Maschera 2

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Da piccola pensavo di avere l'ombra più imponente esistente, essa mi dava forza e coraggio col solo pensiero che esistesse a proteggermi ad ogni mio passo.

Crescendo ho capito che fosse un qualcosa da cui dovermi staccare. Quella parte che sembrava aggiungersi alla mia ombra era il mio mostro interiore intenzionato ad inseguirmi per sempre. Mi tormentava senza che io neanche lo sapessi. 

Alessitimia o analfabetismo emotivo.

Un limite che mi ha imposto la mia mente, l'impossibilità di capire chi io sia davvero, quali emozioni mi costituiscono. Il sentirmi obbligata a copiare le risposte dei miei compagni quando a scuola ci veniva chiesto cosa fossero per noi le emozioni. Una domanda innocua con il solo intento di far lavorare il loro piccolo cervello.  Ma io non sapevo risposta, come avrei potuto saperla d'altronde.

Credevo che gli altri semplicemente recitassero parole già scritte o dette ma quando iniziarono a passare gli anni c'era sempre e solo una domanda a perseguitarmi.

"Roosvelt cos'è per lei la felicità?".

Mi accorsi che quella domanda non faceva parte della mia immaginazione ma che a pronunciarla fosse proprio la Professoressa Davidson in carne ed ossa, più carne che ossa.

"La felicità?" domandai sgranando gli occhi.

Quella domanda sembrò aver attivato parte della mia mente facendo partire domande infinite senza risposta.

Esiste una domanda corretta?

Se si qual è?

Esiste la felicità? 

Se si come bisognerebbe descriverla?

D'altronde è un emozione astratta non la si può descrivere, giusto?

Un susseguirsi di parole e punti di domanda e di nuovo parole e punti di domanda presero posto nella mia testa per creare un vortice confusionario.

Molti bambini alle elementari rispondevano che fosse quando una situazione o una persona ti faceva sorridere. Sembra però una frase alquanto semplice, come si può descrivere un concetto così ampio con cinque parole striminzite.

Dunque sfoggiai la risposta che ormai davo dai miei sei anni.

"La mia famiglia" risposi sentendo subito dopo la campanella suonare. Alzai lo zaino da terra e mi incamminai verso il corridoio.

Scossi la testa prima a destra e poi a sinistra per almeno tre volte sorridendo al vento, nonostante solo esso potesse vederlo dato il capo rivolto verso il pavimento bianco panna.

Certo, la mia famiglia. Io non avevo una famiglia.

Uscì da quel manicomio chiamato "scuola superiore" e mi incamminai nei dormitori che aveva disposto la scuola a chi abitava lontano dalla scuola, dopo tutto era privata e avrebbe dovuto avere qualche privilegio rispetto a quella pubblica.

Come ci sia finita io, ragazza senza nè una famiglia nè una casa, in una delle scuole più prestigiose della California? Potrei chiamarla la fortuna nella sfortuna.

Seguì i corridoi che percorrevo da ormai quasi un mese per cinque volte la settimana.

Terzo piano, lato est, stanza 211.

Nessuna coinquilina per fortuna, non erano in molti ad utilizzare il dormitorio, preferivano gli hotel.

Ricchi.

Ma almeno così facendo avrei avuto il tetto tutto per me.

Era ad un solo piano sopra rispetto al mio ed ero l'unica a saperci arrivare.

Tutti vedevano le scale barrate con un mucchio di telecamere a sorvegliare e si arrendevano all'istante senza scoprire che però ad una porta di distanza ci fosse un altra scala camuffata dalle sembianze di un dormitorio dall'esterno.

Controllo a destra e a sinistra che non sia il turno della signora Morris a controllare i corridoi da possibili estranei. Dopo essermene accertata e , anzi, aver visto il Jerry in fondo al lungo corridoio che mi da l'okay decisi di salire.

Non appena aprì l'ultima porta che mi divide dal mio posto un freddo gelido ma piacevole mi coccolava facendo svolazzare i capelli qua e la.

Camminai verso il muretto in calcestruzzo e mi ci sedetti sopra parallelamente per osservare il tramonto colorare ogni cellula grigia del nostro pianeta. D'istinto sorrisi alla vista.

D'un tratto ricordai la domanda durante l'ultima ora di lezione.

Questa potrebbe chiamarsi la mia felicità?

"Sei stata poco convincente prima" un tono freddo e distaccato mi giunse alle orecchie.

Sgranai gli occhi, il respiro accellerò e la vista divenne sempre più opaca ed umida. 

Non può essere.

Non girai il capo verso la sua direzione, ero pietrificata.

"Di solito quando qualcuno ti parla dovresti per lo meno guardarlo" disse e la voce sembrò più vicina, talmente tanto da farmi rabbrividire.

La sua mano abbassò il mio cappuccio e lui si spostò nel mio campo visivo.

Non è lui.

Non mi ero neanche accorta che una lacrima mi era scappata e stava attraversando imperterrita il lato destro del mio volto.

I suoi occhi verdi scrutarono corrucciato quella goccia e la seguirono nel suo movimento.

Passai immediatamente la mano con lo scopo di scacciarla via insieme ai ricordi.

Lo sconosciuto sorrise sedendosi per terra accanto a me così da guardare anche lui il sole ormai scomparso, lasciando dietro di se solo il ricordo del suo passaggio, sfumature rosee irregolari.

Poi alzò il cappuccio.

Lo guardai interrogativa per tutto il tempo e avrei continuato finchè non avrebbe spiccato parola, ma questo non successe.

Eravamo  finiti alla fine per guardare le stelle comparire una dopo l'altra nello sfondo blu scuro.

Iniziai a contare le stelle dinanzi a me e ad ogni nuovo numero mi chiedevo se anche lui stesse facendo lo stesso.

Il freddo iniziò a farsi sentire insieme alla stanchezza così mi misi in piedi, a quel segnale lui mi copiò e ci incamminammo insieme verso il corridoio dei dormitori.

Arrivò il momento in cui avremmo dovuto dividere le nostre strade e lo sapevamo bene entrambi.

Mi scrutò in viso e io provai in tutti i modi a non scontrare il mio sguardo con il suo.

Una collisione fatale.

Sapevo stesse aspettando una sola parola ed io ero pronta per dirgliela nonostante il fiato sembrò mancarmi quando avrei voluto pronunciarla.

"Grazie" dissi infine in un sussurro senza guardarlo neanche in viso, girai i tacchi e mi diressi verso la mia stanza.


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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 17 ⏰

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