Cap. VIII

13 4 0
                                    

Il rammarico che mi portai dentro fino a casa, non volle abbandonare il mio corpo così facilmente. Mi ero appena fiondata fuori da casa Miller, quel luogo che in pochi secondi mi fece tanto avvilire da voler scappare.
Ignara del gingillo che stavo lasciando alle mie spalle, salì sul taxi e diedi subito l'indicazione all'autista. Il tempo del tragitto mi servì a riflettere sul mio operato, o meglio, l'operato di copertura. Per me quel lavoro non aveva benché la minima importanza, mi serviva solo perché avrebbe contribuito a tenere un basso profilo, e ad avere qualche soldo in più.
Ma allora perché mi stavo arrovellando troppo? Perché chiedevo continuamente a me stessa in cosa avessi sbagliato? Perché cercavo tanto di darmi una risposta plausibile a quella che fu la reazione del signor Henry Mirren? Ma soprattutto, perchè mi stavo dannando per ciò che era appena successo? Non avevo avuto delle risposte a tutte le domande, anzi, non avevo chiesto al signor Mirren nemmeno un quarto delle tante domande di Josephine. Probabilmente quando avrei riportato la notizia al signor Wilson, mi avrebbe licenziata senza pensarci due volte. Ma cosa potevo farci? Non avevo avuto il tempo di confrontarmi con Josephine sulle domande, anche perché non la credevo così ficcanaso.
Ma ciò non era una giustificazione. Avrei dovuto dare un'occhiata alle domande scritte in quell'esile foglio di carta, e avrei dovuto scartare quelle inopportune. La reazione del signor Mirren era più che giusta.
Stupida. Sei stata una stupida.
Mi tormentai per qualche minuto.
Ma poi ritornai a mente lucida, e riflettei. <<Cosa sto facendo? Ho sbagliato, ho fatto incazzare il capo di Scotland Yard, e allora? Cosa me ne importava?
Anzi, era un bene che avessi trovato un alibi per stare lontano da lui. Lui probabilmente mi crede una sciocca ragazza in preda ad una crisi adolescenziale, fuggita in un paese straniero e che lavora per uno squallido quotidiano, come disse lui. Perciò era stato forse un bene? Chi lo sa. Dovrei stare lontana da quell'uomo, il pensiero che io abbia fallito in un incarico, che nemmeno avevo chiesto io tra l'altro, non aveva la minima importanza. Adesso avrei dovuto concentrarmi nuovamente sul mio obiettivo, il mio vero obiettivo.
Chissenefrega se per Henry Mirren il giornalismo non mi si addice? O che avrei dovuto cambiare lavoro? Dovrebbe temere di me, che sarei capace di dar fuoco alla sua dimora se avessi voluto. Sarei stata capace di distruggerlo, di strapparlo dal piedistallo di cui un gruppo di politici e la reputazione benigna della sua famiglia lo aveva nonchè privilegiato, e l'avrei dato in pasto ai lupi dei servizi segreti. Avevo il potere di annientarlo, e non lo avrei sprecato.
La voce del taxista che mi chiese il denaro per il tragitto abbastanza impetuoso ruppe i miei pensieri. Lo pagai, gli diedi quel denaro che ahimè, fu sprecato. Pagare per arrivare e poi fuggire dal perfido covo dei Mirren, lo considerai l'ottavo peccato capitale.
Scesi dal taxi con un'amarezza che solo un'aspirante giornalista che aveva a dir poco fallito poteva comprendere. Presi l'ascensore e mi ritrovai presto davanti la porta della mia nuova casa. Porsi la chiave all'interno della serratura, ed entrai, cogliendo subito la voce di Luna che aveva udito il mio ingresso dalla cucina.
<<Jane! Sei già qui?>> quello che mi ritrovai davanti fu un comico spettacolo, perchè Luna stava indossando un grazioso grembiule da cucina anni ottanta.
