7• Polvere

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«Maya, ti prego...»

Mi tirai la coperta sugli occhi, cercando di sfuggire alla luce intensa e al freddo che penetravano dalla finestra lasciata aperta. La mia testa pulsava e sapevo di aver esagerato con l'alcol, ma ne era valsa la pena: per una sera, mi ero sentita di nuovo viva. Non c'era alcun Mark a tormentarmi nei recessi più oscuri della mente, e persino la presenza di Raphael era svanita, grazie a Jared.

Il suo numero di telefono, scritto sul lato interno del mio avambraccio, era lì a ricordarmi il momento. Un curioso tatuaggio temporaneo che, a meno che non lo avessi memorizzato, sarebbe scomparso in breve tempo. C'era qualcosa di infantile e al contempo seducente in quel gesto: la penna era scivolata sulla mia pelle come una carezza, e il suo sguardo divertito mi avevano fatto pensare che, forse, rivederlo sarebbe stata un'idea da considerare.

«Alzati, ho fame! Se non ti muovi non troveremo più niente, finirò per mangiare gli snack del distributore automatico.»

Mi piazzai di nuovo il cuscino sul viso, cercando di elaborare le sue parole. Mi chiesi se la mia fame fosse sufficiente a costringermi ad alzarmi, correre in doccia e catapultarmi per i corridoi con i capelli ancora bagnati, piuttosto che ritrovarmi con un vassoio pieno di sole verdure lesse e scondite. Era sabato, e la mensa scolastica di solito offriva una deliziosa alternativa al pasto salutare.

«Va bene, va bene, mi hai convinta, mi alzo!»

Presi il telefono e memorizzai il numero di Jared. Come previsto, mi preparai in un baleno e, dopo poco, ci ritrovammo sedute ai tavoli della mensa, con un vassoio che mostrava un invitante trancio di pizza.

«Se la felicità fosse un cibo, sarebbe la pizza! Senza dubbio!»

Maya sollevò la sua porzione con entusiasmo e prese un morso, sporcandosi il contorno della bocca di pomodoro come se fosse una bambina.

La osservai incantata. Mangiava come se in quel momento esistesse solo quella fetta di pizza sull'intero pianeta. Non avevo mai visto tanto entusiasmo. Iniziai a mangiare anch'io e non potei fare a meno di concordare con lei.

La felicità, per alcuni, era davvero una fetta di pizza.

Io la felicità nemmeno sapevo se esisteva davvero. Come esseri umani sperimentavamo sprazzi di soddisfazione effimera che avremmo scordato in breve tempo. Mentre il dolore, ah, quello lo sapevo bene che esisteva. Tra tutte le emozioni umane era la più tenace. Ci avvolgeva, ci si incollava addosso come una seconda pelle, e non ce lo scordavamo più. Anche quando si credeva di averlo dimenticato, bastava un attimo per risentirlo, spietato e prepotente. Nel mio caso fu quella fetta di pizza in quel preciso istante. Non un attimo prima, non uno dopo.

«E dimmi, avresti intenzione di mangiare anche quello?»
Il suo sguardo di disgusto si posò su di me, come se stesse osservando un qualcosa di osceno e raccapricciante.

«Perc-»
La mia domanda innocente fu interrotta dalla sua risposta sprezzante. Non attese nemmeno il tempo di completarla.

«Fai come ti pare, esco, non aspettarmi alzata.»

Finì di truccarsi allo specchio dell'ingresso, sistemò i capelli argentei ravvivandoli con le mani, si lisciò la gonna osservando la sua figura di profilo e guardò l'orologio.

«Hey, quella non la mangi?»

Mi ritrovai a trasalire come se si fosse d'improvviso materializzata sotto ai miei occhi. La misi a fuoco come si sarebbe potuto guardare un fantasma.
Spinsi il vassoio verso Maya.
«No, prendila pure, sono piena.»

Le sorrisi per rassicurare la sua evidente perplessità, allungò la mano e finì di mangiare anche la mia porzione.

«Scappo, devo recuperare del materiale dall'armadietto, mi sono ricordata una cosa!»

Senza aggiungere una sola parola, mi alzai, accostai la sedia al tavolo e mi lasciai alle spalle lei, la sala mensa e l'eco dei ricordi.

