L'ascesa dell'ombra

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Il sole d’Egitto batteva sulle acque del Nilo riflettendo bagliori dorati che sembravano danzare sulle onde placide. I sacerdoti si muovevano intorno al giovane Amon-Dai, cantando inni di purificazione mentre invocavano i nomi delle divinità.

«Vostra Maestà, possano gli dèi condurvi nel loro regno» pronunciò Aken, il visir.

Il principe avanzò verso il fiume sacro, il vento caldo gli accarezzava la pelle nuda e a ogni passo verso l’acqua gli sembrò avvicinarsi a un traguardo che quel giorno avrebbe finalmente toccato, una meta che non pensava di raggiungere così presto.
Quando entrò nelle acque del Nilo, sentì il tocco freddo avviluppargli le caviglie, poi i fianchi, il petto. Era l’acqua sacra, il dono di Hapi, simbolo di vita e di purezza, e immergervisi significava affidarsi al volere degli dèi, liberarsi delle proprie colpe. Amon-Dai tuttavia sentiva una macchia indelebile sulla sua anima, qualcosa che l’acqua non poteva lavare via o cancellare.
Sì sentì intrappolato in un sogno, come se tutto fosse accaduto troppo in fretta.

Solo pochi giorni prima suo padre, il faraone Khem-Dai, era ancora sul trono, con la sua ombra pesante come un macigno su di lui, con il suo sguardo carico d'odio, la rabbia che gli gonfiava le vene del collo mentre gli gridava contro.
Fin dalla sua più tenera giovinezza lo aveva maltrattato, Khem-Dai temeva che il figlio lo oscurasse con la sua stessa esistenza. E aveva ragione. Amon-Dai era quello che lui non sarebbe mai stato.
La sua gelosia si manifestava in ogni parola, in ogni colpo. Vedeva nell'intelligenza di Amon-Dai una minaccia, nella sua capacità di attirare l'affetto del popolo un pericolo. Ogni giorno cercava di distruggerlo, di soffocare quella luce che non riusciva a controllare, ma non fece altro che renderlo più forte.
Non c'era amore tra loro, solo disprezzo e il principe sapeva che prima o poi uno dei due sarebbe caduto.
Quando una notte senza luna Khem-Dai sollevò la mano per colpirlo, come aveva fatto altre innumerevoli volte, comprese che era giunto quel momento. Non provò paura, né esitazione, sapeva solo che il padre non avrebbe mai più sollevato quella mano contro di lui.
Chiamò Seheru, il suo leone domestico, un dono proprio di Khem-Dai.
Quando lo ricevette ne rimase sconvolto, quello fu l'unico gesto d'affetto da parte del padre, ben presto capì che il suo non era mai stato un gesto affettuoso, quanto un tentativo di toglierselo di mezzo senza sporcarsi le mani, proprio grazie all'aiuto di una belva selvaggia. Trovò ironico che quel leone, pochi anni dopo, sarebbe stato lo strumento della fine di suo padre, ma il destino non può essere cambiato, può essere solo rallentato.

In quella stanza insieme a loro c'erano servi, guardie, sacerdoti. Amun-Dai li guardò, ma nessuno di loro fece nulla. Nessuno si mosse, nessuno di loro provò a fermare ciò che sapevano sarebbe accaduto.

Il leone balzò e i suoi denti affondarono nella carne del faraone. Nonostante le urla, il sangue che zampillava sul pavimento di pietra, nonostante il rumore delle ossa che si spezzavano sotto la possente mascella dell'animale, nessuno intervenne.
Amun-Dai comprese che tutto era già stato pianificato. Khem-Dai non era più utile, non era più gestibile. Lui era un giovane principe modellabile, una facile pedina nelle loro mani.
Mai... non sarebbe diventato il loro strumento, non lo avrebbe permesso.

Le urla finalmente cessarono e il principe non provò nulla.
Il potere non è mai una questione di emozioni. Non c'era gloria nella sua morte, solo la rimozione di un ostacolo sulla sua strada.
Certo non poteva negare di aver oltrepassato una soglia: l'odio che aveva covato per anni si era trasformato in azione, e quell'azione lo aveva avvicinato a un'oscurità che non poteva ignorare, che non poteva cancellare. Non era solo vendetta, era qualcosa di più profondo, una sensazione che il potere, una volta assaporato in tutta la sua brutalità non lo avrebbe mai più abbandonato.

I ricordi erano come cicatrici; la loro permanenza si intrecciava nella carne, nelle ossa e si chiese se anche gli dèi avessero visto quel sangue.
Emerse dalle acque del Nilo accolto dai canti dei sacerdoti e dal profumo pesante dell’incenso. Il fumo lo circondava come nebbia, sentì il calore della veste bianca che gli posero sulle spalle, pesante come una catena intessuta di fili d'oro.
Raggiunse il tempio mentre i sacerdoti continuavano a intonare i canti che si innalzavano come un respiro unico.
Il suono dei tamburi lo circondava, e Amon-Dai avanzò tra il mormorio dei presenti con il capo alto e lo sguardo fisso sui simboli del potere che lo attendevano.
Uno dopo l’altro, i sacerdoti gli porsero il flagello e il pastorale, simboli di comando e protezione, e Amon-Dai sentì il peso di quel potere fisico nelle sue mani, quasi volessero ancorarlo alla terra per ricordargli che la sua esistenza non era più solo la sua.
Il flagello, ruvido e rigido, rappresentava l’autorità assoluta, la punizione che poteva infliggere, mentre il pastorale era morbido e arrotondato, un segno di guida e cura verso il suo popolo.