<<Cosa ci fai qui? Come mai non sei a lavoro?>> poggiai la borsa su una piccola poltrona che avevamo sistemato in un angolino della cucina. <<E questo da dove esce fuori?>> la frustrazione e la demoralizzazione sparirono di fronte alla vista della mia coinquilina che trovava sempre un motivo per distrarmi. <<Ah si, questo è di mamma, non ne avevo altri, ogni volta mi dimentico di comprarlo.>> lo disse mentre si sistemava quel buffo grembiule.
<<Comunque oggi lavoro di pomeriggio, sarà così due giorni a settimana. Ma ora vieni a vedere cosa c'è in forno per noi.>> afferrò il mio braccio trascinandomi davanti la vetrata calorica del forno. <<Ho fatto un pasticcio di lasagne, me lo ha insegnato Rebecca, una mia cugina italiana. Dì un pò l'hai mai provato?>>
<<No, mai. Non dovevi disturbarti tanto.>>
<<Oh! Sempre con questa frase, come se non vivessimo insieme! Le cose le faccio anche per me.>> sembrò che la infastidii veramente quella volta. <<Scusa, mi sento perennemente in debito con te.>> mi sedetti su una delle sedie della nostra piccola cucina.
<<Non devi, questa è casa tua, e io vivo con te.>>
<<Hai ragione.>>
<<Poi se non ti va che io cucini qualcosa di buono, possiamo mangiare scatolette di tonno.>>
<<Mi sembra una buona idea.>> ad entrambe scappò una piccola risata.
<<Comunque, com'è andata in sede?>> mi ricordai in quel momento che a Luna non dissi niente dell'esclusiva.
<<Ah non te l'ho detto. Oggi ho dovuto fare un intervista. La mia collega è malata, e l'ho sostituita.>> dissi con una piccola nota di fastidio che salterellava qua e là tra le sillabe, <<Anche se non avrei voluto.>>
<<Perchè? Chi hai intervistato?>> Luna stava regolando il timer del forno, perciò distolse lo sguardo da me.
<<Qualcuno che è molto permaloso. E che odia i matrimoni.>> risi tra me e me a quell'affermazione.
<<Uh, chi è la vittima Jane?>> adesso aveva appena aperto il forno per controllare come procedesse la cottura.
<<Il signor Mirren.>> e addentai una fetta di pane.
<<Che?>> alla mia risposta girò subito il capo nella mia direzione, e a causa di ciò battè la testa sull'angolo d'acciaio dello sportellino del forno. Mi alzai e provai a darle soccorso,
<<Cosa fai Luna? Stai attenta, c'era il forno aperto.>> con una spinta chiusi subito lo sportello del forno. <<Insomma cosa c'è di straordinario?>>
<<No è che, non aveva mai lasciato che qualcuno lo intervistasse. Mi stranizza.>> la mia coinquilina stava tamponando lentamente il punto che aveva battuto con la mano per provare ad alleviare il dolore. <<Come hai fatto a entrare nel suo ufficio?>>
<<Quale ufficio, sono andata a casa Mirren.>>
<<Cosa?>> il suo tono esprimeva tutto lo choc che in quel momento l'attorniava.
<<Sì, me lo ha chiesto il signor Wilson di andarci. Aveva detto che avevamo appuntamento a casa loro.>> nel viso della mia coinquilina vidi un'espressione assai sorpresa, <<Ma in realtà credo che sia stato un errore dei suoi segretari. Ha definito il giornale per cui lavoro uno "squallido quotidiano", quindi per quale motivo dovrebbe acconsentire ad una intervista?>>
<<E' probabile che qualcuno abbia sbagliato. Mi ha sorpreso la cosa dell'intervista. E com'è andata? Avevi delle domande pronte? Perché non mi hai detto niente?>> Luna mi assillava di domande come una bambina assilla i genitori la notte di Natale perché è impaziente di ricevere i suoi regali, <<Non lo sapevo che avrei dovuto intervistare proprio lui. Insomma, sapevo che avrei dovuto sostituire una mia collega malata per un'esclusiva, ma non pensavo si trattasse proprio dei Mirren. Non credi che te l'avrei detto?>>
<<Va bene, va bene, ma ora racconta cosa è successo. Ti ha invitato lui nel suo studio?>> sì, Luna non vedeva proprio l'ora di scoprire com'era andata.