Mi incamminai nei corridoi vuoti e all'improvviso incrociai Raphael ricordandomi così della promessa che avevo fatto a me stessa. Il suo sguardo mi destabilizzava. Era passato da provocatore all'aeroporto, a premuroso sotto la quercia. Dal fuoco della passione nella sala pittura al niente più assoluto al Blue Moon. Indecifrabile come un gargoyle di pietra, non comprendevo il mutare senza senso dei suoi comportamenti, ma sapevo per certo cosa volevo io.

Con passo sicuro e a testa alta, senza distogliere gli occhi dai suoi continuai a camminare nella sua direzione. Non era solo, tuttavia ciò non mi avrebbe impedito di diventare polvere e di infilarmi in ogni suo spazio vuoto.
Presi in mano il telefono e scorsi la rubrica continuando a camminare. Cercai il numero di Jared e a due passi da lui pensai di inoltrargli una chiamata così che mi sentisse parlare. Invece il fato, il destino, il karma o qualsiasi cosa esista, decise in quel preciso istante di prendersi gioco di me. Squillò nello stesso istante in cui arrivavo sul numero che cercavo.

«Anja, ciao! Stavo giusto per chiamarti. Devo raccontarti di ier-»

Non mi diede il tempo di finire la frase.
«Lilith, hanno trovato le scarpe di Mark... sulle sponde del lago.»

Un gelo mi percorse la schiena. Mark. Il suo nome riempì la mente di ricordi, di notti in cui la paura si era impossessata di me. Aveva cercato di uccidermi, e poi era sparito, svanito nell'aria come un incubo. Lo avevo quasi rimosso. Ma ora, mentre Anja continuava a parlare, il suo tono diventava sempre più grave.

«Stanno cercando il corpo coi sommozzatori. Pensano che abbia deciso di... si insomma...»

Il mio cuore accelerò. Un misto di angoscia e sollievo si mescolò in me. Era strano, ma pensare che finalmente avrei potuto credere che quel capitolo aperto potesse chiudersi, mi fece sentire quasi felice, ma nauseata. Ricordai il suo sguardo, quel modo in cui mi aveva fissata, come se fossi un oggetto da possedere. Di come avesse cercato di trascinarmi verso la finestra e mi avesse poi dato la caccia per i corridoi, braccata come un animale. L' immagine delle sue calzature abbandonate sul bagnasciuga mi fece sentire colpevole, spaventata, ma anche curiosa. Lo avrebbero trovato? E se fosse davvero finita? E quanto di ciò che era accaduto era colpa mia?
Feci un respiro profondo, mentre il mio mondo sembrava ricomporsi attorno a quella telefonata.

«Anja, credo... sì credo che dovrei venire lì.»

La notizia stava iniziando a sopraffarmi. Mentre i pensieri si accavallavano nella mia mente, un giramento di testa si fece strada, facendomi sentire leggera e confusa.
All'improvviso, tutto intorno a me cominciò a vacillare mentre le mie gambe cedevano.

Proprio in quel momento, realizzai che Raphael era ancora davanti a me. Non era la persona che avrei voluto avere accanto in un momento del genere non dopo che si era comportato in quel modo, ma non potei evitarlo.

«Cosa ti succede?»
Il suo tono risuonò più di impazienza che di preoccupazione.
Non riuscii a rispondere. Il corridoio si stava muovendo intorno a me, e prima che potessi fare un passo, per scappare da quella situazione, lui si avvicinò e mi afferrò per un braccio, sostenendomi giusto in tempo prima che crollassi.

«Non è il momento di svenire, Lilith.»

Il suo profumo era sempre quello. Profumo di buono. Mi riempì le narici, per rendersi indimenticabile.
La sua voce però non aveva quel calore che quella frase avrebbe richiesto. Era più un ordine che un incoraggiamento.
Cercai di ritrovare il controllo su di me e sul suo sguardo freddo e distaccato.

«Lasciami.» Mi scrollai di dosso l'irritazione e la confusione e riuscii a riprendermi il tanto che mi concedesse di allontanarmi da lui.
«Anja, vedo se posso venire. Ti aggiorno.»

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Dopo lungo tempo sono riuscita a completare questo capitolo. Io e Lilith abbiamo un rapporto di amore e odio. La amo per alcuni motivi e la odio con tutto il cuore per altri. Questa è la storia che finora mi sta mettendo più alla prova di tutte e ogni volta che penso di rimetterla nelle bozze, ecco che l'ostinazione ha la meglio. Vado a sentimento, come sempre. A presto.

Hailey 💞

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