3• Una corsa disperata

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Mi alzai di scatto col cuore in gola.
«Dannazione! Mark, cosa diamine ci fai qui?»

Questo era davvero troppo anche per lui. Era sempre stato molesto negli ultimi tempi, ma solo allora realizzai fino a che punto si fosse spinta la sua follia e in quel momento, sola con lui, iniziai ad avere paura. Decisi di prenderlo di petto comunque, perché di solito aveva funzionato anche in passato.

Mi sorrise, ma il suo sorriso appariva distorto, quasi maniacale. Il grande sportivo che non aveva mai disdegnato di calarsi qualunque droga pareva averlo fatto di nuovo. Uno dei tanti motivi per cui ci avevo dato un taglio.

«Ho bisogno di te. Non riesco a vivere senza di te.»

Si passò a più riprese la mano tra i capelli, segno del suo nervosismo. Conoscevo bene quella gestualità. Quella prima dell'esplosione.
Cercai di mantenere la calma.

«Stai vaneggiando. Vai a smaltire la merda che hai preso, prima che arrivi qualcuno e ti denuncino. Devi andartene, non voglio che finisci nei guai!»

Cercai di convincerlo e fingermi preoccupata per lui invece che per me stessa era la mia ultima carta da giocare.

Ma lui non si muoveva.
«Ti ho vista dipingere, ma tu sei la mia opera d'arte preferita.»

Mi sentii gelare. Come poteva sapere che avevo dipinto? Da quanto tempo era qui che mi osservava? Doveva avermi pedinato dall'inizio e non me ne ero accorta... Cristo! Cercai di ragionare con lui per prendere tempo.

«Mark, non c'è più niente tra noi, te l'ho già detto! Vattene prima che ti vedano, lo dico per te. Torna a casa, dormici sopra. Per favore.»

Mi si avvicinò, stavo quasi per sfiorargli il braccio con la mano in un tentativo di contatto che lo riportasse a livelli di gestibilità e fu allora che vidi qualcosa di sbagliato nei suoi occhi. Un'espressione vuota, che solo la droga non bastava a giustificare. Mark era lì, ma nello stesso tempo non lo era.

«Mi hai respinto! Ma ora sarai mia per sempre.»

Colmò la distanza, mi afferrò per un braccio e mi tirò insieme a lui verso la finestra. Come un fulmine che squarciava le nubi più nere, in una rivelazione, capii le sue intenzioni. Voleva buttarsi di sotto con me!

La paura si trasformò in terrore. Eravamo in alto, troppo in alto...
Cercai di divincolarmi dalla sua presa e ci riuscii. Non avevo nessuna intenzione di morire, non lì, non in quel momento; mi afferrò di nuovo per il polso.

«Non puoi scappare, Lilith, siamo destinati.»

Cercai di liberarmi ancora con tutte le forze che avevo.

«Tu sei malato, lasciami andare, cazzo!»

Ormai non cercavo più di averci un dialogo, capii che sarebbe tempo perso e usai la paura per cercare in me della forza fisica.

Tuttavia per me era davvero troppo forte; la sua stretta sul braccio era salda e continuava a trascinarmi verso la finestra aperta come se niente fosse; mi stava conducendo verso il vuoto.

«Ti ho vista dipingere, e ora vedrai la tua ultima opera. Noi saremo un'opera d'arte per sempre. Insieme.»

Con un movimento improvviso e la forza della disperazione, mi divincolai dalla sua presa. Mi precipitai verso la porta così come mi trovavi, incurante di tutto, per scappare nei corridoi bui del college. L'adrenalina mi riempiva le vene mentre correvo, cercando di trovare un nascondiglio. Sapevo che mi stava inseguendo, la sua follia alimentata dalla rabbia, dall'ossessione e dalle droghe che aveva assunto.

I miei piedi scalzi scivolavano sul pavimento di linoleum producendo un fastidioso stridio. Il corridoio buio era illuminato solo da pallide strisce di luce provenienti dalle finestre. Le pareti sembravano stringersi su di me, e il mio respiro affannato echeggiava nel silenzio.
Dovevo scappare, pensai, mentre il cuore mi martellava nel petto.

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