<<C'erano dei domestici, una di loro mi ha fatto accomodare in salotto. Era molto ampio, forse la metà della nostra casa. E non ti dico che eleganza all'interno.>> stavo cercando di sviare la conversazione, non mi andava di raccontare com'erano andate realmente le cose, ma Luna non volle sapere ragioni. <<Va bene di questo ne parleremo in un secondo momento, ora dimmi di lui. Come sei arrivata nel suo ufficio?>> mi sembrava di essere tornata agli anni delle medie, dove ci accerchiavamo in gruppo e tra donnine discutevamo dei nostri fatti amorosi. <<Questa domestica, anzi credo sia meglio dire, la governante, mi ha portato nell'ufficio del signor Mirren, dove poi sono entrata.>>
<<Okay e poi?>> credo non gliene fregasse più nulla del pasticcio di lasagne.
<<<Poi il signor Mirren mi ha detto che non rilascia mai interviste, e che di queste questioni giornalistiche se ne occupa la sorella. Ma la signora non c'era, quindi mi ha fatto accomodare. Io gli dissi che se voleva potevo ritornare quando la sorella sarebbe rientrata, ma ha insistito per farmi rimanere, perciò dopo abbiamo iniziato l'intervista.>>
<<Non ti ha fatto domande personali? Non ha capito che sei straniera? Anche un sordo lo capirebbe.>> le scappò una piccola risatina. <<Molto gentile, Luna.>> la guardai sorridente reggendo la sua battuta, e dopo continuai il mio racconto, <<Sì, mi ha chiesto di dove fossi, perché lavorassi per uno squallido giornale del quotidiano, e poi..>> non mi ero resa conto del fatto che stavo aggiungendo ben altro, <<E poi? Cosa?>>
<<Mi ha chiesto se non mi fossi sentita sola a passare le feste natalizie. Ma gli ho detto che non sarebbe accaduto, perché ho un'amica.>>
<<Non ci sto. Non hai pensato a me? Io mi sento tremendamente sola, ho bisogno della compagnia del signor Mirren.>> disse con fare divertito, e anche ironico, ma non troppo.
<<Per favore, anche no. Non hai idea di come ha reagito ad una delle domande che erano scritte sul foglio della mia collega>> Ah, quella Josephine! <<Ad un certo punto gli chiesi come mai abbia messo fine al suo matrimonio con una stilista francese, ma non ricordo il nome.>>
<<Ivette Dubois, immagino.>>
<<Sì, quella donna lì. Comunque gliel'ho chiesto, ed è andato su tutte le furie chiedendomi di abbandonare il giornalismo perché non è alla mia portata.>>
<<Ah! Povero signor Mirren, hai toccato un tasto molto serio. Poverino, magari ci rimugina ancora sopra, e tu gli hai chiesto della fine del matrimonio con la sua ex moglie.>> Luna si stava di gran lunga divertendo, caro lettore, e non poco. <<Sei proprio insensibile!>>
<<Smettila, non avevo letto le domande prima di arrivare lì. E comunque non ci vedo niente di male in una domanda simile.>>
<<Beh forse tu no, ma il signor Mirren è un tipo riservato, Jane, ricordatelo.>> Luna mi prendeva in giro proprio come una bulla. <<Dovresti proprio abbandonare il giornalismo, amica mia.>> disse tutta divertita e sorridente, mentre indossò i guanti da forno per prelevare il nostro pasticcio squisito, pronto per essere servito.
