chiese di andare a casa sua per un banale controllo a un tubo del gas. Io, che ho sempre voluto mantenere rapporti di buon vicinato, non mi sono certo sottratto alla richiesta. Ma mai mi sarei aspettato di trovarmi in una casa completamente fatiscente, al di là di ogni logica norma di sicurezza. Non appena misi piede nel suo appartamento la cara vecchina mi volle portare in cucina, per mostrarmi quell’assurda perdita. Io le spiegai immediatamente i rischi che stava correndo, consapevole anche dell’odore di gas che sentivo, e la invitai a venire via con me. Lei tuttavia si mise a sbraitare, pregandomi almeno di prendere non so quale animale (un gatto mi sembra di ricordare, o forse un cane…) che vagava per casa. E io, stupido, mi lasciai intenerire. Entrai in quella dannata cucina e andai incontro al mio destino. La megera tentò infatti di accendere la luce, mediante un logoro interruttore il quale produsse una scintilla. Ben si può immaginare quale fu il risultato. La luce non si accese, lo sfrigolio crebbe di intensità e... boom! Nel momento in cui me ne resi conto era già troppo tardi. Fui investito da un’esplosione, e poi… il buio. Beffardo è stato, nei miei confronti, il destino dell’amorevole vecchina. Mentre io mi ustionavo l’ottantacinque percento del corpo, lei rincorreva giù per le scale del palazzo la sua adorabile bestiola che nel frattempo era schizzata fuori dalla porta di casa, rimanendo così incolume. Ironico vero? Spesso mi sono domandato se effettivamente ci sia giustizia a questo mondo. E ora eccola qui, alla cornetta del mio telefono, che tenta di parlami. Per cosa? Chiedermi scusa? Deridermi? Non lo so nemmeno io. Non ho né la forza né la voglia di rispondere. Vorrei solo poterla uccidere. Lo vorrei con tutte le mie forze ma non sono un assassino. Rimetto giù la cornetta senza darle soddisfazione e reprimo la mia rabbia. Chiudo gli occhi, bevo un sorso di whisky con la mia bocca ormai priva di labbra e mi sdraio sul divano, sempre perso nei miei pensieri su giustizia ed equità della vita. Il mio tentativo di distrarmi, tuttavia, viene nuovamente interrotto, questa volta dal campanello. Ancora lei, immagino. Non demorde. Vado a vedere dallo spioncino e trovo ad attendermi il suo volto sorridente e rugoso. In me si riaccende il desiderio di strozzarla con le mie mani. Ma poi? Diventerei un assassino, oltre che un mostro. Fantastico. Decido che tutto sommato è meglio lasciar perdere. Se ne andrà. Aspetto, ma lei non molla. Rimane lì. Deve avermi visto mentre mi portavano a casa. Conto sino a dieci, poi fino a cento. Nulla da fare. Lei è sempre lì, piantata come un palo. E va bene dannata, te la sei voluta! Le apro con la morte tra le mani, pronto a strozzarla. Non faccio tuttavia in tempo. Nel momento stesso in cui mi vede in viso sbarra gli occhi, il suo sorriso svanisce e il suo volto si trasforma in una maschera di orrore. Inizia ad urlare, delira, terrorizzata come solo lo si può essere alla vista di un’aberrazione. Io cerco di calmarla, ma lei indietreggia e mi urla di starle lontano. Io faccio esattamente il contrario. Avanzo, sempre più. Lei si avvicina pericolosamente al bordo delle scale. Ancora un passo. Un passo per uno. Io avanti e lei indietro. Ed eccola volare, come una bambola di pezza. Vola all’indietro per una cinquantina di scalini, fino ad atterrare ai piedi delle scale. La sua testa assume una posizione totalmente innaturale, il collo palesemente spezzato. A questo punto io inizio a ridere, ridere come un bambino. E, mentre tutt’intorno cominciano ad affacciarsi i vicini attirati dalle urla e dal tonfo, penso che sì, dopo tutto, c’è una giustizia al mondo!

Tratto da: I RACCONTI DEL DESTINO

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