Prologo

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La luce tremolante del lampione proietta lunghe ombre sulla strada deserta, fino a lampeggiare una, due, tre volte e poi spegnersi del tutto.

È una di quelle notti d'inverno in cui il freddo si infila nelle ossa e persino l'aria stessa sembra trattenere il fiato, figuriamoci l'ultimo povero lampione usurato nella Fletcher street, quello che mi separa da casa.

Stringo le braccia al petto e accelero il passo. La strada è fin troppo silenziosa, e ogni passo rimbomba come un'eco che non mi piace per niente. Il cuore, di riflesso, comincia a battere più forte, come se avvertisse qualcosa che la mia mente non ha ancora colto.

È solo un istante, un lieve rumore alle spalle, e mi blocco.

Il punto è che ho sempre avuto paura del buio, fin da bambina, e questa è la prima volta che mi trovo sola a quest'ora. Contrariamente al volere di papà, mi sono presa un anno sabbatico dopo il diploma per mettermi a dare ripetizioni ai bambini della piccola comunità non distante da noi.

La verità è che spero di mettere da parte un gruzzolo ed essere finalmente indipendente, per potermene andare da quella casa piena di troppi ricordi brutti.
Mi costringo a respirare, a pensare che quel rumore è solo una mia paranoia.

Ma poi lo vedo.

Ombra tra le ombre, un movimento appena percettibile alla mia sinistra.
Un uomo, alto, con il cappuccio tirato su. Sta lì, fermo, immobile, come se aspettasse qualcosa.

Qualcuno.

Mi irrigidisco.

Potrei correre, gridare, ma è come se le gambe fossero di pietra. Lui mi guarda, e capisco che sa chi sono.
Sento il suo sguardo penetrare attraverso il buio fino a raggiungermi.

Un brivido di terrore mi serra la gola. C'è qualcosa nei suoi occhi, un'oscurità che sembra conoscermi, qualcosa di familiare che non riesco a spiegare.

Senza un attimo di esitazione, lui si muove verso di me. Il mio corpo finalmente risponde e scatto all'indietro. Metto un piede in fallo, inciampo, ma riesco miracolosamente a rimettermi in piedi.

Le gambe tremano mentre corro, il respiro corto, l'aria gelida mi penetra nelle costole e le sento bruciare una ad una.
Il suo passo si fa cadenzato dietro di me, troppo vicino, troppo sicuro.

Non mi volto, non posso permettermelo. Non voglio vedere quanto è vicino.

Corro finché non arrivo alla porta di casa, le mani tremano mentre infilo la chiave, lottando contro la serratura che sembra maledettamente opporsi alla mia fretta disperata.

Qualcuno ascolta la mia preghiera mentale e disperata perché finalmente riesco ad aprire, mi chiudo dentro e mi appoggio con la schiena alla porta, il cuore che batte impazzito.

Ed è proprio lì, nell'ombra, che vedo il suo volto, schiacciato contro il vetro e il respiro mi si mozza nel petto.

Un sorriso freddo, crudele.
La sua bocca si muove, mi dice qualcosa ma non riesco a sentirlo: il suo resta un sussurro strappato dal vento.

Mi accascio a terra incapace di respirare, incapace di pensare. Tutto si dissolve in quel momento, ogni sicurezza, ogni senso di protezione.
Sbatto ripetutamente le palpebre e... non c'è più nessuno.

Più niente, eccetto il cuore che pare essersi dimenticato come si fa a battere in modo normale.

«Amy?» La voce di papà risuona forte e chiara dallo studio e mi riporta bruscamente con i piedi per terra.
«Amara?» Insiste, non ricevendo risposta. «Sei tu?»

Mi rialzo e tiro un respiro profondo, passandomi i palmi sudati sui jeans. Alcuni ciuffi ramati mi ciondolano sulla faccia, sfuggiti alla coda di cavallo nell'impeto della fuga.

Forse ho sognato tutto quanto, non c'è altra spiegazione.

«Sono io, papà» mi affaccio sulla porta dello studio e mi dipingo in faccia un sorriso tirato che spero gli dia a bere una serenità che non provo affatto. «Ho fatto un po' tardi, scusami.»

Corruccia gli occhi azzurri in due fessure, ma non dura tanto perché un sorriso fa capolino sotto i suoi baffi fulvi. «Sai che devi telefonarmi quando finisci tardi. Ti sarei venuto a prendere.»

«Hai ragione. La prossima volta ti chiamerò.»
«Credo che non ci sarà una prossima volta, Amy.»

Mi sono già voltata per fiondarmi nella mia stanza con l'intenzione di restare sotto la doccia bollente almeno un'ora, ma mi blocco sul posto.
«Che vuol dire?» Mi acciglio.

Mi fa cenno di avvicinarmi mantenendo un'aria benevola nello sguardo, cosa che mi fa ben sperare non si lanci nel solito tira e molla per farmi lasciare il lavoretto che ho trovato.

Ma mi scontro presto con una realtà a cui ormai non pensavo più.
«Hanno accettato la tua domanda alla Blackridge University.»

Quale domanda?

«Non ho fatto nessuna domanda, papà» obbietto, col cuore di nuovo in gola. «Soprattutto per una delle Università più prestigiose, e costose, dello stato.»
«Lo so» sogghigna lui. «L'ho fatta io per te.»

Mi affloscio nelle spalle, con un groviglio alla bocca dello stomaco che fatico a comprendere.
«Papà, ne abbiamo già parlato. E io...»

«Amara» quando usa il mio nome intero c'è poco da discutere, con lui. «So che abbiamo parlato fino allo sfinimento dell'eventualità che tu possa continuare gli studi e delle difficoltà economiche che la cosa avrebbe potuto comportare. Ma i soldi ci sono, se la tua perplessità è questa... devi stare tranquilla.»

Scuoto il capo.
Non voglio sapere che cosa ha dovuto sacrificare stavolta, magari di nuovo qualche gioiello della mamma o le ultime proprietà che aveva, perché c'è qualcosa che mi farebbe forse ancora più male.
«Significherebbe... lasciarti solo.»

Gli occhi di papà si fanno lucidi, ma il suo sorriso non perde un grammo del compiacimento che ha da quando sono entrata nella stanza. «Hai quasi diciannove anni, è arrivato il momento che cominci a pensare alla tua vita. O vuoi restare a farmi da babysitter per sempre?»

Riesce a farmi ridere anche se il cuore ormai è così disordinato che mi lascia senza fiato.

Continuare gli studi in un posto così prestigioso e importante sarebbe non solo un sogno, ma un modo per stare al sicuro.
Da quell'uomo che mi guarda nell'ombra da settimane e che, ne sono certa, non è solo frutto della mia fantasia.

So che avrei dovuto dirlo a qualcuno, avvisare la polizia, ma non so perché sono sicura che se l'avessi fatto avrei messo in pericolo l'ultima persona della mia famiglia che mi è rimasta.

E forse andarmene sarebbe un bene anche per lui.
«Facciamo che ci dormo su e poi decido?»

Ridacchia. «Facciamo che prima di dormire prepari i bagagli e, da domani, disbrighiamo tutta la parte burocratica. La Blackridge ti aspetta entro la fine della settimana.»

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