<<Non mi licenzierò solo perché me lo ha detto lui. Chi è questo signor Mirren?>> dissi a mia volta divertita, perchè le risposte di Luna mi avevano distratto dal senso di delusione che provavo nei miei confronti.
<<Diglielo amica. Quella famiglia non ci fa paura!>>
<<Ben detto. Ora mangiamo.>>
<<Subito.>>
In brevissimi secondi, avevo abbandonato ogni essenza negativa che mi ero portata fino a casa mia e, con l'aiuto del senso umoristico di Luna, non pensavo più a quell'intervista andata a rotoli. La sera stessa, avrei elaborato delle buone risposte, almeno quelle di cui ero in possesso, le avrei calibrate e strutturate in modo da non cagionare la disapprovazione del signor Mirren. Perché pensai che avrebbe di sicuro letto il mio articolo, e se magari non si fosse trovato d'accordo con qualcosa, avrebbe chiamato il signor Wilson avvertendolo che la ridicola giornalista Jane Feyer, aveva osato riportare false notizie sul suo conto. Questo non doveva accadere. In realtà non potevo avere la certezza che il signor Mirren avrebbe fatto una cosa del genere, ma dopo l'incontro con quell'uomo, mi ero ripromessa che avrei avuto un'accurata attenzione nello scrivere la sua intervista.
Avevo scritto parola su parola sul mio taccuino rosa, con la matita che il signor Mirren mi aveva dato per esigenza, e di cui solo più tardi mi accorsi che riportava il nome Mirren nella parte dell'estremità alla fine. Proprio modesti, questi Mirren.
Peccato che il mio taccuino era scivolato via dalla mia borsa in cuoio durante la mia corsa contro il tempo per fuggire fuori dal suo ufficio, e che era finito nelle mani di Margaret, la governante, che nonostante i suoi assidui richiami fuori dalla villa, io ero andata via senza accorgermi della sua voce cigolante.
<<Signore, la ragazza ha perso il taccuino.>> Margaret era appena entrata nell'ufficio del padrone di casa porgendogli il taccuino della smemorata sulla scrivania.
<<Grazie Margaret, glielo faremo riavere. Puoi andare.>> Henry si abbandonò sulla sua poltrona da lavoro, ripensando all'episodio che si era appena presentato. Forse pensò di essere stato un tantino esagerato, o che forse avesse fatto bene. Non lo so, caro lettore. Ma posso dire con fermezza, che Henry Mirren rimedia sempre ai suoi errori, e li fa scomparire come cenere. Si strofinò entrambi gli occhi con una mano, volendosi prendere una pausa da tutte quelle carte da firmare, o da rivedere, e si alzò osservando il paesaggio fuori dalla sua finestra. La villa dei Mirren si trovava in piena periferia, arrivarci a piedi era quasi impossibile, dato l'enorme quantità di strada che la separava da Londra. Le terre che la circondavano erano di un verde splendente, un verde vivo, e il muschio cresceva in quantità infinita con vigore, in ogni roccia di pianura che si innalzava.
Era una delle dimore estive dei Windsor, e adesso era nelle mani di quella ricca famiglia che però aveva rinunciato alla felicità molti anni prima. Quanti principi, principesse, re e regine, avevano camminando in quella deserta dimora lontana dal caos cittadino?
Tanti, forse anche troppi. Quella casa era ormai simbolo della colossale famiglia che l'abitava da moltissimo tempo, e ne rappresentava in pieno il suo potere.
D'un tratto le riflessioni del signor Mirren, furono interrotte dal chiassoso suono del telefono d'ufficio, un telefono fisso che aveva tenuto per questioni affaristiche.