Akhen, il visir si avvicinò portando con sé la doppia corona, emblema dell’unificazione dell’Alto e del Basso Egitto. Amon-Dai trattenne un attimo il respiro, sapeva che quella corona aveva cinto il capo di Khem-Dai e di molti sovrani prima di lui, un simbolo che custodiva le speranze e le paure di un regno intero. Aveva solo diciotto anni e stava per diventare il faraone, un dio sceso in terra.

Aken sembrò leggere la mente del giovane principe. Era sempre stato una guida per lui, quasi come il padre che non ebbe mai. Amon-Dai lo rispettava molto e gli era molto grato per tutte le volte che in qualche modo era riuscito a difenderlo dalla furia di Khem-Dai.

«Gli dèi vi osservano mio principe» gli sussurrò.

«Farò in modo di mostrargli qualcosa di interessante» rispose lui, spavaldo come aveva imparato a essere.

Il visir sorrise e pronunciò i cinque nomi reali di Amon-Dai: figlio di Osiride, rappresentante dell’ordine di Maat, signore della giustizia, difensore delle terre d’Egitto. Ogni nome risuonava come un sigillo, consacrandolo come figura divina e legandolo indissolubilmente al destino del regno.

Amon-Dai si preparò a pronunciare il giuramento del faraone. Le sue mani strinsero il flagello e il pastorale, e il suo sguardo si posò sulla folla dei sacerdoti e dei nobili che lo circondavano.

«Giuro» disse, la voce calma e ferma «di mantenere l’ordine di Maat e di difendere il popolo d’Egitto. Giuro di guidarlo con giustizia e di custodire il suo destino, come gli dèi custodiscono il mio».
Le sue parole furono accolte dal mormorio approvante dei sacerdoti.

«Sono certo che avrete molto da mostrarci, mio re» concluse Aken con approvazione e un rispettoso inchino.

I canti si fecero più sommessi e il nuovo giovane faraone venne condotto verso il sancta sanctorum, il cuore sacro del tempio, dove solo il faraone e i sacerdoti potevano entrare.
In quella stanza buia e illuminata solo dalle fiamme delle torce, Amon-Dai si trovò di fronte alle statue dei grandi dèi: il suo protettore Osiride e poi Horus, Ra, Iside. Il loro sguardo di pietra era freddo e immobile, ma Amon-Dai sentiva la loro presenza come se fossero lì in carne e ossa.
Un sacerdote si avvicinò, portando un’offerta di frutta, pane e miele, e lo posizionò ai piedi delle statue. Quel sacrificio, semplice ma prezioso, rappresentava il dono che Amon-Dai offriva agli dèi, chiedendo la loro benedizione e il loro favore.
Il giovane faraone abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi per rivolgersi a loro in silenzio. Sapeva che da allora ogni suo passo sarebbe stato osservato da occhi divini, giudicato e misurato.
Fu in quel momento che una strana sensazione lo attraversò, un brivido che gli scivolò per la colonna vertebrale e lo fece rabbrividire.
Nella sua mente vide il sole oscurarsi, coperto da un disco nero.
Quando aprì gli occhi, nessuno sembrava aver visto lo stesso.

Un messaggio dagli dèi? Un presagio di sventura? Era forse lui quel disco nero che avrebbe fatto crollare le tenebre sull'Egitto?

«Mio Signore...» Aken lo riportò alla realtà. «È tutto in ordine?».

La risposta non fu immediata.
«Sì» annuì, nonostante stesse sudando freddo.

Decise di tenere quel segreto tra lui e gli dèi, se avessero voluto mostrarlo a tutti lo avrebbero fatto.

Nascose quel dubbio e con il capo eretto e il volto impassibile, Amon-Dai uscì dal sancta sanctorum per dirigersi verso la folla che lo attendeva oltre le mura del tempio.
Il suono dei tamburi riempiva l’aria mentre il giovane faraone percorreva gli ultimi passi verso il popolo che ora governava.

Quando apparve davanti alla folla, un grido di esultanza esplose tra la gente, rimbalzando sulle mura del tempio e risalendo fino al cielo. Il popolo si inginocchiava, alzava le braccia in segno di devozione, e Amon-Dai rimase immobile, con la corona che risplendeva alla luce del sole.
Sentiva il peso di quelle acclamazioni come un’onda che si infrangeva contro di lui, e sapeva che quel momento non era solo l’inizio di un regno, ma l’inizio del suo cammino verso l’immortalità.

Osservando il popolo, il giovane faraone mantenne il volto impassibile come una statua scolpita nel marmo, consapevole che quello era il suo trono, e che nessuno avrebbe mai potuto togliergli ciò che aveva appena conquistato.

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