<<Casa Mirren. Sono Henry.>>
<<Henry, sono Mason, ti chiamo dal carcere di Wandsworth.>>
<<Mason. Che succede?>> Mason conosceva Henry dagli anni del tirocinio. Era un uomo di media statura, sulla cinquantina. Per un periodo, quando Henry volle iniziare a lavorare per Scotland Yard, lo affiancarono proprio al signor Mason, un noto agente e fedele amico del padre, che lo prese in custodia fino al conseguimento del titolo di Agente ufficiale di Henry. Negli ultimi anni della sua carriera, il signor Mason volle abbandonare il ruolo di Primo Agente datogli da Henry anni prima, per dedicarsi al carcere di Wandsworth, un luogo in cui fece tappa negli anni della giovinezza prima di Scotland Yard.
<<Qualcuno ha assassinato Trevor Brown. Diverse coltellate al torace.>>
<<Cosa? Chi è stato, Mason?>> lo sguardo di Henry adesso si era fatto cupo, così come tutto il suo umore, che fu annientato dalla sgraziata notizia che gli arrivò.
<<Non lo sappiamo. Abbiamo cinque sospettati in isolamento. Dovresti venire a dare un'occhiata.>>
<<Arrivo.>> Henry posò il telefono fisso con veemenza, non curandosi che avrebbe potuto romperlo, ma d'altronde aveva appena ricevuto un agghiacciante notizia: l'unico testimone di un'importante indagine a cui da mesi stava lavorando Henry, e tutti i membri di Scotland Yard, era appena stato assassinato. Henry prese con sé la sua giacca di pelle nera e si precipitò fuori nell'immediatezza più assoluta, doveva correre, doveva arrivare al carcere di Wandsworth nel minor tempo possibile.
<<Signore, cos'è tutta questa premura?>> Margaret stava spiegando ad una domestica come lustrare bene il pavimento. <<Non ho tempo, Margaret. La mia auto è qua fuori?>>
<<Sì, è rimasta dove l'avete lasciata.>>
<<Bene.>> andò via prima che potesse sentire una risposta di Margaret.
<<Oggi sono tutti che corrono via da questa villa, ma che succede.>> disse Margaret sfogandosi con la nuova arrivata.
Henry aveva già messo in moto la sua auto, aveva già avvertito agli uomini di turno di aprire il grande portone in acciaio, in questo modo non avrebbe perso che si dica un secondo.
Il carcere di Wandsworth era un penitenziario riservatamente maschile che si trovava nei pressi della capitale inglese, considerato uno dei peggiori. Ospitava più di mille detenuti, e vivevano in condizioni miserabili, ma di questo non ne parlava nessuno.
Celle buie e strette si trovavano all'interno del penitenziario di Wandsworth, dove i detenuti avevano difficoltà ad abituarsi alla luce del sole nell'ora libera, dove le risse tra detenuti erano all'ordine del giorno, e dove la situazione era invivibile. Urla, lamenti, respiri affannosi, sofferenza, ansia e terrore. Wandsworth era l'inferno di coloro che l'inferno se l'erano cercato.
Arrivò dinanzi alla grande prigione, parcheggiò l'automobile nei pressi, e si avvio verso il grande portone in legno che separava quel purgatorio vivente dal resto dell'umanità.
Mason era lì insieme ad alcuni gruppi di poliziotti, c'erano anche due della scientifica, che erano giunti ad esaminare la tragica vicenda che a poco avrebbe portato Henry alla follia.
Il signor Mason stava discutendo con un uomo e una donna della scientifica che avevano appena analizzato i reperti rinvenuti dell'omicidio. Henry gli andò subito in contro.
<<Oh eccolo, Henry, loro sono del Metropolitan Police Service, hanno analizzato il corpo di Trevor.>>
<<Com'è accaduto.>> disse osservando i due agenti vestiti in bianco, e uno di loro rispose, <<Una coltellata all'addome, poi le successive tutte sul torace.>>
<<Avete trovato impronte?>>
<<Sfortunatamente no, chi lo ha accoltellato indossava dei guanti in microfibra, il che significa che ha voluto di proposito non lasciarle.>>
<<Va bene. Quanto sappiamo dell'omicidio?>>
<<E' successo nei bagni, erano in cinque nello stesso momento, ma solo uno di loro lo ha ucciso. In questo momento non abbiamo modo di verificare il colpevole, sappiamo solo che ha usato un coltellino da caccia inossidabile. Che è questo qui.>> l'agente sollevò la busta contenente la piccola arma del delitto.
<<Va bene, andate e cercate di scoprire il possibile.>> Henry liquidò i due agenti della scientifica e cercò un sentiero nella sua mente per riuscire a spiegarsi del perchè era stato proprio ucciso l'unico complice e testimone presente, dell'assassinio di un suo fedele collaboratore di polizia. Era un caso importante poiché lo coinvolgeva in prima persona, ma soprattutto non avrebbe mai voluto che la cosa si ripetesse in futuro.
<<Chi sono i cinque in isolamento?>> Mason gli mostrò un rapporto scritto proprio da lui, dove riportava i nomi dei cinque detenuti presenti durante l'omicidio.
E uno di loro lo conosceva molto bene.
Tra tutta la gentaglia che Henry aveva arrestato personalmente nel corso della sua estesa carriera, uno di loro gli era rimasto impresso nei ricordi, e si era propagato nella sua mente come un virus letale si propaga in tutto il corpo, fino a cibarsi ferocemente dei propri organi.
<<Non ci sono dubbi.>>
<<Che dici?>>
<<So chi è stato.>> consegnò il rapporto a Mason, addentrandosi all'interno del grande carcere. I corridoi del carcere erano di color bianco latte, mentre i corrimano e le varie porte in ferro erano di un blu intenso. Non so per quale motivo l'interno fosse così, caro lettore, ma posso dire per certo che chiunque sarebbe impazzito in meno di ventiquattro ore.
Henry arrivò nell'area delle celle d'isolamento, e sembrava essere al limite dell'indulgenza.
<<Apri la cella numero quattro.>> ordinò ad una guardia di turno.
<<Ma signore, non posso.>>
<<Aprila.>> afferrò il braccio del ragazzo sulla trentina forzandolo ad aprile la cella.
Henry entrò all'interno della grande stanza semibuia priva di luce, che accese grazie ad un interruttore. I detenuti, seppur rinchiusi in una vera e propria cella, per evitare che si avvicinassero troppo alla porta, avevano installato di recente un sistema di sbarre che non permettevano al detenuto di avanzare fino alla porta. Ed Henry si trovava dall'altra parte delle sbarre, e si trovò davanti il serpente più velenoso di tutti, quello che ancora oggi lo tormenta nei sogni, quello che a distanza di ben dieci anni, lo fa essere paranoico.
Quel serpente che aveva portato gli inferi nella capitale inglese, che aveva ucciso, e tormentato vite innocenti, e aveva impaurito notevolmente le piccole anime dei bambini.
Un serpente di nome Carl Looper.
Chiamato dai giornali di cronaca, il tiranno.
Psicopatico e sociopatico, con un senso dell'umorismo distorto e sadico.
Aveva sequestrato alcuni bambini, e anche donne, e li aveva torturati fino ad ucciderli.
Le madri di tutto il paese erano impaurite al pensiero che le prossime vittime sarebbero state proprio loro, con i loro bambini.
Carl era un demonio avvelenato nel profondo dell'animo, un disonesto scappato dal settimo cerchio dell'inferno di Dante, un Lucifero cacciato via dal paradiso, e trasformato in una creatura affamata di sangue, il sangue degli innocenti.
<<Henry.>> il ragazzo sulla ventina si avvicinò lentamente alle sbarre, <<Ti sono mancato?>> adesso stava sorridendo a trentadue denti.
<<Hai ucciso Trevor Brown.>> Henry si sedette nella sedia distante un metro e mezzo dalle sbarre, <<Perchè?>> lo guardava con uno sguardo severo, di chi avrebbe voluto uccidere.
<<Oh sai, era fastidioso. Tanto fastidioso. Litigava sempre con tutti, ma ehi, non pensare che sia stato io.>>
<<So' bene che sei stato tu.>> il suo tono si era fatto aggressivo. Ma parlava a bassa voce.
<<Perché avrei dovuto uccidere quell'idiota?>> Carl ora si era appoggiato alle sbarre.
<<Dimmelo, Henry.>>
<<Perché era l'unico testimone per un crimine importante, e tu lo sapevi. Sapevi che era un'indagine importante per me, e hai voluto rovinarmi l'unica via che avessi per scoprirne di più. Puoi continuare a dire il contrario ma io so, che ci sei tu dietro tutto questo. E non basteranno ventiquattrore di isolamento per il danno che hai fatto.>>
Carl rispose con un angosciante risata, che avrebbe fatto rabbrividire anche l'uomo più ferreo al mondo. Tranne Henry, lui lo fissava in attesa di una vera risposta alla sua indiretta minaccia, e con questo si accese una sigaretta.
<<Perché dovrei farti una cosa simile, Henry?>> aveva appena terminato di ridere, e adesso parlava con Henry con un tono così apparentemente amichevole.
<<Cosa dovrei guadagnarci? Perché avrei dovuto farlo? Non era forse un tipo fastidioso che creava sempre problemi?>> adesso Carl, si era messo a parlare come un pagliaccio da circo parla ai bambini.
<<Forse era una testa di cazzo. Ma mi serviva, era l'unico che poteva aiutarci a trovare l'assassino del Vicecomandante.>>
<<A te non importa niente della vita di quell'uomo, Henry.>> guardava gli occhi marmati di Henry.  <<Ti serviva solo per quell'indagine. Ma se quell'uomo fosse morto dopo la sua testimonianza, non ti saresti precipitato qui.>>
<<Con questo cosa vuoi dire?>>
<<Parli e guardi con disprezzo chi sta dietro le sbarre, come me. Ma sai, i criminali non sono solo quelli come me, o come Trevor.>> lo stava fissando con aria di sfida. <<Le menti malate, i carnefici, gli assassini, e i bugiardi si nascondono anche dietro un distintivo, o una divisa.>> Henry si era alzato in piedi, ma non prima di aver spento la sigaretta pestandola con un piede, e ora era a braccia conserte ad ascoltare il tetro discorso di quel tiranno.
<<Anche tu hai la mente malata. L'unica cosa che ti impedisce di far uscire fuori questa parte oscura di te, è la tua posizione.>>
<<Ti sbagli. Non sono un assassino. Neanche un carnefice.>>
<<Io e te siamo uguali, Henry. Il limite sta solo nella tua mente.>> Carl portò un indice in una tempia, mentre fissava Henry in modo maniacale. <<Sta a te varcare quel limite. E tu sei come noi. Malato. Avvelenato. Pazzo.>>
<<Noi non siamo uguali. Non abbiamo niente di simile. Sei solo un ragazzetto disturbato, sadico e maniacale, che fa del male per puro divertimento. Tu sei malato, Carl.>> quelle parole dette con la giusta dose di cattiveria al solo fine di ferirlo, lo disturbavano.
<<Adesso non hai più il tuo testimone. Malato o no, non c'è l'hai più.>> lo guardò terminando la frase con una risata frivola. <<Sei solo un pezzente, un criminale travestito da poliziotto. Presto la tua vera natura uscirà fuori, Henry. Sei malato quanto me.>>
Seguì un silenzio tombale, ed Henry che era sfibrato e scocciato di quella conversazione, si avvicinò con calma alle strette sbarre di ferro, fino a trovarsi faccia a faccia con il tiranno.
<<Goditi il tuo inferno.>> lo liquidò in un attimo, prima che potesse controbattere alla sua frase. <<Chiudi questa cella. Non dovete fargli vedere la luce del sole prima di domani.>> ordinò alla guardia  prima che Mason potesse interromperlo.
<<Henry.>> Il signor Mason cercò di richiamare la sua attenzione, mentre Henry si dirigeva all'uscita del carcere.
<<Cosa c'è. Ne ho abbastanza.>>
<<L'indagine verrà archiviata.>>
<<Non verrà archiviata. Troveremo il colpevole anche senza il testimone.>>
<<Fermo.>> Mason afferrò Henry per un braccio, e sembrò l'unica soluzione per fermarlo.
<<Cosa vuoi.>> Henry sembrava infastidito dall'incontro con quel detenuto, ciò saltò all'occhio proprio a Mason. <<Cosa ti ha detto lui?>>
<<Non so di cosa, e di chi tu stia parlando.>>
<<Non prendermi in giro. Looper. Sei uscito scosso da quella cella, dimmi cosa ti ha detto.>>
<<E' stato lui ad ucciderlo. Ma non abbiamo prove.>>
<<Cosa ti fa credere che sia stato proprio lui? Erano in cinque, in bagno.>>
<<Mason. E' stato lui.>> L'ira di Henry era evidente dalla fermezza dei suoi occhi.
<<Henry so che ti porti ancora nella coscienza quel giorno.>>
<<Quale coscienza? Di cosa parli?>> il tono di Henry si era fatto tanto acuto.
<<Sai di cosa parlo. Quel ragazzo->>
<<Quel "ragazzo", ha ucciso bambini, madri, ha squartato corpi. Ha creato il caos, ha sparso sangue, è un mostro. E tu mi parli della mia coscienza? Stai scherzando, Mason?>> il suo tono minaccioso era impietoso.
<<E' vero, ma lo capisci che c'è l'ha con te per quello che gli hai fatto?>>
<<Io non gli ho fatto niente. E' un assassino, e merita di marcire in quella cazzo di cella.>>
<<Sai bene a cosa e a quanto tempo fa mi riferisco.>> un silenzio quasi pauroso seguì dopo le parole del povero signor Mason, che stava per essere punito.
<<Da che parte stai? Mh?>> Henry si avvicinò a Mason con fare aggressivo. <<Se sei dalla sua parte allora fai quello che devi fare.>> subito dopo salì in auto. Mise in moto. Si allontanò da quel luogo, o forse semplicemente, stava fuggendo dai problemi.
Quell'uomo che gli aveva fatto da mentore, che lo aveva guidato nel suo lavoro, gli si era rivelato quasi un impostore. Ma Henry infondo sapeva bene a cosa si riferivano le parole di Mason. Quelle parole che avevano toccato una parte delicata della sua coscienza, avevano fatto riaffiorare in lui i ricordi di quell'avvenimento, che gli imposero una lunga e dolorosa penitenza lunga dieci anni. Il senso di colpa, il pentimento di un crimine che abbiamo commesso anni or sui, riaffioravano ogni volta che Henry chiudeva gli occhi per dormire.
Quei problemi che Henry pensò di essersi lasciato alle spalle erano appena tornati.
Il passato che credeva di aver cancellato, aveva appena bussato alla sua porta.
E questa volta non l'avrebbe scampata. Non ora che il passato, quel giorno, gli divenne presente.
Questa volta Henry non aveva via di fuga.
E quella canaglia tanto crudele di Carl Looper, sapeva bene che prima o poi avrebbe riscattato il suo debito. Un debito che Henry, aveva cancellato dalla sua memoria, ma che trasaliva in superficie ogni volta che aveva un attimo di pace.
Una pace che si sarebbe tramutata in guerra.
Carl aspettava.
E prima o poi, avrebbe avuto quello che voleva.

This restless loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora